La dottrina Napolitano

Salvatore Merlo

Non inconsapevolmente, come sanno i suoi amici più intimi, mercoledì scorso il presidente della Repubblica, citando Antonio Giolitti e la sinistra che per governare dovrebbe essere “un'alternativa credibile, affidabile e praticabile”, ha aggiunto un mattoncino.

    Non inconsapevolmente, come sanno i suoi amici più intimi, mercoledì scorso il presidente della Repubblica, citando Antonio Giolitti e la sinistra che per governare dovrebbe essere “un'alternativa credibile, affidabile e praticabile”, ha aggiunto un mattoncino – questa volta scarsamente velato da ragionamento storico – all'enunciazione pubblica di quella che nel Pd adesso viene chiamata, da alcuni con malcelato fastidio, da altri con l'entusiasmo di chi vede illuminate le proprie ragioni, “dottrina Napolitano”. Supplente teorico e fattivo dell'inconsistente leadership dell'opposizione, pur conservando il proprio ruolo da arbitro istituzionale, Giorgio Napolitano pratica – e suggerisce – una propria dottrina politica che riempie il vuoto di autocoscienza della sinistra; l'anziano presidente è già il motore immobile della migliore (e dunque più efficace) “opposizione” a certe forzature di Silvio Berlusconi.

    Se n'è da tempo accorta Repubblica, che lo appoggia incondizionatamente persino quando, come in questi ultimi giorni sulla questione delle mozioni intorno al caso Libia, non ne condivide in tutta evidenza la linea. Ma se ne sono accorti anche nel Pd. E il personale politico che più gli è affine – e che più è critico nei confronti dell'attuale leadership democratica – ieri ha sollevato la testa per dire che, come spiega al Foglio il senatore Enrico Morando, “in questa legislatura il presidente Napolitano ha indicato più volte quale profilo debba avere una forza davvero liberal-democratica”. Lo ha fatto nel corso delle proprie esternazioni pubbliche: invitando a partecipare di una riforma “condivisa” della giustizia; reprimendo una certa idea evolutiva e politica del diritto; chiamando la magistratura all'“autocritica” e le forze di governo al rispetto delle istituzioni; vagheggiando i tratti di una forza bipolarista e capace di autonomia, che assomiglia a come il Pd potrebbe essere ma non è. “Il presidente Napolitano mette il dito nella piaga”, dice Giorgio Tonini, parlamentare del Pd, amico di Walter Veltroni e fra i teorici della cosiddetta vocazione maggioritaria.

    Mette il dito nella piaga, Napolitano. E' forse per questo – la meccanica è per lui perniciosa – che ieri Pier Luigi Bersani è apparso meno gioviale del solito ai cronisti che lo hanno incontrato: “Io sarei amareggiato per le parole di Napolitano? Guardatemi, non sono proprio il tipo”. Chissà. Spiega Tonini: “In Italia va ancora costruita quella forza socialista di cui Napolitano ha spesso delineato l'aspetto nel corso di questi ultimi anni. Il presidente non ha fatto che delineare una precisa dottrina quando ha evocato i principi del garantismo, della separazione dei poteri, o quando ha condannato l'eccesso di partigianeria della nostra classe dirigente”. A marzo del 2010 il capo dello stato ha parlato di sindrome da hyperpartisanship. “Ha spiegato che non si può vincere soltanto mobilitando il proprio elettorato, radicalizzando il dibattito pubblico come fa Di Pietro – dice Tonini – Le forze davvero liberaldemocratiche devono sapere volgere lo sguardo anche ai settori più moderati, a quello che viene chiamato ‘centro mobile'”. L'invito è a liberarsi della costrizione manettara tout court e Napolitano è stato decisivo per avviare il meccasimo disciplinare del Csm sul caso delle patacche di Massimo Ciancimino. “E' necessario ricondurre i magistrati a esercitare le loro funzioni, che non sono la continuazione della politica con altri mezzi”, dice Tonini. “Ma un partito che si presenti come alternativa di governo ‘credibile, affidabile e praticabile', come dice il capo dello stato, non può nemmeno avallare l'aggressione alla magistratura in quanto tale. L'invito del presidente è chiaro: la sinistra dovrebbe riscoprire il garantismo come elemento qualificante, sconfiggere i riflessi corporativi della magistratura, ma ottenere questo risultato collaborando con i giudici a una riforma che migliori l'ordinamento”. Guarda caso sono anche le idee di un vecchio e caro amico del presidente. Emanuele Macaluso negli ultimi tempi non ha detto altro, sul Riformista e altrove (“non mi piacciono i magistrati, come il procuratore aggiunto Ingroia, che salgono sul palco insieme ai leader di partito a fare comizi sulla giustizia. I loro comizi, purtroppo, aiutano Berlusconi a sostenere che la magistratura fa politica”).

    La dottrina Napolitano ancora ieri rimbombava nelle orecchie di Bersani e in quelle più meste di Dario Franceschini. Il primo perché segretario, e dunque titolare anche proprio malgrado di ogni mossa del partito, il secondo perché regista della disastrosa operazione parlamentare sulle bombe in Libia. Doppiamente disastrosa per i teorici dell'asse con Di Pietro: perché se al Pd non è riuscito di incunearsi tra Pdl e Lega, a Pier Ferdinando Casini adesso potrebbe riuscire di disarticolare il Pd.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.