Quando eravamo libici

Sandro Fusina

Aprile 1941, ultimo giorno a Tripoli, è scritto con una grafia tormentata sul retro di una fotografia formato cartolina. La parola “ultimo” è in stampatello, come se fosse pronunciata con un tono più alto, come se fosse urlata. La scritta non è contemporanea alla fotografia. E' a biro e le penne a sfera, nel '41, Jozsef Biro non le produceva ancora. Se è necessaria c'è una conferma: la scritta ricopre anche una zona in cui uno strato della carta è stato strappato.

Leggi C'è più guerra che trattativa nei piani libici dell'Europa

    Aprile 1941, ultimo giorno a Tripoli, è scritto con una grafia tormentata sul retro di una fotografia formato cartolina. La parola “ultimo” è in stampatello, come se fosse pronunciata con un tono più alto, come se fosse urlata. La scritta non è contemporanea alla fotografia. E' a biro e le penne a sfera, nel '41, Jozsef Biro non le produceva ancora. Se è necessaria c'è una conferma: la scritta ricopre anche una zona in cui uno strato della carta è stato strappato. Evidentemente la fotografia è stata incollata alle pagine di un album prima che la scritta fosse vergata. “Ultimo giorno a Tripoli” non è una constatazione, ma un ricordo, doloroso anche, a giudicare dalla grafia. Forse l'autrice è la ragazzina al centro della foto. Cammina verso l'obiettivo con un passo breve, come ha ordinato il fotografo. Calza scarpette alla bebé con il cinturino, le calze sono bianche, corte, arrotolate subito sopra la caviglia. Porta, appoggiato alle spalle, sul vestito a pieghe, forse grigio, chiuso sul collo da una fila di bottoncini, un soprabito scuro dai grandi revers maschili. Il cappello di paglia a tesa larga e rotonda lascia supporre che sia la divisa di una scuola, di un collegio. Probabilmente a Tripoli è nata e ha frequentato le scuole. A Tripoli è cresciuta con un'amica del cuore. Forse a Tripoli si è innamorata per la prima volta e sa già che non sarà per sempre, perché domani dovrà partire per l'Italia. Il luogo, se non mi inganno, dovrebbe essere lo slargo dove viale Sicilia incrocia via Vittorio Emanuele III, nei pressi del magazzino di famiglia. Mezzo passo indietro, alla sua sinistra, quindi alla destra nella fotografia, in un completo grigio con panciotto, cammina un uomo robusto, sulla cinquantina. Porta il cappello un po' calcato sulla fronte. A destra, un passo indietro, una signora in tailleur grigio di taglio maschile su una camicetta bianca con un grande collo che sormonta il bavero della giacca, tiene una borsa a busta sotto il braccio. Accanto a lei, avanza un altro signore, in cappello: con la destra regge una specie di tubo che potrebbe essere un giornale, nella sinistra stringe forse un fazzoletto. Il sole d'aprile è alto, le ombre sono corte. Nell'angolo in basso a sinistra della foto spunta un'ombra che potrebbe essere quella di un fotografo con l'occhio nel mirino. Certi indizi lasciano supporre che si tratti di un professionista, un fotografo di strada che scatta finte istantanee ai passanti. Potrebbe essere addirittura un dipendente della celebre ditta romana di ottica La Barbera che, con un'insegna che offre articoli di ottica, un classico gabinetto fotografico e un laboratorio fotografico per gli amatori, ha ormai da decenni aperto bottega proprio al numero 82 di corso V. E., come si dice a Tripoli, ovvero corso Vittorio Emanuele III. L'intraprendenza della ditta La Barbera non stupisce, se si ricorda che l'arte e l'impresa della fotografia furono particolarmente fiorenti nell'impero ottomano. Se l'Egitto e la Terra Santa e Constantinopoli furono le prime ambite mete del turismo ottocentesco, dinastie di fotografi europei come i Bonfils o locali come i fratelli Habdullah vi fecero dell'attività fotografica un'industria fiorente e ramificata in filiali su gran parte della sponda meridionale e orientale del Mediterraneo.

