Conversazione sul neopuritanesimo

Quelli che non sanno com'è fatto l'uomo

Redazione

Il punto da cui vorremmo partire è proprio il concetto fondamentale che il libro esprime, e che è fissato nel prologo, nell'epilogo e in tutto il corpo del pamphlet. Nell'analisi e nella rilettura della “Leggenda del Grande Inquisitore” di Dostoevskij e della discussione critica che se ne è fatta in una parte della cultura europea (mi riferisco in particolare al dialogo Adorno-Gehlen), con un capitolo dedicato poi alla “zona grigia” e ai problemi posti in merito da Primo Levi, il concetto fondamentale del suo pamphlet, la tesi che lei sostiene, ha un risvolto eminentemente e direi anche direttamente politico.

    “L'umiltà del male” (Laterza, 106 pagine, 14 euro) è il titolo di un recente pamphlet del sociologo Franco Cassano, docente all'Università di Bari, che prende le mosse dalla “Leggenda del Grande Inquisitore”, il racconto che fa capitolo a sé nei “Fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij, per affrontare il tema dell'aristocratismo etico, della “supponenza del bene” contro “l'umiltà del male”. Con l'autore del libro (sul quale ha scritto Alessandra Sardoni sul Foglio del 17 aprile scorso) discutono il direttore del Foglio, Giuliano Ferrara, Claudia Mancina, studiosa di filosofia morale e politica, e Lanfranco Pace, firma del Foglio dopo essere stato lungamente giornalista del quotidiano francese Libération.

    Giuliano Ferrara. Professor Cassano, lei ha scritto un pamphlet il cui centro è, come da titolo, il concetto non semplice di “umiltà del male”. Il punto da cui vorremmo partire è proprio il concetto fondamentale che il libro esprime, e che è fissato nel prologo, nell'epilogo e in tutto il corpo del pamphlet. Nell'analisi e nella rilettura della “Leggenda del Grande Inquisitore” di Dostoevskij e della discussione critica che se ne è fatta in una parte della cultura europea (mi riferisco in particolare al dialogo Adorno-Gehlen), con un capitolo dedicato poi alla “zona grigia” e ai problemi posti in merito da Primo Levi, il concetto fondamentale del suo pamphlet, la tesi che lei sostiene, ha un risvolto eminentemente e direi anche direttamente politico. Ma la sua argomentazione non è banalmente politicista. Partirei quindi da questo punto. Il pamphlet parla anche dell'Italia – per comodità diremo dell'Italia di Berlusconi e dei suoi più radicali oppositori – dell'Italia in difficoltà dal punto di vista dell'evoluzione del suo sistema politico democratico. Parla anche più in generale della società e della politica in occidente, del modo di essere della “società di massa”, per usare una vecchia caratterizzazione sociologica. Quello che a me sembra di poter dire, per introdurre questa conversazione, è questo: la sua idea, professore, l'idea contenuta in questo libro che giudico estremamente interessante, molto sapido e pieno di volontà di capire, di sapere, è che non si può sbrigativamente emancipare dal male la società ed emanciparsi anche dal male (in termini naturalmente politici e non sul piano spirituale, dell'autoriflessione); non si può fare questo senza conoscerlo, senza comprenderlo, senza considerarlo una dimensione ambivalente dell'esistenza umana storica, non solo nei termini biblici del peccato originale.
    Nella “Leggenda del Grande Inquisitore” lei legge, dopo tante letture e riletture mistiche, filosofiche, teologiche, da Rozanov a Berdjaev a molti altri, qualcosa di nuovo. Il racconto di Dostoevskij è imperniato sul Cardinale di Siviglia che arresta Cristo tornato sulla terra a far miracoli, e gli impartisce una lezione sulla necessità della salvezza universale e non di pochi eletti (i “dodicimila santi per ogni generazione”): lei sostiene che quanto il cardinale gesuita della Siviglia del Seicento denuncia nel suo discorso – un aristocratismo etico, un narcisismo morale che nella sua volontà di potenza ecclesiastica arriva a imputare a Gesù tornato sulla terra – è estensibile, è rappresentabile, in senso nemmeno troppo metaforico, come una critica all'incapacità di definire una prospettiva di emancipazione politica per la società moderna da parte di coloro che militano (pensano e dicono di militare) dalla parte del progresso, e che hanno un'antropologia positiva dell'uomo e che pensano che l'uomo sia destinato alla libertà.
    Ho fatto questo piccolo riassunto un po' scolastico per comodità di esposizione al lettore. Vorrei capire se questo riassunto corrisponde o no alla sua autorappresentazione di ciò che lei ha scritto.

