Infelicità della democrazia

Adriano Sofri

Il dialogo di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky sulla “Felicità della democrazia” è uscito a ridosso delle ribellioni del vicino oriente e alla vigilia del colpo contro Osama bin Laden. Si è detto, e soprattutto si è auspicato, che il secondo chiuda un ciclo, e le prime ne inaugurino uno opposto. L'11 settembre è al centro del dialogo. Mauro ribadisce quello che avvertì dal primo momento, che “il bersaglio era la democrazia occidentale nel suo insieme, e l'11 settembre attende anche da noi una risposta”.

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    Il dialogo di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky sulla “Felicità della democrazia” è uscito a ridosso delle ribellioni del vicino oriente e alla vigilia del colpo contro Osama bin Laden. Si è detto, e soprattutto si è auspicato, che il secondo chiuda un ciclo, e le prime ne inaugurino uno opposto. L'11 settembre è al centro del dialogo. Mauro ribadisce quello che avvertì dal primo momento, che “il bersaglio era la democrazia occidentale nel suo insieme, e l'11 settembre attende anche da noi una risposta”. In quella strage spettacolosa culminò l'incendio islamista che sconfessava l'illusionismo sulla “fine della storia” e soppiantava lo spettro evanescente del comunismo. Zagrebelsky lo dice, a parti rovesciate: “Abbiamo bisogno di capire quello che, oggi, è l'altro, cioè il mondo islamico, e, contemporaneamente, di comprendere noi stessi… La grande divisione era tra l'occidente democratico e l'oriente totalitario. Oggi… si corre il rischio di sostituire l'islam al comunismo”. Propongo di allargare l'orizzonte, per vedere quante “guerre”, intrecciate e contrastanti, infurino dentro la famosa globalizzazione. L'allargamento è decisivo in particolare su due punti toccati dal dialogo: la questione della “sovranità nazionale”, e quella della guerra e della pace.

    Sul primo punto, sapendo che le categorie statuali ereditate (popolo, territorio, sovranità organizzata) sono sempre più svuotate, Zagrebelsky pensa tuttavia che “le conseguenze della globalizzazione si abbattono sul sistema industriale nazionale nel suo insieme: capitale e lavoro ne sono coinvolti ugualmente e dovrebbero essere alleati nel cercare rimedi”. Che è (come la scelta tedesca oggi invidiata) una possibilità di resistenza accanto ad altre, e per esempio all'eventualità di un'alleanza del lavoro oltre i confini nazionali, molto più lestamente superati dal capitale. Sul secondo punto, il giurista sottolinea che il dettato così forte della Costituzione sul “ripudio della guerra” si spiega “per le decine di milioni di morti la cui ombra pesava sulla Costituente”, la comune esigenza del mai più, e “perché la guerra è in sé la negazione della democrazia. E' forza scatenata”. Quel mai più volle dire allora soprattutto “mai più Hiroshima”: molto meno “mai più Auschwitz”. Mauro, da parte sua, riafferma che “la democrazia deve difendersi e difendere i suoi valori con ogni mezzo, anche con il mezzo estremo e per lei contro-natura della guerra… Il diritto internazionale va rispettato”. Ma c'è una via d'uscita fra il mai più alla guerra e la sua estrema inevitabilità?

    Nei giorni di Abbottabad, la cattedra dei diritti umani dell'Unesco ha tenuto il suo forum annuale nella bellissima sede del Dynamo Camp, sui monti pistoiesi, che accoglie e cura bambini gravemente malati. C'erano un centinaio di ventenni studiosi e praticanti dei diritti umani venuti da altrettanti paesi, un'occasione preziosa per ascoltare testimonianze e opinioni unite da un intento comune – “la democrazia” – e distinte dai punti di partenza: ne uso alcune. Il documento finale, denunciando ovviamente ogni pregiudizio, fa una sola esemplificazione: “Per es., l'islamofobia”. La riduzione suonerebbe sospetta di faziosità, o almeno di ingenuità “diplomatica” (non si ometterebbe la cristianofobia infuriante, né l'antisemitismo ecc.) se non fosse smentita dalla discussione e, energicamente, dagli estensori. E' tuttavia un segno. L'islamismo – il fondamentalismo islamista, non una religione d'origine e una fede e le loro innumerevoli accezioni – non è il solo nemico dell'occidente, né il solo successore fisico e simbolico del “comunismo”. Se non altro perché il più potente usufruttuario della globalizzazione, la Cina, è ancora a un tempo un modello di “comunismo” e di “dispotismo orientale”. E, benché con gli islam internazionali giochi con estrema spregiudicatezza, ha nei suoi islam interni e confinanti dei nemici odiati e affrontati con armi brutali. Nei confronti degli uiguri musulmani dello Xinjiang (il Turkestan orientale), come del resto col Tibet, il regime cinese persegue un programma di insediamenti che dia alla popolazione Han la maggioranza numerica – strategia il cui nome proprio è genocidio culturale. Una simile politica di trasferimenti umani avviene anche fuori dai confini. Il nord della Birmania, spiega l'esule Tim Aye Hardy, conosce l'invasione dei maschi cinesi che la demografia del figlio solo ha privato della possibilità di trovare moglie in patria: le donne birmane sono troppo povere per resistervi.

    Nel loro “Cinafrica” (il nome rimpiazza la breve fortuna di “Cindia”) Serge Michel e Michel Beuret citano un accademico cinese secondo cui “abbiamo seicento fiumi in Cina di cui quattrocento morti a causa dell'inquinamento. Non ne usciremo a meno di inviare trecento milioni di cinesi in Africa”. Khalid viene dal Bangladesh, ma appartiene alla minoranza originaria del Bihar, che vive da sempre senza diritti, dispersa in penosi campi profughi senza essere riconosciuta dall'Unhcr. Ha alle spalle una catena di secessioni sanguinose, da quella fra India a maggioranza hindu e Pakistan musulmano nel 1947 a quella fra Bangladesh musulmano bengali e Pakistan musulmano urdu nel 1971. (I tre paesi musulmani più popolosi sono asiatici e non arabi: Indonesia, Pakistan e Bangladesh).

    Il Baluchistan pachistano, altra regione rovente, è anch'esso destinatario di un'immigrazione programmata di punjabi e pashtun – e di taliban – tesa a mettere in minoranza i baluchi.
    Noi siamo abituati al nostro terzomondismo: siamo disabituati al terzomondismo del terzo mondo. I giovani attivisti che vengono da paesi come questi non diffidano del valore universale della “democrazia”, anche quando sottolineano un concetto di umanità, lo zulu “ubuntu”, solidale e comunitario, contro il nostro individualismo. Sono scandalizzati dall'enorme disparità nella considerazione dei problemi della Terra. Si educano sulla nobile lettera di convenzioni e trattati, ma li vedono interpretati e traditi a piacere dagli interessi delle grandi potenze. L'intervento in Libia appare loro ipocrita e strumentale, sullo sfondo dell'inerzia che accompagna genocidi milionari. Non c'è stato da noi, lo scorso 7 aprile, il minuto di silenzio votato per il Ruanda. I minuti dovrebbero essere tanti che il mondo si fermerebbe in silenzio per un lungo tempo, e forse è proprio quello che dovrebbe succedere. “Troppo spesso – dice il titolare della cattedra Unesco, l'ugandese-americano Amii Omara-Otunnu – l'intervento detto umanitario viene compiuto dal bullo della porta accanto”. Ritenendo impossibile misurarsi con le potenze, questi attivisti si riservano il campo dei principi e dell'istruzione. Ottenere dichiarazioni di principio corrette, benché per ora senza effetto, e perseguire l'educazione. “La Cina è interessata alle risorse naturali birmane, la Russia vende armi ai suoi tiranni: mettono il veto”. E non sono solo armi e minerali pregiati, sono corpi umani. “Chi conosce abbastanza il traffico di bambini venduti per prostituzione a Dubai o a Singapore?”. Chi sa che le vittime delle “guerre” nella Repubblica del Congo sono almeno dieci milioni, e che le donne stuprate sono decine e forse centinaia di migliaia in un anno? E che gli stupri sono pratica corrente anche a opera delle truppe Onu? “Nessuna società sa altrettanto come le donne vengano schiacciate e distrutte”.

    I media, la propaganda benintesa, dice Otunnu, è il passo possibile per arrivare alla coerenza fra retorica e fatti. “Ho visitato le minoranze dello Yunnan – racconta – decine di milioni di persone, hanno un reddito pro capite nei villaggi più basso di quello africano. Nei dettagli la Cina non ha ancora tanto successo… Nessun paese dura sulla paura. Né l'Egitto, né la Cina. Gli inglesi in India governavano con la paura. I giovani a un certo punto non avranno più paura. Succederà ai cinesi anche in Africa, li vedranno come oppressori e si solleveranno, a partire dai villaggi”.

    Dice Zagrebelsky, nel dialogo: “Il punto di divisione è la concezione della società: individualista, l'occidentale; comunitaria, le orientali e africane. Quello che per noi è sinonimo di libertà dei singoli, per loro è sinonimo di distruzione delle identità di gruppo. Se non si riconoscono queste differenze, l'occidente non cessa d'essere imperialistico… Da questo punto di vista, globalizzazione può essere un altro modo di dire occidentalizzazione”. E' un fatto che la globalizzazione fa vincere Cina e India: il fenomeno più rilevante di questi giorni di rivolgimenti è nell'intensificazione dei rapporti del Brics, e nella deriva tedesca alla loro volta, a spese dell'Europa. Occidentalizzazione non vuol dire necessariamente democrazia, purtroppo, e anzi fattori formidabili (direzioni multinazionali, correzioni “ecologiche”, migrazioni demografiche) accreditano sistemi di governo autoritari.

    C'è un modello misto, di occidentalizzazione di consumi e costumi, e orientalizzazione politica. (Ed economia sovranazionale e sovranità nazionalista). Cinese, appunto, fintanto che regge: “La democrazia socialista con caratteristiche cinesi”. Quanto al diritto internazionale, l'alternativa è chiara. Che i rapporti di forza mondiali escludano alcune potenze dal controllo internazionale rende forse inutile, o addirittura nocivo, l'esercizio della legge e della polizia internazionale dovunque sia possibile? Paradossalmente, lo stesso interrogativo si potrebbe porre per il singolo paese in cui una parte di territorio sia usurpata da poteri illegali – conosciamo bene il caso: si dovrebbe rinunziare a legge e polizia e tribunali?

    La questione della giustizia legale
    ha a che fare con quella della giustizia sociale, e con quella delle armi. “Se si impiegasse per la giustizia una parte di quello che si dissipa per gli armamenti, il mondo cambierebbe”, dice il “practical idealist” Otunnu. La proliferazione criminale di armamenti è il sostituto del diritto internazionale, e distorce lo stesso uso della forza quando venga legittimamente deciso. E' la differenza, non di nome, fra azione di polizia e di guerra. Una polizia internazionale, esattamente come una locale, deve rispondere a tre condizioni: obbedire alla legge, usare una forza proporzionata al suo scopo, e considerare le persone incolpevoli che si trovano nel campo “nemico” alla stessa stregua dei propri cittadini. Senza aderire a questo impegno, la dedizione alla causa dei diritti umani e del bene delle persone con cui si entra in contatto si priva di un compimento essenziale.

     

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