    Anche la ditta La Barbera deve avere un buon successo commerciale. Le sue vetrine non occupavano che un quarto del fronte su strada dell'edificio. Un altro quarto era occupato da un calzolaio con un'insegna in inglese e metà dai magazzini dei De Poli, della famiglia che domani partirà per sempre da Tripoli. Ma dalle scritte sul cornicione, dalle strutture delle finestre, da certi ingrandimenti fotografici che volevano essere pubblicitari, la parte superiore dell'edificio, un grande ambiente dai soffitti altissimi, era per intiero occupata dallo studio fotografico. Tutto l'edificio di corso Vittorio Emanuele 82 è piuttosto curioso. Sormontato da una cupola a cipolla, libera interpretazione di una cupola ortodossa, non particolarmente intonata all'ambiente arabo, con il medaglione in cui un drago alato regge un'insegna, con il gioco dei vetri colorati delle ogive, che non si sa se gotiche o islamiche nelle intenzioni, con la cimasa traforata che corre tutt'intorno al terrazzo, più che un edificio civile sembra uno di quei padiglioni fantasiosi ed effimeri che l'architettura delle esposizioni universali, internazionali, nazionali e regionali che siano hanno imposto al gusto infantilmente avventuroso del pubblico di quei decenni.
    Poiché è di album di fotografie che stiamo parlando non possiamo ignorare del tutto la succursale tripolina della ditta La Barbera, se non altro perché è con ogni probabilità ai suoi laboratori che dobbiamo lo sviluppo e la stampa di molte delle immagini su cui stiamo ricordando la stagione effimera del nostro colonialismo. Ma l'82 di corso V. E. ci interessa soprattutto perché ospita i Magazzini De Poli. Dalla loro storia, quale si riesce a ricostruire da quattro album fotografici, si può tentare di farci un'idea di quello che hanno rappresentato Tripoli e la colonia della Libia per l'immaginazione italiana. Si vuole che le fotografie siano molto eloquenti: vale più un'immagine che mille parole, si dice. Si può anche dire che vale più una parola di mille immagini. Come le parole, le immagini sanno mentire, come le parole sono ambigue, cambiano di significato a secondo del contesto. Quasi più delle parole impongono un'esegesi, si prestano a interpretazioni. Non sono necessari fotomontaggi o photoshop per manipolarle, si prestano così come sono a ogni interpretazione. Se non ci fossero state quelle poche parole a tergo, chi avrebbe potuto immaginare che quella fotografia così banale racchiudesse non solo un dramma personale, familiare, di un gruppo, di una nazione, ma un dramma del mondo intero, che mostrasse la fine di trent'anni di speranze, di fatiche, di soprusi anche; che i passi di quella camminata così innaturale, piccoli, trattenuti, intesi a cadere in bocca all'obiettivo, fossero i primi su una strada su cui stiamo ancora camminando?

    I magazzini De Poli non sono sempre stati in corso Vittorio Emanuele e non sono sempre stati detti magazzini. In un edificio piuttosto modesto al numero 3 di zenghet Ricardo erano pomposamente detti Gran emporio commerciale Giuseppe De Poli. Ma nonostante il nome sonoro, non erano neppure la parte più cospicua dell'esercizio. A giudicare dalle dimensioni delle insegne e dal numero relativo delle vetrine e degli ingressi, il vero nucleo dell'impresa era la selleria, dedicata a forniture militari e civili. Vi si fabbricavano e vi si smerciavano, all'ingrosso e al dettaglio, selle e finimenti, bardature per i muli, accessori per scuderia, fanali, fruste e coperte per carrozze. Ai calzolai si fornivano tomaie giuntate, all'esercito copertoni e teli impermeabili e tende da campo. A chiunque ne avesse bisogno, scarpe, sandali e guanti. Ma la vera specialità della casa era il fluido vescicatorio per quadrupedi. In una pagina dell'album, tra le fotografie è stato conservato un prospetto del “premiato e brevettato fluido vescicatorio di De Poli Enrico”.