    Franco Cassano. Non ho obiezioni sostanziali alla ricostruzione, ma vorrei fare qualche osservazione aggiuntiva. Il libro già dal titolo mostra un ossimoro, perché in genere umiltà e male non vengono messi insieme. Il quadro generale è che il bene rimane il bene e il male rimane il male. L'ambivalenza non mette in discussione un criterio iniziale di demarcazione e la leggenda del Grande Inquisitore consente, proprio sulla base di questo assunto iniziale, di mostrare come talvolta coloro che sono orientati in modo radicale verso il bene possano non accorgersi dell'ambivalenza del male, e quindi incorrere in quel limite che io chiamo narcisismo etico. La prima cosa che direi è che l'utilità del lavoro nasce dal fatto che non c'è un cambiamento dei piani. Ma, sulla base di una limpida distinzione tra il ruolo del bene e il ruolo del male, il valore aggiunto che la “Leggenda” propone è quello di far capire come questa quadratura iniziale del cerchio sia solo necessaria e non anche sufficiente. Se invece non si ha presente la complessità del quadro si corre il rischio di imbattersi in effetti che possono dimostrarsi il contrario delle intenzioni. Questo è il quadro essenziale.

    Ferrara. Prima di dare la parola a Claudia Mancina, io attaccherei (in senso buono, naturalmente, in senso critico e perfino ammirato) la sua tesi in quello che a me sembra un punto abbastanza cruciale. Miracolo, mistero, autorità: sono gli strumenti del Grande Inquisitore. Sono gli elementi che fanno di questo personaggio di cui poi parleremo – così complesso, che è passato per le tentazioni, per la resistenza alle tentazioni, per una sua purificazione ed è approdato invece all'idea che l'uomo sia  incorreggibilmente intriso di male, e che si debba governarlo con strumenti che sono quelli della tradizione più che quelli dell'amore e dell'invito alla libertà – ecco, miracolo, mistero e autorità sono un elemento decisivo della stessa rivelazione cristiana, per non parlare della rivelazione tutta intera, giudaico-cristiana. Il Cristo arrestato e messo in una segreta a Siviglia, presso il quale si reca nella famosa “notte senza respiro” il Grande Inquisitore, ha appena compiuto un miracolo, per illuminare l'umanità sul divino ha resuscitato una bambina. Più in generale, la cosa che mi ha sempre colpito del cristianesimo è lo straordinario fattore del silenzio. Cristo è un grande parlatore, però non consegna mai alla parola scritta la sua predicazione.  C'è una misura, un ritegno che è al tempo stesso uno stigma di autorità e di mistero. La resurrezione stessa è mistero. Il mistero della fede è al centro, non della liturgia ecclesiastica, che potrebbe portarci di nuovo agli strumenti di governo dell'umanità attraverso l'ambivalenza dei significati, ma il mistero è al centro della Cena, della transustanziazione, di tutto ciò che Cristo chiede i suoi discepoli facciano in memoria di lui stesso. Qui vedo un elemento di profonda, radicale ambivalenza irrisolta nella sua tesi. Che, ripeto, è straordinariamente coraggiosa perché non consegna il cardinale gesuita soltanto alla sua dimensione di potere nichilista, negatrice. E' un dialogo tra cristiani, per dirla in un modo molto irriverente. E' un dialogo tra Cristo e la chiesa che Cristo ha fondato. E queste tre dimensioni il mistero, l'autorità e il miracolo – appartengono a entrambi gli interlocutori.

    Cassano. Diciamo che parlare di dialogo induce un momento drammatico anche di contrapposizione, però.

