La stirpe eletta dei tabloid

Paola Peduzzi

In principio fu Kelvin MacKenzie, il padrino dei direttori di tabloid, quello che fin da subito ha capito di non essere un gran scrittore, e non si è inutilmente ostinato, perché il suo forte erano i titoli, le impaginazioni a effetto, quel confezionamento del prodotto che la mattina, in edicola, fa la differenza. E' lui che, direttore del Sun dal 1981 al 1994, ha fatto la fortuna del quotidiano di proprietà di Rupert Murdoch.

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    In principio fu Kelvin MacKenzie, il padrino dei direttori di tabloid, quello che fin da subito ha capito di non essere un gran scrittore, e non si è inutilmente ostinato, perché il suo forte erano i titoli, le impaginazioni a effetto, quel confezionamento del prodotto che la mattina, in edicola, fa la differenza. E' lui che, direttore del Sun dal 1981 al 1994, ha fatto la fortuna del quotidiano di proprietà di Rupert Murdoch. MacKenzie era “il direttore preferito” di Rupert, perché capiva quel che voleva la gente, interpretava alla perfezione la realtà e poi la traduceva in caratteri cubitali e immagini mozzafiato.

    Vendere i giornali è un mestiere che pochi sanno fare bene. In un mercato agguerrito come quello inglese è un'arte: l'arte di strapparsi ogni giorno dalle mani quel bacino di circa dieci milioni di lettori che hanno poca fedeltà alla marca (la marca è la testata: ora che le preferenze politiche sono diventate più preponderanti, la fedeltà è aumentata) e che ogni giorno si fanno attrarre dal richiamo in copertina, dal titolo, dalla foto in prima pagina. Murdoch – che è il primo dei venditori di giornali, non soltanto perché ha una passione ormai drammaticamente rara per la carta stampata, ma perché è lo “Squalo” non per niente, sguazza nel sangue della competizione – i venditori dei suoi giornali, dei suoi tabloid, li ha scelti tutti a sua immagine e somiglianza. Come ha scritto Janine Gibson sul Guardian, c'è una linea rossa che unisce i direttori di successo dei tabloid, da MacKenzie a Rebekah Brooks, passando per Piers Morgan e Andy Coulson. Tutti con ego smisurati e manie inconfessabili, tutti capricciosi e insolenti e monomaniacali, tutti arroganti e ambiziosi. Tutti con la capacità di capire la materia più bistrattata del mondo: la cultura popolare.

    Tutti antipatici e controversi. MacKenzie si è fatto odiare da mezza Inghilterra perché, da thatcheriano di ferro (avrebbe poi scritto un libro di consigli ai conservatori dal modestissimo titolo “Kelvin saves the Tories”), ha iniziato campagne contro molti personaggi di spicco della sinistra, tormentandoli ogni giorno, e lo stesso trattamento è stato presto riservato alle celebrities (anche lo scandalo delle intercettazioni illegali è iniziato con le celebrities, che ora si stanno prendendo le loro rivincite, accusando e citando in giudizio i giornali di Murdoch, dimenticandosi un piccolo particolare: molte di queste celebrities sono diventate tali soltanto perché i tabloid si sono occupati di loro). La rivoluzione thatcheriana non sarebbe stata la stessa senza Kelvin MacKenzie, che è diventato l'obiettivo di tutta la satira, la critica, l'ira dell'establishment di sinistra – e lui ha mostrato il fianco, anche perché alcune storie di grande effetto si sono poi rivelate false (qualcuno si arrabbiò parecchio, Elton John citò il Sun in tribunale dopo che aveva scritto che il cantante aveva fatto sesso con un ragazzo a pagamento), minando la credibilità del direttore, ma non il successo nelle edicole. Rupert Murdoch è spesso intervenuto in difesa di MacKenzie con un'argomentazione banale e decisiva: quando avrete voi un'idea popolare e inizierete a vendere i vostri posatissimi e autorevolissimi giornali, presentatevi qui che ne riparliamo.

    Fin da subito nella formula vincente del tabloid è entrata l'illegalità. E' il motivo per cui nessuno ha mai preso sul serio l'inchiesta sulle intercettazioni di News of the World (per tutti era una fesseria, un'ossessione della sinistra da salotto del Guardian, soltanto gli addetti ai lavori si innervosivano quando si sentivano troppo sotto osservazione); è il motivo per cui una stessa inchiesta condotta qualche anno prima e finita nel 2006, nella quale furono fatti i nomi di 350 giornalisti che avevano commissionato, deciso, pagato le intercettazioni illegali, non è stata quasi notata dal grande pubblico; è il motivo per cui anche lo scandalo di questi giorni è diventato tale quando si è scoperto che le intercettazioni riguardavano la ragazzina scomparsa, la vedova del soldato morto, il parente della vittima dell'attacco terroristico, cioè il popolo britannico, non la famiglia reale, non le celebrities. Soltanto allora la questione è diventata di rilevanza per tutti (e ora che è diventata una storia di potere sta perdendo il suo appeal).