    Quale sia il grado di parentela
    tra Enrico e Giuseppe non sappiamo. Tutto quello che ci è noto della famiglia De Poli lo abbiamo imparato da un gruppo di fotografie, abbastanza nutrito, ma povero di riferimenti scritti. Spesso sul retro delle vecchie fotografie si trovano semplici didascalie che dicono il nome del soggetto, la parantela e la data e il luogo in cui la fotografia è stata scattata. I membri della famiglia De Poli che hanno composto i nostri album sono stati avari di informazioni. Oltre ad alcune cartoline con vedute a volo d'uccello della zona di Tripoli in cui si aprivano gli esercizi di famiglia, gli unici due pezzi non fotografici sono una cartolina commerciale di un grossista italiano di chincaglieria che chiede la restituzione sollecita di un catalogo e una copia del prospetto in quattro pagine del Fluido Vescicatorio, definito nello stile amplificato della pubblicità più popolare dell'inizio del secolo scorso “Grande Specialità Mondiale”. L'edizione del prospetto non è datata, ma è post 1918, giacché quella è la data di un diploma d'onore assegnato al fluido vescicatorio a una fantomatica Exposition International du Confort Moderne di Parigi, occasione non rintracciabile neppure negli elenchi più puntigliosi ed ecumenici delle esposizioni internazionali. Non è questa di Parigi l'unica medaglia vinta dal fluido vescicatorio. Un elenco parla di medaglie alle Internazionali di Londra e di Genova. Purtroppo non siamo riusciti a raccogliere notizie su quelle due esposizioni, che avrebbero dovuto tenersi tra il 1906 e il 1915. Di certo le medaglie di Torino e di Roma si riferiscono invece alla grande esposizione, non internazionale, ma onorata dal concorso di molti paesi stranieri, tenuta contemporaneamente nelle due città per celebrare il cinquantenario dell'Unità d'Italia, quindi esattamente cento anni fa, nel 1911. Si può arguire che fu proprio nell'ambito degli stessi festeggiamenti che la Grande proletaria (come ebbe a dire il 21 novembre di quell'anno al teatro di Barga in Garfagnana il poeta Giovanni Pascoli) si mosse.

    In poco più di trecentosessantacinque giorni la giovane nazione proletaria che compiva i cinquant'anni sottrasse all'ormai secolare e un tempo minaccioso impero turco le due province della Tripolitania e della Cirenaica, che mai dal tempo di Diocleziano erano state un'entità statale unica, più Rodi e le isole del Dodecanneso nel mare Egeo. La Grande proletaria diede prova di modernità e di intraprendenza. Fu nel corso di quella guerra che furono impiegati per la prima volta gli aerei (undici, come l'anno del secolo, per amore di cabala) e per la prima volta vi furono un bombardamento dal cielo, seppure con una sola bomba, e della dimensione di un'arancia, poco più di una normale bomba a mano. L'importante è cominciare. Ma più che la superiore tecnologia italiana fu il colossale debito pubblico e il marasma amministrativo e politico a mettere in ginocchio l'impero.
    Da anni la Turchia non era più padrona in casa sua, essendo il debito pubblico ottomano gestito dai paesi creditori, Francia, Inghilterra e Italia, che a copertura dei crediti manovravano direttamente la leva fiscale dell'impero. Le due province della Tripolitania e della Cirenaica erano dal punto di vista fiscale nella stessa condizione dell'impero. Quando l'Italia le conquistò ufficialmente godevano già di un'ampia autonomia politica e amministrativa rispetto all'impero, ma di nessuna autonomia fiscale, essendo per la loro parte strozzate da chi gestiva il debito pubblico, come il resto dell'impero d'altronde. Nell'avvento degli italiani i capi delle tribù non videro alcun vantaggio e si ribellarono. Se il trattato di pace le aveva assegnato le due province e l'entroterra sahariano, in realtà l'Italia non controllava che le città di Tripoli e di Homs. Nel resto del paese si era formata la jamahiriya (allora chiamata in Italia giammurìa) o governo popolare, conosciuto anche come Repubblica Tripolitana, retto da un quadrumvirato paritetico composto da quattro dei più potenti capi delle tribù, fra cui si imponeva però Ramadan el Sceteui che agiva come capo del governo e avrebbe agito in seguito come capo dei ribelli.

    Impegnata dalla guerra in Europa, l'Italia non ha la forza di contrastare il nuovo stato arabo che attira anche le simpatie dei suoi alleati europei, in particolare degli inglesi che non vedono di buon occhio un'espansione italiana nella riva meridionale del Mediterraneo. C'è perfino un curioso episodio in cui due prigionieri inglesi degli arabi assumono un ruolo che può ricordare vagamente quello del colonnello Thomas Edward Lawrence nella penisola arabica.

