Un giallo in procura

Non solo l'on. Romano. Perché ai pm di Palermo va quasi tutto storto

Riccardo Arena

Verrebbe da dire: povera procura di Palermo. Chiede la condanna e le assolvono persino Totò Riina, uno a cui negare un ergastolo è assai difficile (è successo al processo per il sequestro del giornalista Mauro De Mauro). Trasforma Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, in una “icona dell'antimafia” e finisce con l'arrestarlo per calunnia. Poi chiede di farlo rimanere in cella come calunniatore e lo liberano; chiede di tenerlo dentro almeno come bombarolo mancato e invece glielo mandano ai domiciliari.

    Verrebbe da dire: povera procura di Palermo. Chiede la condanna e le assolvono persino Totò Riina, uno a cui negare un ergastolo è assai difficile (è successo al processo per il sequestro del giornalista Mauro De Mauro). Trasforma Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, in una “icona dell'antimafia” e finisce con l'arrestarlo per calunnia. Poi chiede di farlo rimanere in cella come calunniatore e lo liberano; chiede di tenerlo dentro almeno come bombarolo mancato e invece glielo mandano ai domiciliari; chiede l'archiviazione per il ministro Saverio Romano e le impongono di formulare la richiesta di rinvio a giudizio.

    Il caso del ministro Romano è forse il più significativo. Appena pochi mesi fa, in gennaio, Totò Cuffaro è finito in galera per l'imputazione (quella di essere stato una “talpa”) che l'ala dura della procura riteneva “minimalista”. Ma in febbraio l'ex presidente della regione Sicilia è stato prosciolto dall'accusa che la stessa ala intransigente aveva considerato a lui adeguata, il concorso in associazione mafiosa. Ora però, lo stesso reato vanamente contestato a Cuffaro, che di Romano era amico e sodale politico, obtorto collo, i pm Ignazio De Francisci e Nino Di Matteo devono imputarlo proprio al ministro di Belmonte Mezzagno. Loro, i magistrati dell'accusa, volevano infatti archiviare, ma hanno trovato un gip che li ha contraddetti e costretti a chiedere il processo. Con la singolarità che il primo a offrire loro solidarietà è l'imputato: “Mi trovo nella paradossale condizione – dice il ministro a Repubblica – di dover difendere un pm che mi ha indagato per otto anni. Le domande, oggi, non dovreste farle a me ma al dottor Nino Di Matteo, costretto a cambiare le sue conclusioni”.

    Sfotte, Saverio? Forse sì, forse invece è sincero. Di certo è preoccupato, ma questi sono problemi suoi, del governo e della maggioranza. Però in fondo la speranza di Saverio il ministro è riposta soprattutto nella procura. Il dottor Di Matteo è infatti poco avvezzo alle critiche, ma più che rigoroso nel fare il suo lavoro e per nulla malleabile quando c'è in ballo la classe politica. Se dunque ha chiesto l'archiviazione, il pubblico ministero del processo al generale Mario Mori e dell'indagine sulla trattativa, ha certamente i suoi buoni motivi. E a vedere come va il processo Mori, bisogna riconoscere che il pm aveva ragione pure quando – prima del dibattimento – aveva chiesto l'archiviazione del caso, senza trovare, nemmeno quella volta, il consenso del gip, che allora era Maria Pino.

    Ma come mai alla procura guidata da Francesco Messineo da qualche tempo non ne va più bene una? Per carità, non mettete in mezzo il carisma e l'autorevolezza dell'ufficio e del suo capo: vi ritrovereste di botto imputati di diffamazione. E non mettete neppure nel conto il violento scontro sul caso Ciancimino con la procura di Caltanissetta: c'è in corso un'indagine del Csm, che i consiglieri di Palazzo dei Marescialli non vedono l'ora di chiudere nella maniera più indolore. Ma come non ricordare i tempi d'oro in cui procuratori come Gian Carlo Caselli e Pietro Grasso chiedevano non tutto ma di tutto e immediatamente arrivava quel che avevano chiesto? Magari non arrivavano tutte le condanne, però erano altri tempi, senz'altro: Palermo faceva tremare l'Italia, assieme alla procura di Milano, era lo spauracchio per le sue indagini che investivano la politica, la burocrazia, la Prima e la Seconda Repubblica, processi-monstre come quello contro Giulio Andreotti andavano da un secolo all'altro rovistando nella coscienza sporca della classe politica italiana, facevano paura e destavano sconcerto. Poi ci si accorgeva dell'inconcludenza e del periodare sconnesso di un'accusa che si incaponiva su temi che diventavano tormentoni – il bacio, i viaggi aerei segreti del sette volte presidente del Consiglio, persino i tatuaggi che avrebbero segnato la sua appartenenza a chissà quale associazione segreta – e ci si rendeva conto che un processo fondato soprattutto sulle dichiarazioni di un personaggio inqualificabile come Balduccio Di Maggio non poteva andare da nessuna parte. Eppure al senatore a vita non è andata benissimo, mascariato come è stato per tanti anni e colpito da una sentenza che non ha affatto trasformato il vecchio Belzebù in un agnellino candido. Sentenza che, si badi bene, è stata scritta dal giudice Mario Fontana, oggi presidente del tribunale che sta giudicando Mario Mori. Per cui, nel calcio come nella giustizia, le previsioni valgono quello che valgono e i risultati si vedono solo alla fine. Nemmeno a Pietro Grasso riuscì di far archiviare la vicenda del covo di Totò Riina, nel primo processo subìto a Palermo dall'ex capo del Ros, Mori.