    Ferrara. Sì, è un dialogo tra un personaggio letterario che parla e un altro personaggio letterario che gli oppone il silenzio e il bacio.
    Cassano. Comincia con la carcerazione e alla fine l'esito del gesto di Cristo, del bacio, produce un cambiamento. Prima di quel gesto, l'idea è che Cristo dovesse essere mandato al rogo. La configurazione del rapporto è una configurazione drammatica, e che non cessa di esserlo nel momento stesso in cui poi, con quello straordinario finale del bacio, l'Inquisitore non riesce più a dar seguito all'ordine che aveva in un primo momento dato. Sono molto colpito da questo conflitto. So bene che poi c'è un elemento di continuità tra un aspetto e l'altro, ma in fin dei conti il cuore della “Leggenda” è proprio il bisogno drammatico del Grande Inquisitore di rappresentare alla fonte remota di tutta la sua autorità il suo comportamento, l'angoscia di chi deve spiegare qualcosa che non sa neanche in che misura e come dall'altra parte venga giudicata. Sembra una contrapposizione piuttosto dura. Io ho approfittato di questa struttura del discorso per cercare anche di sottrarlo alla dimensione nella quale i due soggetti sono esclusivamente riferibili all'universo religioso. Ho cercato di vedere se questa tensione potesse essere trasferita in un altro mondo, in un altro contesto. Mi interessava anche la tensione esistente tra le figure più eroiche, e per certi versi più radicali, e il passo lento e greve delle masse che in qualche modo l'Inquisitore amministra, protegge e comanda. Non dimentichiamo, e io l'ho anche scritto, che a un certo punto l'Inquisitore arriva a dire, anche se non proprio in modo esplicito, “Io sono Satana”. Se tra le due figure c'è una possibile continuità, il cuore drammatico della Leggenda, l'insegnamento più forte, l'elemento che credo faccia scattare la riflessione di chi legge – o comunque quello che io ho creduto di trovare nella “Leggenda” – è proprio questa contrapposizione. Una contrapposizione che può travalicare l'ambito religioso. E' vero che il mistero, che l'autorità, che il miracolo fanno parte anche dell'esperienza dell'Inquisitore, ma sono costantemente rappresentati come elementi di conciliazione, di controllo di questi eterni fanciulli, sulla base di un'obiezione radicale (tu hai preteso che gli uomini fossero autonomi, rimprovera l'Inquisitore a Cristo). Non ho l'impressione che questa contrapposizione alla fine venga sciolta. E trovo che sia l'elemento più importante che ci venga da questa pagina formidabile.

    Claudia Mancina. Condivido sicuramente il discorso sul narcisismo etico che Franco Cassano fa nel suo libro. E quindi il rifiuto, la diffidenza verso una posizione purista dei buoni, di chi ritiene di aver ragione, in politica. E' un punto importante sul quale dovremmo attestarci tutti. Ma c'è qualcosa di cui invece non sono molto convinta, ed è precisamente quello che ora Cassano metteva in rilievo, cioè il tema della contrapposizione tra Cristo e il Grande Inquisitore, tra un'antropologia positiva e una negativa, come diceva prima Ferrara. Non perché questa contrapposizione non ci sia. C'è, ed è il fascino della “Leggenda”. Ma non dovremmo dimenticare che questa contrapposizione, questo dialogo drammatico, è messo in scena da Ivan Karamazov. Personaggio che nel romanzo di Dostoevskij rappresenta esattamente il nichilismo, ed è la tragedia del nichilismo. Quello che allora abbiamo di fronte non è tanto una contrapposizione tra bene e male, ma la denuncia del fatto che questa contrapposizione, in questi termini, non porta da nessuna parte. Sicuramente non porta all'accettazione di Dio (di Cristo, soprattutto, perché non nega Dio ma nega Cristo, perché è su Cristo la contrapposizione e lo scontro). La risposta, per Dostoevskij, è la riproposizione di Cristo come amore, come sacrificio, come redenzione, ed è la risposta che infatti alla fine del dialogo dà Alësa a Ivan. La mia risposta, la nostra risposta, in termini politici penso debba essere diversa. Ma questo scontro tra una concezione purista e una concezione più mescolata con la realtà delle cose, con la realtà del male e con la realtà del peccato, è uno scontro – vale la pena di notarlo – che è stato fondamentale nello sviluppo della chiesa e del pensiero teologico. Il pensiero del grande Agostino ha non solo ha polemizzato ma ha anche superato in positivo la visione purista della verità di fede e ha accettato lo stato, visto che siamo anche sul filo di un discorso sulla politica.