    Il governo popolare era molto più organizzato
    e più forte di quello che la propaganda italiana del tempo voleva lasciare credere. Aveva ovviamente una capitale e una bella bandiera rossa decorata con la mezzaluna, una stella a cinque punte e due sciabole incrociate. Ma aveva soprattutto una rete telegrafica e telefonica che allacciava gran parte del territorio. Aveva a disposizione un'abbondante dotazione di armi, compresi i cannoni e i mezzi a motore, molti dei quali erano sottratti agli italiani. Poteva contare su un esercito che coincideva praticamente con l'intera popolazione del paese, compresi donne e bambini. Aveva poi un gran numero di prigionieri. Tra questi c'erano due inglesi, il tenente Edgard Robinson (che non aveva nulla a che fare con il suo quasi omonimo americano Edgar Robinson, segretario internazionale dell'Ymca) e il sottotenente John Jenks. Partiti da Malta in idrovolante il 17 luglio 1917 e abbandonati in volo dal motore, erano riusciti ad ammarare. Per otto giorni erano rimasti in balia dei flutti. Avrebbero poi detto di essersi ridotti a mangiare persino le carte geografiche. Le onde li avevano portati verso Misurata, dove erano stati catturati dagli arabi. Per alcuni mesi erano stati isolati dai prigionieri italiani. A conferire con loro si disse che era arrivato in sottomarino persino Osman Fuad, il principe ereditario, destinato a salire sul trono di Istanbul se solo l'impero fosse sopravvissuto. Anche quando furono riuniti agli italiani, i due inglesi continuarono a godere di un trattamento di privilegio. Appena fu convocata la Conferenza di pace di Parigi, Robinson fu inviato presso Ramadan el Sceteui il quale lo liberò e lo incaricò, così almeno si dice, di recarsi a Tripoli per perorare presso gli italiani la causa dell'indipendenza araba o, in second'ordine, a caldeggiare un protettorato inglese. Della faccenda si parlò abbastanza, anche se sono molti a metterne in dubbio la plausibilità: dopo Vittorio Veneto l'Italia poteva trasferire in Africa un contingente di soldati in grado di spezzare la resistenza della jamahiriya, che oltretutto era indebolita dai contrasti tra i capi delle tribù e dall'inimicizia tra arabi e berberi. Robinson comunque da Tripoli era andato a Malta per tornare in nave a Misurata a prendere Jenks e un terzo suddito britannico, un nero giamaicano di nome Mac Farlan che era stato arrestato mentre faceva misteriosamente il carovaniere sulle sponde del lago Ciad. Intanto dal deserto del Carso, “tanks, autoblindomitragliatrici (sic), gas asfissianti, liquidi infiammanti, bombe di ogni genere e aeroplani di ogni specie” (cfr. Aldo Chierici, “Italiani & arabi in Libia”, Roma, s.d., ma 1920), “Di generali non vi era carestia. Oltre Garioni, governatore, oltre Tarditi, capo dell'ufficio Politico, vi erano i tre generali comandanti le tre divisioni qui accorse in perfetto assetto di guerra, Zoppi, Pantano e Nigra. Ovunque fiamme rosse e fiamme nere dai cipigli risoluti, tutti pronti per l'estremo colpo. Erano centoventimila i soldati, muniti di mezzi immensi”.

    Tanti soldati significavano tanti cavalli,
    tanti muli, tanti asini e persino tanti dromedari, significano tanti quadrupedi, che la fatica ripagava con piaghe dolorose. E' un buon mercato per il fluido vescicatorio di Giuseppe De Poli. La casa produttrice è a Parma, in via Felice Cavallotti 48. In Libia, alla data di pubblicazione del prospetto il vescicatorio può essere acquistato presso i Grandi depositi del magazzino in corso Vittorio Emanuele III a Tripoli e a Bengasi in piazza del Re. Il magazzino di Tripoli non è più quello di zenghet Ricardo. Sul prospetto si fa notare infatti che il fluido vescicatorio cura le piaghe dei quadrupedi libici ormai da otto anni. Sono stati duri, difficili, questi primi otto anni della colonizzazione italiana. Ma dalle fotografie di famiglia non si avverte. Gli arabi o i berberi appaiono raramente nelle fotografie dell'album De Poli, come se intorno non ce ne fossero o come se gli autori avessero fatto molta attenzione a escluderli dalle inquadrature. Qualche volta in un campo lungo può apparire il retro di una testa velata nel margine basso; in due occasioni compare in posa la stessa domestica. In un caso si vede un assembramento di arabi, di cui non si capisce il senso. Presumibilmente sono arabi, ma in panni europei, alcuni dei bambini che si assiepano attorno a un carro tirato da tre coppie di muli e pieno di soldati di ogni arma e di giovani signori che stanno manifestando per una qualche buona causa italiana all'ombra del castello che a Tripoli fu tra l'altro la sede dei cavalieri di San Giovanni. Da questi album sembra che tra arabi, o berberi, e italiani la separazione sia netta, che i due mondi non solo non si intersechino, ma neppure si sfiorino.

