Un'estate di serie tv/ 3

Il successo e i cliché degli zombie di Walking Dead

Federico Tarquini

Quante volte, in una sala cinematografica o davanti al nostro televisore, abbiamo assistito ad un dialogo di questo genere? Se si pensa alla storia del cinema si potrebbe perfino sostenere che tale scambio di battute, tra il personaggio protagonista appena risvegliatosi in un mondo totalmente mutato e il suo occasionale salvatore, sia definitivamente un “classico”.

    – “Ma tu hai idea di quello che sta succedendo?”
    – “Mi sono svegliato oggi in ospedale, e sono andato a casa, non so altro”
    – “Ma sai delle persone morte, vero?”
    – “Si ne ho viste molte, fuori sui marciapiedi erano ammassate”
    – “No. Non quelle che stanno a terra, ma quelle che camminano”


    Quante volte, in una sala cinematografica o davanti al nostro televisore, abbiamo assistito ad un dialogo di questo genere? Se si pensa alla storia del cinema si potrebbe perfino sostenere che tale scambio di battute, tra il personaggio protagonista appena risvegliatosi in un mondo totalmente mutato e il suo occasionale salvatore, sia definitivamente un “classico”. Una scena, in pratica, ormai entrata nel nostro immaginario al pari delle sparatorie dei vecchi western o dei maccheroni di Alberto Sordi. Walking Dead, in questo senso, non fa eccezione. La serie prodotta dalla AMC e diretta da Frank Darabont, già regista di due film molto apprezzati come "Le ali della libertà" e "Il miglio verde", ripropone nel corso della prima stagione molti dei cliché che hanno fatto la storia degli zombie-movies. C'è il protagonista che si risveglia dopo il coma e scopre di vivere in un mondo a un metro dall'apocalisse, c'è il gruppo di sopravvissuti che si organizza e cerca la salvezza, c'è l'attacco alla villetta in legno e quello al centro commerciale, con gli zombi che lentamente forzano le porte d'ingresso, c'è il ricercatore pazzoide che ha quasi scoperto la cura contro il virus che ha scatenato la tragedia. Insomma, manca solo Michael Jackson con il suo mitico completo in pelle rosso e nero a sgambettare per le vie di Atlanta.

    Così presentato Walking Dead potrebbe sembrare semplicemente il solito prodotto televisivo che si limita a riproporre a memoria formule e racconti fortunati senza grande inventiva, confermando un'altra delle leggi non scritte della storia del grande e piccolo schermo, ovvero che i remake e i seguiti sono generalmente di una qualità minore rispetto agli originali. Non è questo il caso, principalmente per due ragioni. Innanzitutto Walking Dead, anche se può sembrare banale, mette paura e angoscia. L'ambientazione, il ritmo delle riprese, i costumi e ovviamente il modo con cui vengono “creati” i walkers compongono un serial che tiene incollati allo schermo tra ansia, stupore e, considerando il tipo di scene proposte, una buona dose di disgusto. Questo perché, a differenza di molti film di questo tipo, i protagonisti non sono affatto “fichi”: molto impauriti e incerti sulle scelte da prendere, spesso falliscono. Un aspetto forse scontenterà gli amanti, e soprattutto le amanti, del “tricipite da sparatoria”, quel sottogenere per intenderci di cui Stallone è l'esponente principale, ma permette alla serie di uscire dal pantano del “già visto” con un'insospettabile e convincente novità.

    In secondo luogo Walking Dead tocca un nervo scoperto del senso comune corrente, ossia la paura ancestrale del contagio e della malattia. Anche in questo caso la serie ripropone un altro aspetto chiave delle storie di zombi, ossia la possibilità che il contatto tra questi ultimi e un corpo sano determini la trasmissione della malattia che riduce l'uomo allo stato di walker. Lo fa però in un periodo storico in cui il tema della pandemia, a torto o a ragione, ciclicamente ritorna in auge. Il serial pertanto si va ad aggiungere ad una tendenza culturale del presente, traendone così vigore e ispirazione.

    La prima serie ovviamente termina lasciando irrisolti molti interrogativi, la seconda sarà in onda in Italia a partire dal prossimo autunno.