I buoni motivi per tenere un uomo in gabbia sono davvero pochi

Guido Vitiello

Quando si tratta di trovare soluzione ai problemi della vita associata, la specie umana oscilla inspiegabilmente tra genialità e dabbenaggine. Abbiamo inventato i viaggi in aeroplano, ma solo di recente siamo arrivati a concepire il trolley, i cui presupposti tecnici (recipiente di qualche tipo più ruota) c'erano già nel tardo Neolitico. Sono ormai le immagini satellitari ad avvisarci delle piogge imminenti, ma per ripararci non siamo riusciti a immaginare di meglio dell'ombrello.

    Quando si tratta di trovare soluzione ai problemi della vita associata, la specie umana oscilla inspiegabilmente tra genialità e dabbenaggine. Abbiamo inventato i viaggi in aeroplano, ma solo di recente siamo arrivati a concepire il trolley, i cui presupposti tecnici (recipiente di qualche tipo più ruota) c'erano già nel tardo Neolitico. Sono ormai le immagini satellitari ad avvisarci delle piogge imminenti, ma per ripararci non siamo riusciti a immaginare di meglio dell'ombrello, un utensile tutto spunzoni, impiccioso e potenzialmente omicida. Allo stesso modo, abbiamo edificato sistemi giuridici sontuosi e raffinati, ammirevoli per saggezza e capacità di accomodarsi alla varietà delle faccende umane, ma al momento di applicare la pena siamo ancora fermi al più grossolano dei rimedi: sbattere i nostri simili in gabbia.

    I posteri – sempre che il mondo non sia destinato a diventare una vasta prigione a cielo aperto – si meraviglieranno, c'è da giurarci, di questa lampante contraddizione. La scienza giuridica è giunta a distinguere con sottigliezza i diversi gradi della responsabilità, a codificare le sfumature dell'imputabilità, a delimitare i confini esatti del reato. Ma al momento di punire si va all'ingrosso: che ci sia colpa o dolo, che sia un delitto di sangue o un reato fiscale – sempre in gabbia si va a finire, e per il resto è solamente affare di computo d'anni o di mesi.

    Si è detto: contraddizione, ma dovremmo parlare piuttosto di una spaventosa sproporzione. Una sproporzione che Silvia Cecchi, magistrato e giurista, riassume nel titolo di un suo libro appena uscito, “Giustizia relativa e pena assoluta” (Liberilibri, 180 pagine, 16 euro), una “decostruzione dell'istituto della pena carceraria” condotta dal punto di vista della filosofia del diritto. Non c'è simmetria tra il reato e la pena, che anzi si situano su piani incommensurabili. Il primo, che è sempre relativo, riguarda una regione delimitata dell'attività del colpevole; il carcere, al contrario, investe per intero la sua persona – la libertà, gli averi, gli affetti, la salute: è una pena assoluta. Addestrati da una lunga tradizione casuistica a distinguere tra peccato e peccatore, tra errore ed errante, al momento di punire ce ne dimentichiamo, e con uno scambio metonimico che ha molto di primitivo riduciamo il criminale al suo crimine: l'autore di un furto diventa, ai fini della sanzione, un ladro punto e basta. Con quale logica? La sicurezza e la difesa sociale, si dice. Nel nostro ordinamento non è questo il fine del carcere; ma anche fosse, qualunque persona di senno dovrà constatare che i buoni motivi per tenere un uomo in gabbia – in gabbia! – sono davvero pochi. C'è poi la funzione retributiva, diciamo pure la vendetta legale, ma anche per questo la galera è soluzione rozza e indiscriminata.

    Per abolire il carcere i tempi non sono maturi, anche se resta l'“utopia concreta” dei decenni a venire, come la battezzò un vecchio convegno radicale. Nel frattempo, Silvia Cecchi propone di immaginare pene che siano circoscritte come circoscritta è la condotta che si vuole punire: sanzioni intelligenti che colpiscano chirurgicamente il comportamento criminoso “avendo cura di mantenere attive e vitali le componenti della personalità del reo non implicate nell'atto compiuto”. Per questo ci vuole una buona dose d'immaginazione giuridica, e a Silvia Cecchi – che è anche poetessa e musicista – di certo non manca. A ben vedere, non dovrebbe essere dote così rara in un paese che ha per poeta nazionale l'ideatore del contrappasso. Eppure, il grande partito trasversale del “buttiamo la chiave” manca totalmente di fantasia. Come Marx immaginava un futuro fatto di macchine a vapore sempre più grandi, così i nostri forcaioli hanno un solo ritornello: costruire più carceri, e sempre più capienti.

    Ma non ci aspettiamo che i legislatori siano toccati dalla Musa: ci basterebbe, intanto, che trovassero quel poco di ispirazione per dare al paese l'amnistia di cui ha disperato bisogno per tornare nella legalità.