    Che ne è di tutto l'armamentario orientalista che, pur con scarsi risultati artistici, aveva per decenni stuzzicato il desiderio di evasione anche degli italiani? (Per verificare: “Incanti e scoperte. L'oriente nella pittura dell'Ottocento italiano”. Presso la Pinacoteca Giuseppe de Nittis a Barletta, fino al 5 giugno).

    La pretesa di leggere la grande storia nei documenti privati è spesso vana. Solo per amore di racconto possiamo immaginare che l'aria di festa che si avverte in certe fotografie accompagni qualche avvenimento pubblico notevole, come la firma della pace e la concessione alle province di Tripolitania e di Cirenaica dello statuto che avrebbe dovuto “iniziare un'Era di tranquillità e di lavoro” o l'arrivo a Tripoli, l'ultima settimana di giugno del 1918, dei prigionieri italiani finalmente liberati a Misurata.
    Tredici anni dopo. Il 21 giugno 1931, indirizzata ai Magazzini De Poli all'82 di Corso Vittorio Emanuele III a Tripoli arriva da Parigi una cartolina. Indirizzata alla succursale di piazza del Re a Bengasi dei magazzini De Poli arriva una cartolina complementare. Poche parole di saluto e una firma poco leggibile accompagnano l'immagine della facciata di un grande palazzo nella cartolina inviata a Tripoli e l'atrio dello stesso palazzo nell'altra. Sono la facciata e l'atrio del palazzo di Settimio Severo a Leptis Magna che l'architetto prediletto in quel momento dal presidente del Consiglio e duce dell'Italia Benito Mussolini, l'architetto Armando Brasini, ha ricostruito con una filologia disinvolta nel parco di Vincennes a Parigi, come padiglione dell'Italia all'Esposizione coloniale internazionale. Il messaggio alle nazioni è esplicito: la Libia spetta naturalmente all'Italia, essendo nativo di quella terra perfino un imperatore romano come Settimio Severo, che non solo aveva saputo rassettare l'impero dopo gli eccessi di Commodo, ma aveva fondato una vera e propria dinastia durata ben quattro imperatori (oddio, Geta non era sopravvissuto a lungo alle attenzioni del fratello Caracalla) la quale aveva fatto molto per spostare il centro d'equilibrio politico e intellettuale dell'impero verso oriente e verso sud, sulla sponda africana e asiatica del Mediterraneo.

    L'anonimo corrispondente dei magazzini De Poli in visita all'Esposizione coloniale di Parigi avrà potuto cogliere l'apprezzamento degli ambienti ufficiali francesi per la sfarzosa partecipazione dell'Italia a una manifestazione dalla quale la stessa Gran Bretagna, madre di ogni colonialismo moderno, ma preoccupata per la piega che gli avvenimenti avevano preso in India, aveva fatto di tutto per defilarsi. E se sull'Illustration avrà letto un articolo trionfale sul nostro padiglione e sulla generosità italiana che aveva voluto mandare all'Esposizione, dove quasi tutto era cartapesta e cartongesso, le statue romane originali, non sarà riuscito a non dare un'occhiata ai volantini martellanti contro il colonialismo in generale e l'Esposizione coloniale in particolare che militanti comunisti e simpatizzanti surrealisti distribuivano imperterriti davanti ai cancelli. Se non l'avevano innescata, le fresche vicende della repressione italiana in Cirenaica stavano alimentando la polemica sul colonialismo e affilando le armi degli anticolonialisti. I giornali stranieri non avevano risparmiato i particolari di quello che definivano il massacro di Cufra. Delle atrocità perpetrate nei confronti dei profughi nella città santa dei senussi gli italiani erano accusati solo indirettamente. I responsabili materiali erano stati meharisti, truppe montate sui dromedari, al servizio del governo legittimo, cioè italiano, di Tripoli. Ma di lanciare le bombe, soprattutto le bombe all'Iprite, erano accusati gli aviatori italiani.

