Se l'inflazione si mangia gli Assad

Daniele Raineri

L'uso spietato della forza militare per schiacciare le proteste dei siriani non è un problema per il presidente Bashar el Assad. Il sistema repressivo è determinato e per ora tiene, come dimostra l'offensiva contro Hama negli ultimi due giorni.

    L'uso spietato della forza militare per schiacciare le proteste dei siriani non è un problema per il presidente Bashar el Assad. Il sistema repressivo è determinato e per ora tiene, come dimostra l'offensiva contro Hama negli ultimi due giorni. L'esercito registra poche defezioni, le forze di sicurezza sono mobili e massacrano i civili anche se i focolai di rivolta sono distanti tra loro, da Hama che è quasi sulla costa del Mediterraneo a Deir ez Zour, vicino al confine iracheno e smentiscono per ora chi sperava che i soldati fossero troppo pochi per tenere testa al bollettino delle proteste, il cuore del sistema regge perché la capitale Damasco è ancora tranquilla, tranne che nella periferia dei sunniti poveri che però non conta nulla. Il problema del regime è che l'economia della Siria sta implodendo, si sta afflosciando su se stessa e non c'è un rimedio pronto. I manifestanti non possono prevalere contro i carri armati e le mitragliatrici, ma stanno paralizzando il paese – che già di regola funziona male – e ora gli indicatori economici annunciano il disastro – secondo alcuni analisti sentiti da Reuters – “nel giro di quattro mesi”.

    Ayib Mayyaleh è il capo della Banca centrale della Siria ed è soltanto l'ultima di una serie di figure pubbliche chiamate a difendere la solidità del governo con argomenti disperati. Non è vero che tra un mese ci mancheranno i soldi per pagare i salari dei dipendenti pubblici e per rifornire i bancomat – ha detto pochi giorni fa – le voci in circolazione mentono, la Banca centrale ha nelle sue casse 197,6 miliardi di sterline siriane e la sterlina siriana è una valuta che regge. In realtà la sterlina siriana sta cedendo. Il suo valore si regge sulla fiducia che il siriano medio nutre in tempi normali nella longevità del regime e sui depositi che la gente comune conserva nelle banche del paese. Più i disordini si fanno intensi e gli scontri si allargano, più la fiducia viene meno e più gente si presenta agli sportelli per ritirare i propri risparmi e convertirli in un'altra moneta, soprattutto in dollari, per salvarne il valore. La conseguenza ovvia è che la sterlina siriana perde il suo peso e il dollaro ne acquista ancora di più. La Siria è un sistema chiuso e il tasso di cambio lo fissa il governo, che ha detto “non supererà mai le 50 sterline contro un dollaro americano”. E infatti oggi il tasso ufficiale è fermo a 47,5. Ma sul mercato nero, che ha il polso reale della situazione, il dollaro è già volato a 67 sterline, scrive il giornale libanese The National. Il deprezzamento è costante. Mayyaleh può sostenere a ragione che la Banca centrale è ancora seduta su sacchi di sterline siriane. Però la moneta vale sempre meno e arrestare trenta cambiavalute irregolari, come è successo in queste settimane, non cambia il dato economico.

    Per questo il regime due settimane
    fa ha chiesto un prestito di 105 milioni di dollari al Kuwait: con tutta quella moneta nazionale in caduta libera, ha bisogno urgente di valuta straniera e pregiata. Il governo ha provato a stabilizzare il valore della sterlina fin da marzo, bruciando settanta milioni di dollari a settimana, ma – secondo l'Economist – non credeva che la crisi sarebbe durata così a lungo. C'è un altro segno che la tranquillità del banchiere centrale è un bluff: il governo ha detto alle banche di alzare il tasso d'interesse sui depositi di due punti percentuali, per incoraggiare i risparmiatori a non ritirare il loro denaro. Secondo il Financial Times, già venti miliardi di dollari sono passati dalle banche siriane a quelle libanesi a partire da marzo. I soldi siriani si stanno spostando fisicamente in un altro paese (sul qutidiano arabo an Nahar, la giornalista Nadine Hani s'arrabbia: sono soltanto cinque miliardi di dollari). E intanto i siriani più furbi e spregiudicati prendono a prestito dallo stato: la scommessa è chiara, se il regime cade non dovranno restituire nulla.
    Hussain Abdul-Hussain, sul National, spiega che “le banconote siriane potrebbero presto non valere la carta su cui sono stampate. I siriani vedrebbero i loro risparmi svanire nello spazio di una notte e i salari diverrebbero inutili. Questa è la situazione che il regime degli Assad sta fronteggiando in questo momento”. Carl Phillips, il capo degli analisti sulla Siria per l'Economist, dice che “c'è il rischio che il governo finisca i soldi”.

    L'inflazione rende monco ogni tentativo
    del governo di assicurarsi la lealtà dei suoi alzando le paghe e concedendo favori: gli aumenti sono annullati dal deprezzamento della sterlina. Molto male, quando devi pagare un esercito in pieno assetto di guerra per fare violenza contro la popolazione. Molto male perché il settore civile della Siria, come accade in tutti i paesi arabi, è malato di elefantiasi e consuma un miliardo di dollari l'anno per il semplice fatto di esistere e di non produrre nulla – se non, in questi tempi, una blanda e muta solidarietà con il regime. Molto male infine perché a breve termine non c'è via d'uscita. Non entrano soldi. Il turismo, che assicurava il 12 per cento del pil, è virtualmente azzerato – i tour operator a Damasco e Aleppo dicono che la percentuale di camere libere negli alberghi è vicinissima a un surreale cento per cento. Il settore agricolo, che valeva un altro 18 per cento di pil, è devastato dalla siccità – e infatti la protesta è nata dalle zone agricole, esasperate dalla povertà e senza più nulla da perdere. Gli investimenti stranieri, forieri della tanto desiderata valuta estera, sono come il turismo: ridotti a zero – il banchiere centrale  Mayyali, nelle sue accorate conferenze stampa, sostiene il contrario, “sono tutti rimasti con noi”, ma è costretto dal ruolo, sarebbe pazzesco se ammettesse la verità.

    Resta il settore petrolifero, che conta per un buon quindici per cento delle entrate di Damasco, ma in questi mesi sta subendo un infarto per colpa delle sanzioni internazionali volute da Europa e Stati Uniti: il paese produce greggio, ma non ha raffinerie e ai consumatori arriva poco carburante. E in ogni caso, anche se la Siria fosse una democrazia di stampo svizzero, resterebbe un problema: le riserve sono in esaurimento.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)