Un outsider per il Fmi

Ugo Bertone

Chissà cosa pensano ad Atene – dopo che ieri Standard & Poor's ha tagliato ancora il rating della Grecia da “B” a “CCC” (il peggiore al mondo) segnalando l'accresciuto timore di un default – dell'ultima candidatura arrivata per la guida del Fondo monetario internazionale (Fmi), quella dell'israeliano Stanley Fischer. Alla metà degli anni 90, pur di convincere il governo di Seul a ripulire i bilanci delle banche coreane, Fischer, allora vicedirettore generale del Fmi, fece ricorso a una boutade da salotto parigino: “Sa cosa disse il generale Liautey al suo giardiniere?

    Chissà cosa pensano ad Atene – dopo che ieri Standard & Poor's ha tagliato ancora il rating della Grecia da “B” a “CCC” (il peggiore al mondo) segnalando l'accresciuto timore di un default – dell'ultima candidatura arrivata per la guida del Fondo monetario internazionale (Fmi), quella dell'israeliano Stanley Fischer. Alla metà degli anni 90, pur di convincere il governo di Seul a ripulire i bilanci delle banche coreane, Fischer, allora vicedirettore generale del Fmi, fece ricorso a una boutade da salotto parigino: “Sa cosa disse il generale Liautey al suo giardiniere? ‘Lo so anch'io che ci vogliono 150 anni prima che ricresca così. E' un buon motivo per cominciare subito'”. La battuta non avrà convinto il premier coreano, ma la cura severa imposta dal Fmi al sistema finanziario del Far East è una delle ragioni dell'attuale boom di quella parte del mondo. Una ragione di merito per Fischer, oggi governatore della Banca centrale di Israele, che, a 67 anni (oltre la data limite dei 65 anni prevista dai regolamenti), ha lanciato a sorpresa la sua candidatura per la successione a Dominique Strauss-Kahn.

    Una mossa calcolata, con il sostegno tacito di Washington? O l'ultima follia di un genio con ottimi contatti nelle stanze che contano? Difficile capirlo, per ora. Anche perché Fischer, nato in Zambia nel 1943 quando quella parte del Commonwealth britannico si chiamava ancora Northern Rhodesia, non è tipo facile da inquadrare. Basti dire che, tra i primi a pronunciarsi in favore della sua candidatura, ci sono stati George Abed, il banchiere già a capo dell'Autorità monetaria Palestinese, e il primo ministro di Palestina, Salam Fayyad. Mica male per un convinto sionista che a 15 anni conobbe l'attuale signora Fischer in un kibbutz dove si recava ogni anno assieme ai giovani ebrei rhodesiani. Ancor più difficile per un banchiere di passaporto americano che, dalla poltrona di numero due di Citigroup, venne chiamato a dirigere la Banca di Israele da due falchi come Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu. Ieri quest'ultimo ha ribadito che Fischer “sarebbe uno splendido capo del Fmi”.

    Oggi nessuno discute il fatto che, dietro il boom dell'economia israeliana, ci sia proprio la mano di Fischer, abilissimo a gestire la leva del cambio dello shekel a vantaggio dell'export ma senza crear danni ad un bilancio, su cui gravano enormi spese militari. Semmai, almeno da un anno o due, a Gerusalemme sono consapevoli che “The banker”, premiato come banchiere centrale dell'anno nel 2010, poteva aspirare a un ruolo più rilevante ai tempi della grande crisi. Soprattutto ora che alla testa delle Banche centrali più importanti sono finiti due suoi allievi al Mit: Ben Bernanke, il governatore della Fed, che prese il dottorato proprio sotto la guida di Fischer, e Mario Draghi, altro allievo eccellente. Per questo, non furono in pochi a pensare che Fischer avrebbe ritirato fuori dal cassetto il passaporto americano per  approdare alla Fed di New York, dopo la promozione di un altro suo allievo, Timothy Geithner, oggi segretario al Tesoro, che gli aveva fatto da assistente negli anni della crisi asiatica. Pista sbagliata. Anche perché nel 2000, quand'era in pole position per la promozione, Washington preferì ritirare la sua candidatura in ossequio alla regola non scritta che al Fmi ci doveva andare un europeo. Oggi, forse, il teorema è passato di moda: madame Christine Lagarde, ministro delle Finanze francese, ha fatto il giro del mondo per strappare consensi sul suo nome, con esiti incerti. Dalla sua si è schierato l'Egitto, così come l'Indonesia.

    Ma Cina e India non si sono pronunciate. Del resto, oggi 79 dei 114 miliardi di dollari a disposizione del Fmi sono impegnati in Europa: ha senso – ha chiesto ieri polemicamente il governatore centrale messicano, Agustín Carstens, altro candidato alla successione di DSK – affidare il controllo di questi quattrini a un politico europeo? Non si rischia un conflitto di interessi? Per queste ragioni Fischer potrebbe rappresentare una soluzione ideale: i precedenti, crisi asiatica e russa, depongono a favore della sua rigidità. Ma, al contrario, lo si accusa di esser stato troppo clemente nei confronti dell'Argentina, due volte salvata prima del default. Il premio Nobel per l'Economia, Joseph Stiglitz, sostenne invece che la severità di Fischer verso l'Asia era dovuta ai suoi legami con le grandi banche. Al posto di Fischer replicò un altro economista di grido: Kenneth Rogoff, genio degli scacchi prestato alla storia economica, che non si limitò alle mezze misure: “Stiglitz – disse – è un ciarlatano e un miserabile che mette in dubbio l'onestà di un grand'uomo”. Insomma, da Rogoff all'autorità palestinese, a Fischer non mancano gli amici. Ma i voti, forse, sì.