    Ferrara. E infatti, se posso interrompere un attimo, è una dimensione anche del pensiero politico, non solo del pensiero cristiano. L'antropologia negativa di Hobbes, in Locke nella versione liberale, in Kant nella versione dello stato di diritto, del liberalismo del diritto, il legno storto dell'umanità.
    Mancina. Arriviamo anche al legno storto. La parabola della zizzania, ripresa da Agostino, significa, ed è una notazione molto giusta fatta all'inizio da Cassano, esattamente questo: guardare alle ambivalenze e guardare alle mescolanze non significa negare la demarcazione. A proposito della zizzania, Agostino dice che il male e il bene sono due cose diverse, ma nella realtà terrena non è facile distinguere i peccatori dai giusti. Anche perché i peccatori possono diventare giusti e i giusti possono diventare peccatori (ed è fondamentale in una dimensione cristiana, evidentemente), e quindi non dobbiamo pensare di eliminare il male dal mondo. D'accordo. Ora, però, a me pare che in chiave politica il discorso debba essere un po' diverso. Per questo diffido sempre delle teologie politiche e delle fondazioni teologiche, o comunque in chiave di male e di bene, della politica. Ferrara citava Kant.
    Ma Kant rappresenta esattamente una posizione intermedia. Non ha un'antropologia positiva ma non possiamo nemmeno dire che abbia un'antropologia negativa. Anzi, Kant dice che la caratteristica degli esseri umani è quella di avere sia una volontà positiva sia una volontà negativa. Di volere sia il bene sia il male. Non solo, il tema della libertà nasce da questo, ed è tema classicamente cristiano e anche giudaico, se pensiamo all'albero della conoscenza del bene e del male, ma nasce da questo il tema della politica. Dire “legno storto” non vuol dire che il legno debba restare storto. Vuol dire che deve essere raddrizzato, nei limiti del possibile, sapendo che non sarà mai completamente diritto. Come? Attraverso la costituzione politica, attraverso lo stato di diritto, nel quale gli uomini si raddrizzano così come nel bosco gli alberi crescono diritti. Questa famosa similitudine kantiana è molto significativa. Penso quindi che dobbiamo andare oltre questa contrapposizione, e mi sembra che Cassano nel resto del suo libro lo faccia. Quando fa il discorso sulla “zona grigia”, quando parla delle lettere di condannati a morte della resistenza, ma anche quando fa riferimento alla rivoluzione passiva, che apprezzo perché fa tornare ai vecchi studi gramsciani. Così come non c'è solo il confronto tra il male e il bene, così nella politica non c'è solo la restaurazione e la rivoluzione ma c'è invece quella che Gramsci chiama “rivoluzione-restaurazione”, cioè la rivoluzione passiva, una dimensione in cui tutti ci mischiamo. E la storia va avanti non sulla base di posizioni estreme ma sulla base proprio di questa mescolanza.

