(foto Olycom)

Il romanzo di Bobo Maroni /7

La discesa agli inferi di Bobo (come Maroni divenne l'eterno sospettato)

Cristina Giudici e Marianna Rizzini

Da Enzo Biagi, in tv. Ci va Roberto Maroni, nel febbraio 1995. “Sono un sognatore deluso. Volevo che la Lega rivoluzionaria proseguisse la rivoluzione federalista dentro le istituzioni”, dice. E’ un ex ministro dell’Interno, Bobo, un dissidente quasi fuoriuscito dalla Lega e dal Parlamento

Da Enzo Biagi, in tv. Ci va Roberto Maroni, nel febbraio 1995. “Sono un sognatore deluso. Volevo che la Lega rivoluzionaria proseguisse la rivoluzione federalista dentro le istituzioni”, dice. E’ un ex ministro dell’Interno, Bobo, un dissidente quasi fuoriuscito dalla Lega e dal Parlamento. Prima è successo di tutto: un patto a base di sardine tra Umberto Bossi, Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione e una discesa agli inferi di Bobo, contrario a ribaltare la baracca berlusconiana in cui dimorava come ministro dell’Interno.
Siamo dentro o siamo fuori da questa maggioranza?, si chiede il leghista della strada oggi, vedendo che la Lega lancia mezzi ultimatum sui rifiuti, sulla Libia, sull’Afghanistan, sulle pensioni, sull’eventuale arresto del presunto piquattrista Alfonso Papa.

Siamo dentro o siamo fuori da questa maggioranza?, si chiedeva il leghista della strada nel tardo autunno del ’94, quando Bossi faceva l’altalena: un giorno era tutto un dàgli ai “fascisti” di An e al “Peron della mutua” (il Cav.), il giorno dopo era flebile retromarcia. “Mi assumo la responsabilità di togliere la fiducia al governo Berlusconi”, diceva infine Bossi nel dicembre ’94. “Portatemi Maroni”, urlò una sera mentre i pretoriani festeggiavano e mentre Maroni incontrava i cosiddetti “frondisti”, e quando poi Maroni ricompariva il Senatur faceva soltanto il padre padrone: “Cosa stai combinando, testa di cazzo?”. Allora come oggi, c’era sempre un Maroni al Viminale. Solo che ieri Bobo frenava: restiamo qui, a destra, perché è qui che si può fare il federalismo. E oggi Bobo sembra quasi fuggire in avanti, “dove ancora non si sa”, dicono nella Lega, indicando però con malizia quella “sintonia” con il neo segretario pdl Angelino Alfano. “Che si pensi già al centrodestra postberlusconiano dei cinquantenni, nord a te, sud a me?”, sintetizza un osservatore.

“Aveva ragione Bossi”, disse Maroni pochi mesi dopo quel dicembre ’94, vedendo che la Lega teneva nelle urne. “Guardi la Lega oggi e capisci che Maroni era stato lungimirante”, dice invece Marco Formentini, che un tempo dava Bobo per spacciato. “Avevamo forse visto giusto”, dice Irene Pivetti, ex presidente della Camera espulsa dalla Lega nel ’96: “Sia io che Bobo stavamo già pensando alla Lega di domani”.

“A Bobo ho scaldato il latte tutte le mattine, ma è il nostro braccio debole e va amputato”. Così parlò il senatur nei brutti giorni del febbraio ’95. Ora Bossi vede Bobo opporsi al suo cerchio magico e quasi tentenna (forse ce lo metto, il maroniano Giacomo Stucchi, a dirigere i leghisti alla Camera, dice il Senatur dopo aver riconfermato il bossiano Reguzzoni). E però in quel febbraio del ’95 Bobo pareva essersi fatto definitivamente “ex”. Giorni pesanti, nebbia fuori e dentro il Palatrussardi. Neanche quattro passi sotto il tendone, lontano dal palco, poteva fare, Bobo, senza avvertire quel sibilo: “Traditore”. “Scimbiott”, scimmiotto, gli avevano gridato al bar. Perché Bobo aveva detto che bisognava scegliere, Forza Italia o Pds, e che se Bossi diceva “centro” era un errore, tanti auguri a voi. Erano arrivati i fischi, ed era andata quasi bene, ché potevano piovere pure sputi, vasi e monetine, com’era capitato all’altro dissidente, Flavio Caselli, uno che poi aveva detto “è la notte della ragione”. E fu così che Bobo divenne l’eterno sospettato.   

di Cristina Giudici, Marianna Rizzini

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