    Piers Morgan è stato l'enfant prodige dei tabloid, negli anni Novanta. Aveva ventotto anni quando è diventato il direttore di News of the World, nel 1994, scelto direttamente da Rupert Murdoch (prima aveva lavorato al Sun, reclutato da MacKenzie).

    Morgan ha sempre avuto un rapporto borderline con la privacy (anche con la propria, ha già scritto tre autobiografie, ogni volta un terremoto per la mondanità britannica e americana), e grazie a quella disinvoltura ai limiti della legge è diventato famoso. Nel suo primo memoir – un diario degli anni a News of the World e al Daily Mirror dal titolo “The Insider: The Private Diaries of a Scandalous Decade” – Morgan racconta un piccolo dettaglio che è stato ricordato da un blogger politico qualche giorno fa (poi un coro di deputati ha chiesto che anche lui ora sia arrostito dalla commissione parlamentare). Quando lavorava al Mirror (che non è di proprietà di Murdoch), Morgan ricorda che bastava un “little trick”, bastava digitare un “codice standard di quattro cifre” per chiamare un numero e “ascoltare tutti i messaggi”. Tre righe per raccontare le intercettazioni illegali, l'uso disinvolto che se ne faceva, con una consuetudine che rendeva del tutto superfluo preoccuparsi del fatto che fosse al di fuori di quanto consentito dalla legge. Nei suoi libri, Morgan racconta le conversazioni con Murdoch, le telefonate per sapere com'era la prima pagina del giornale, le discussioni su quel che vende di più di qui o di là dell'oceano (le immagini dei morti in prima pagina vendono in America e non nel Regno Unito, diceva Murdoch, lo aveva sperimentato in occasione della morte di Grace Kelly). In quel rapporto quotidiano (Rupert Murdoch ieri ha detto, durante la testimonianza, che lui non parla con i direttori dei suoi giornali; subito dopo Morgan su Twitter ha suggerito di confrontare quel che ha detto Murdoch con quello che lui ha scritto nel suo libro: un ego ancor più grande di quello del suo ex megaeditore), Morgan ha imparato i trucchi del mestiere, li ha adattati, li ha spinti sempre più in là, sempre più nella vita privata di tutti. Senza mai violare la legge – dice – ma camminando sul bordo della legalità. Ieri Piers Morgan, difendendo durante la sua trasmissione sulla Cnn il suo ex editore dalla “caccia alle streghe” di cui è vittima, ha ricordato quell'episodio: Rupert si arrabbiava quando succedevano episodi del genere, ricordava personalmente ai direttori che bisognava giocare secondo le regole. Morgan sostiene di non aver mai pubblicato una storia ottenuta da azioni illecite (e quel “little trick”?), ma ogni suo resoconto riporta alla questione di fondo: quanto sanno i direttori di tabloid? Quanto chiedono ai loro giornalisti su come hanno ottenuto certe notizie? Quanto sono tenuti a sapere?

    E' così che si arriva ai “rogue editor” di questi giorni: Andy Coulson e Rebekah Brooks. Entrambi sono stati direttori di tabloid di successo, Rebekah è stata cresciuta da Piers Morgan e Coulson da Rebekah. Sono stati entrambi arrestati per lo scandalo delle intercettazioni, sono loro che possono cambiare per sempre la situazione politico-mediatica del Regno Unito (Rebekah compromettendo Rupert e James Murdoch e Coulson compromettendo il premier, David Cameron). Ora si capiranno le loro responsabilità, quel che hanno deciso e quel che non hanno controllato, se Rebekah sapeva dell'intercettazione del telefono della ragazzina scomparsa e uccisa nel 2002 e il ruolo di Coulson in tutte le spiate degli anni successici. Ma in questi giorni la macchia sul loro curriculum non è soltanto quella dell'inchiesta: è non aver capito che stava arrivando questa crisi, non aver intuito che “la fesseria” delle intercettazioni illegali si stava trasformando e stava diventando rilevante per l'opinione pubblica. E' non aver capito quel che chiedeva il loro pubblico, l'errore più grave per un direttore di tabloid.

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    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi