L'uomo che arresta i mafiosi

Il capo della polizia scettico sulla gestione convegnistica dei pentiti

Daniele Raineri

Il capo della polizia Antonio Manganelli è fresco di soddisfazione per la cattura di Mario Caterino, numero due del clan camorristico dei Casalesi, che è soltanto l'ultimo di una serie di arresti importanti: “Senza trionfalismi, ma qualche pezzo lo stanno perdendo”. Accetta di parlare su un grande numero di questioni, dalla lotta contro i Casalesi ai tagli dei fondi alla polizia, dal rischio di una rappresaglia della Libia contro l'Italia al caso Abu Omar, l'imam sequestrato a Milano dalla Cia nel 2003.

    Il capo della polizia Antonio Manganelli è fresco di soddisfazione per la cattura di Mario Caterino, numero due del clan camorristico dei Casalesi, che è soltanto l'ultimo di una serie di arresti importanti: “Senza trionfalismi, ma qualche pezzo lo stanno perdendo”. Accetta di parlare su un grande numero di questioni, dalla lotta contro i Casalesi ai tagli dei fondi alla polizia, dal rischio di una rappresaglia della Libia contro l'Italia al caso Abu Omar, l'imam sequestrato a Milano dalla Cia nel 2003. Eppure, dice al Foglio, ha “una riflessione nostalgica da fare”, che parte dalla categoria dei nuovi pentiti e arriva al momento dannato della “Verità dei pentiti”, sparata subito nei titoli cubitali dei giornali senza mai essere stata verificata. “Temo che il giocattolo oggi riveli qualche guasto – dice Manganelli – non si possono riscrivere le storie di mafia e antimafia affidandosi al primo che capita… insomma, si tratta di anni di sangue, di anni di lavoro, di anni di grande espressione di professionalità da parte di grandi investigatori”.

    Manganelli racconta un mondo alla rovescia, dove l'annuncio pubblico dei risultati d'inchiesta arriva subito – appena dopo le prime dichiarazioni di chi sceglie di collaborare con i magistrati – con tutto l'effetto che ne consegue; e l'indagine di conferma comincia invece dopo. “Io credo che oggi il vero problema, che ormai è diventato un vizio, è che loro enunciano una verità. La dibattono. Ne fanno oggetto di convegni, di tavole rotonde, di salotti televisivi, la consolidano come verità nell'opinione pubblica, che ormai assume essere quella la Verità, e poi, soltanto dopo che questa Verità è stata raccontata al mondo, comincia un'opera lenta e pure difficile, certo che è difficile quando sono passati anni, di dimostrazione. Se ci fosse un po' di riservatezza in più nella fase dell'istruttoria, diciamo, nella fase in cui si sta lavorando a questa verità, e se venisse annunciata al mondo soltanto quella verità che viene poi riscontrata, suffragata da elementi certi, se non ci affidassimo soltanto al vangelo secondo Matteo, o al vangelo secondo Giovanni…”.

    I pentiti appartengono ancora
    alla categoria delle fonti valide? Massimo Ciancimino il giovane ha appena fatto la figura del pataccaro, beccato e arrestato perché ha manipolato il documento che avrebbe dovuto sostenere tutta la sua credibilità di accusatore. “U' verru”, Giovanni Brusca, dà l'impressione di essere un vecchio rudere, pronto a sostenere davanti ai magistrati  tutto e il contrario di tutto. Da tempo in realtà si assisteva a una degenerazione, ma oggi cosa succede? “Io ho gestito una serie di persone, di fonti, da Tommaso Buscetta a Totuccio Contorno, da Antonino Calderone a Francesco Marino Mannoia, a Leonardo Messina, ed era un'esperienza pionieristica perché a quel tempo non c'era nemmeno la legge sui pentiti. A quel tempo ogni caso di collaborazione con la giustizia era molto selezionato e la collaborazione era vagliata, verificata, riscontrata, poteva portare o non portare dei contributi al processo ma comunque si faceva un certo tipo di lavoro. Francamente tutto è rivisitabile, tutto è perfettibile, però bisogna farlo con la stessa professionalità, con la stessa esattezza. Questo purtroppo io vedo che non capita. E prima non andava così”.

    “Non è tanto il fatto che oggi è gestito male un collaboratore di giustizia. E' che è saltato quel meccanismo di riservatezza che dava pubblicità alle dichiarazioni del collaboratore e le faceva diventare verità storiche soltanto quando queste dichiarazioni erano entrate a pieno titolo in un processo, avevano avuto i propri contraddittori, si erano sentite altre campane: altrimenti si ha soltanto l'effetto di buttare schizzi di fango qua e là. Che magari sono funzionali giornalisticamente a un dibattito vivace oppure a portare acqua al mulino di questo o di quello. Però in effetti alla fine resti con un pugno di mosche in mano, perché scopri che quel processo viene archiviato e quell'altra istruttoria non ha esito. Il sistema in questo, devo dire, funziona, c'è un'autocorrezione, non è che il magistrato sostiene fino alla fine come verità processuale la prima Verità: soltanto che la prima Verità, quella che è stata raccontata al mondo, nell'immaginario collettivo resta la Verità, e tutto il resto chissenefrega, non fa più notizia. Diciamoci la verità. Domani, quando si dirà che il collaboratore di giustizia Tal dei tali è un cialtrone, e tutte le cose che ha detto non sono verificabili quindi processualmente sono zero, non avrebbe dovuto nemmeno esserci un annuncio”.

    “Invece – continua Manganelli – la gente era già stata riempita con  dichiarazioni suggestive, che sono pubblicizzate. Tutto questo ha finito per danneggiare proprio i collaboratori di giustizia: se a me un tempo la squadra mobile di Caltanissetta, diciamo, mi chiamava: ‘Abbiamo un nuovo pentito', io ero tutto contento. Oggi se mi dicono di un nuovo pentito ci vedo scritto sopra ‘maneggiare con cura', come certi farmaci. Ci si avvicina con molto più sospetto”. Quando è cominciata questa deriva? Esiste un momento o un anno preciso? “Non mi sento in grado di dire qual è l'anno, ma credo ci sia molta responsabilità proprio nell'informazione, che afferma ‘abbiamo il dovere di informare la gente'. Però c'è pure il dovere di informarla in modo corretto, perché se si organizzano i convegni dando per buona una Verità che non è stata ancora processualmente accertata, e da là si parte per il dibattito, si parte dall'annuncio… da una verità prima annunciata, poi dibattuta in pubblico, quindi consolidatasi nella testa dell'opinione pubblica, e poi piano piano… vedremo pure se si può dimostrare”.

    A proposito di informazione. Mal si concilia il fatto che sui giornali si parla della polizia a corto di benzina per le volanti e senza carta per gli uffici con questo lavoro impressionante contro i latitanti. “Le forze di polizia, non soltanto ovviamente la polizia di stato, sono abituate a stringere la cinghia e a ottenere risultati, perché se si lavora in dieci si lavora meglio, se si è in cinque si stringono i denti, si lavora più ore ma se si vuole raggiungere un risultato lo raggiungiamo. C'è una considerazione più importante. Oggi c'è una professionalità che non avevamo vent'anni fa. Quando ho cominciato a lavorare in questo campo nell'84, con il pentimento di Buscetta e l'inizio del maxiprocesso, eravamo veramente dei pionieri armati di buona volontà, niente più di questo. Per quanto riguarda uomini e mezzi, bisogna fare un discorso a parte: quando Beppe Montana dirigente della sezione catturandi di Palermo fu ucciso a Porticello eravamo nel luglio 1985 – qualche giorno dopo fu ucciso Ninni Cassarà, era la reazione della mafia alla morte di Salvatore Marino in questura – beh, facendo una zoomata, che cosa veniva fuori? Che Montana era capo di una sezione catturandi con tre autovetture e dieci uomini in tutto.  Oggi la stessa sezione di uomini ne ha ottanta. Insomma, dipende. Dove facciamo il confronto? Oggi c'è più considerazione”. Ma teme tagli? “I tagli indubbiamente incidono pesantemente nella quotidianità, sono i tagli che registro a scuola di mia figlia, all'ospedale dove porto mio cugino. L'auspicio è avere qualcosa in più, perché effettivamente serve in certi settori, come quello dei carburanti. Ora, sinceramente a me non è mai capitato di sentire che fosse mancata la benzina a qualche macchina, e si è gridato molto ‘Al lupo al lupo' negli ultimi anni. Però qualche preoccupazione di questo tipo si fa strada, effettivamente”.

    Dal 25 aprile, “cioè da quando il governo ha annunciato che anche gli aerei italiani avrebbero bombardato la Libia”, il capo della polizia sta lavorando alla possibilità “di una rappresaglia di Gheddafi sul territorio italiano”. Ma, spiega, è un discorso più ampio, che parte dagli immigrati generici e arriva fino a volenterosi, eventuali vendicatori di Bin Laden. “Abbiamo decine di migliaia di immigrati in arrivo. Non sappiamo chi sono. Circa centoventi erano già latitanti per la legge italiana e li abbiamo arrestati, ma gli altri? Sappiamo per esempio che le carceri tunisine si sono svuotate, ma non chi siano gli evasi, perché laggiù sono pure stati bruciati i registri cartacei, gli unici esistenti. A questo si accompagna l'atteggiamento di Tripoli dopo la nostra azione muscolare nei loro confronti. Io ho ordinato che il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, il CASA, che è un figlio straordinario di questi tempi, perché non è un ufficio, è un comitato  presieduto dal capo dell'Ucigos, dell'antiterrorismo, ed è composto dagli esperti di tutte le forze di polizia e dei servizi di informazione – quindi c'è di tutto, polizia, carabinieri, Aise… il fatto di non essere un ufficio gli ha tolto qualsiasi orpello burocratico – Ecco, io ho disposto che si riunisse fisicamente o in teleconferenza tutti i giorni, per valutare la minaccia”. 

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)