    Ma Antonio Ingroia – oggi procuratore aggiunto e, secondo indiscrezioni sempre più insistenti, futuro candidato al Senato della Repubblica – cadde in piedi, come suo solito, chiedendo poi l'assoluzione del generale, al termine del dibattimento. Mori venne effettivamente assolto, dunque vinse l'accusa. Ma ora? La procura che ai tempi di Caselli e Grasso contava più di 70 unità, tra capo, aggiunti e sostituti, è ridotta a una quarantina di magistrati. Se prima tutti volevano venire a combattere la mafia, oggi trovare volontari è quanto meno problematico. Ranghi sguarniti, ufficio sfiduciato, un capo criticato sempre meno sottovoce dai suoi colleghi e da giornali come la stessa Repubblica. Nel palazzo di giustizia manca persino l'aria condizionata e nessuno sa risolvere nemmeno questo problema apparentemente insignificante.
    E' questo il contesto sciasciano in cui affondano le indagini basate sul contributo di un pataccaro come Massimo Ciancimino, che – come ieri il pentito assassino Di Maggio – ancora qualcuno dei pubblici ministeri si ostina a difendere, mentre altri hanno preso le distanze e sono rassegnati ad aspettare i sequel di contraccolpi e sfottimenti. Come non riderci su, infatti, quando Massimuccio dà le sue “spiegazioni” sull'esplosivo che teneva in casa? Quando ad esempio racconta di non avere detto nulla al suocero (per non allarmarlo) e poi di avere “riposto il pacco medesimo sull'automobile in uso anche a quest'ultimo”? Ecco, queste sono parole del gip Fernando Sestito: “Confermati appieno i gravi indizi di colpevolezza”, scrive il giudice, che continua parlando di “assoluta non credibilità delle spiegazioni finora rese dal Ciancimino, le quali, nonostante il mutare delle versioni, continuano a confliggere con la logica, oltre che con i canoni della comune esperienza”. Certo, da parole così è difficile aspettarsi poi che possano essere concessi i domiciliari all'indagato. Anche perché la procura ha dato parere contrario. Invece no, Massimo è a casa, la stessa in cui (forse) fabbricava i pizzini taroccati e in cui (sicuro) teneva ben nascosti altri pizzini e soprattutto i candelotti di dinamite.

    E che dire della paradossale vicenda di Saverio Romano? Che continua il momento storto? E' poco. Perché lì dove lo stesso pm Di Matteo vedeva “contiguità” e poco o nulla di più, il gip Giuliano Castiglia (uno che, dicono, rimanda indietro persino i decreti penali di condanna, poco più che multe, perché non condivide le conclusioni della procura) vede “disponibilità” e un contributo in favore di Cosa nostra prolungato nel tempo, ritenendo giustificato il processo. Dal quale Romano potrebbe uscire assolto: e in questo caso, tornare a giudicarlo sarebbe impossibile, anche in presenza di nuovi elementi. Scatterebbe infatti il “ne bis in idem”, la stessa formuletta che ha salvato Cuffaro dalla medesima accusa di concorso esterno. Rischiare non vale la pena, si erano detti in procura. Ora dovranno farlo comunque. Andando incontro a quella che in ogni caso apparirà come una sconfitta: se i pm otterranno la condanna, significherà che non avevano capito niente prima. Se ci sarà un'assoluzione, dimostreranno di non avere avuto la forza e l'autorevolezza per convincere il giudice che questo processo, come quel famoso matrimonio, non s'aveva da fare.