    Cosa pensassero i De Poli dei metodi spietati del generale Rodolfo Graziani dagli album non è dato di sapere. Si può registrare però, senza farne discendere considerazioni e conclusioni, che negli album De Poli manca un articolo molto frequente negli albi fotografici degli italiani in Libia, cioè una o più fotografie di impiccagioni di ribelli. La pace firmata alla luce dei fari di un'automobile, a tarda sera del giorno del natale di Roma, il 21 aprile 1919, sul Poggio degli ulivi, non era servita né a pacificare né a sottomettere completamente l'immenso territorio libico.
    Possiamo immaginare che almeno da un punto di vista lessicale i metodi di Graziani abbiano messo in difficoltà i De Poli. Il fulcro della loro attività, l'orgoglio di famiglia essendo il fluido vescicatorio, avranno dovuto trovarsi in qualche imbarazzo a sentire dire che l'Iprite era un gas vescicante. Come spiegare che il fluido De Poli era una specialità che le vesciche guariva, mentre l'Iprite, battezzata sui campi di battaglia del Belgio, era un gas che le vesciche faceva venire, nel migliore dei casi? E' vero che nel '31 l'attività di famiglia, a giudicare dall'aspetto del negozio, è molto cambiata. Le fotografie mostrano una vetrina come quelle che si potevano trovare in molte, forse in tutte le città d'Italia. L'insegna è scritta sopra l'ingresso, in un bel carattere corsivo. Mai come in quegli anni è stato popolare l'artigianato decorativo. Mai come in quegli anni in Italia si sono moltiplicate la manifatture di ceramiche. L'impero delle arti decorative che si è imposto in Europa con l'esposizione di Parigi del 1925 in Italia ha trovato terreno fertile in una tradizione artigianale e industriale diffusa. Accanto alle grandi società del nord, come la Richard Ginori di Milano e di Doccia o la Ceramica italiana di Laveno, prosperano laboratori grandi e piccoli che coprono ogni possibile declinazione del gusto, dagli oggetti modernisti, d'avanguardia addirittura, come le ceramiche futuriste di certe manifatture della Liguria e dell'Umbria, fino ai prodotti da bancarella.

    Gli italiani di Libia sono per quelle imprese
    un mercato interessante. Dai cataloghi che arrivano con la posta vengono scelti e ordinati quei prodotti destinati a passare dalla vetrina e dagli scaffali del magazzino De Poli alle stanze delle case che gli italiani, ormai convinti di restare per sempre, si fanno costruire intorno alla città. Le città, Tripoli, ma anche Bengasi, prendono un aspetto nuovo, diventano città europee. Per la strada girano le donne con le gonne sopra la caviglia, con il capo scoperto. Una signora di casa De Poli si affida per risultare disinvolta nelle fotografie al sostegno psicologico di un frustino da cavallerizzo. Non stona con l'ambiente. A stonare sotto i portici novecentisti, squadrati, del palazzo nuovo che ospita il magazzino De Poli è piuttosto la figura incongrua di una donna araba nelle vesti tradizionali. Perfetto è invece il contrasto delle linee ortogonali volute dall'architetto con le volute barocche della gondola del gelataio, intorno alla quale si mettono in posa i bambini per una fotografia davanti al villino nuovo di famiglia. Se è vero che l'architettura razionalista italiana ha dato il meglio di sé nelle Città nuove e nelle colonie, dove non doveva fare i conti con il gusto citazionista e liberty del primo anteguerra, non si può dire che il villino De Poli ne sia un esempio egregio. Ma se le proporzioni non sono perfette, ma se non c'è mai abbastanza vento per fare sventolare come vorrebbe la bandiera tricolore sul terrazzo più alto, c'è però un piccolo giardino che di fotografia in fotografia, di mese in mese, di anno in anno, da brullo che era, ancora ingombro delle latte degli ultimi imbianchini, diventa sempre più ricco, più folto, più simile e più prossimo al giardino della casa della vita.

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