    Ferrara. Vorrei, prima di dare la parola a Lanfranco Pace (che al solito è arrivato tardi, è il suo peccato) e di nuovo al professor Cassano, invitarvi a prendere la pagina IX del prologo dell'“Umiltà del male”. Leggo: “I Grandi Inquisitori del nostro tempo non rinviano alla salvezza eterna, ma agli orgasmi del presente, non custodiscono verità rivelate e il potere di un apparato, ma sono ‘democratici', ripetono al popolo che ha sempre ragione”. In un'altra parte del libro, citando il dibattito tra Gehlen e Adorno, lei, professor Cassano, dice che il Novecento totalitario europeo ha cercato di risolvere con la repressione della libertà la questione di un maligno dominio sul male, o comunque del governo degli uomini, mentre è poi venuto fuori che una forma di dominio si può esercitare rispettando le istituzioni liberali. E questo è il modello americano, il modello del capitalismo più o meno manipolatorio dell'industria culturale (il riferimento è insomma ai “Minima moralia” di Adorno e al noto dibattito sulla dialettica dell'Illuminismo). Rozanov, a proposito della “Leggenda del Grande Inquisitore”, dice una cosa di straordinario interesse. Dostoevskij era un uomo molto disperato, è lo scrittore della disperazione, anche se poi ha un grande anelito, un grande afflato che si può anche giudicare colmo di speranza cristiana. I suoi lettori più grandi hanno trovato in lui esiti con venature nichiliste. Quello che è sicuro, dice Rozanov, è che Dostoevskij vede nella libertà umana anche la libertà di non volere la felicità. Espressione che trovo straordinariamente utile a entrare nelle maglie della letteratura di Dostoevskij e della sua creazione romanzesca, che naturalmente non è una tesi filosofica o una tesi sociologica o teologica, è qualcosa di più complesso. Qui viene il punto, professor Cassano, dei due modelli: quello europeo e quello americano. Tutti noi sappiamo, anche i bambini, che nella Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti d'America, uno dei fondamentali di quella costruzione simbolica è il diritto degli uomini alla ricerca della felicità. Per dirla in modo un po' più ellittico e banale: il soggettivismo delle società occidentali, modellate in grande misura sulla riforma americana della politica, delle costituzioni, del senso del diritto, e comunque della nostra civiltà materiale, l'edonismo o l'eudaimonismo, cioè il diritto alla ricerca della felicità, si è inserito stabilmente nella coscienza pubblica e nella coscienza privata, in forme estremamente criticabili. Che non riguardano, per carità, il solo Berlusconi o avventure e parabole politiche che appartengono alla storia. Riguardano qualcosa di più profondo. Insomma, se oggi il Grande Inquisitore, la forma del dominio sull'uomo inteso come dominio necessario, come cura della anime, come governo dei corpi, se il Grande Inquisitore parla la lingua delle istituzioni liberali e della democrazia e della ricerca della felicità, vogliamo conciliarci con il Grande Inquisitore o no?

    Cassano. Prima di affrontare queste ultime domande vorrei rispondere a Claudia Mancina. Nella sottolineatura dell'importanza che nel libro viene data alla “zona grigia” credo ci sia un corollario di quanto avevo detto anche io all'inizio. Il chiarimento iniziale su bene e male consente di riuscire a essere massimamente liberi nell'attraversare le zone d'ombra, nel capire quanto l'essere umano sia attraversato da una serie di contraddizioni, come la sua costitutiva fragilità – perché la fragilità non è una costruzione del male ma è qualcosa che accompagna l'essere umano in quanto tale – quanto quella costitutiva fragilità lo esponga a questa situazione. Io credo che la metafora della zona grigia sia stata usata da molti al di fuori del contesto proposto da Primo Levi. Ma poi, se la si riesce anche a vedere al di fuori dell'immediato riferimento al lager, è un territorio straordinariamente interessante. Perché significa tutte le zone di confine, tutte le zone in cui la condizione umana partecipa di questa ambiguità. Da questo punto di vista, attraversare la zona grigia significa fare i conti con la realtà. In tante occasioni ho cercato di fare questo, anche se in termini più immediatamente sociologici, cioè cercare di ricostruire come si organizza il consenso e come una serie di bisogni e di espressioni finiscono per essere usati in altre direzioni. Claudia Mancina si riferiva al concetto di rivoluzione passiva. Io non mi ritengo uno studioso di Gramsci di lungo periodo. Ovviamente le classi più forti riescono a intercettare i bisogni che vengono dal basso e quindi a disorientare la capacità di egemonia di quei soggetti che invece volevano andare in direzione dell'emancipazione. Credo che le rivoluzioni passive siano state molte di più di quelle attive. Potremmo rileggere una parte rilevante della storia del Novecento in questa chiave, anche al di là dei luoghi canonici nei quali viene usata l'espressione. Ma temo che a questo punto scivoleremmo in una discussione nella quale l'elemento specifico, filologico, testuale, diventa decisivo e ho qualche timore a portare il mio intervento su questo piano. Parlo per un attimo del problema Kant, che è un problema molto rilevante, dicendo che, se per caso noi dovessimo essere richiamati a guardare indietro ai due grandi – almeno io li ritengo tali – punti di riferimento della filosofia classica, Kant ed Hegel, entrambe le soluzioni mi sembrano mostrare delle grandi difficoltà. In Hegel c'è il forte riferimento all'immanenza, che però in lui è attraversato da un provvidenzialismo che ha dimostrato di non avere un fondamento. In Kant questa eterogeneità porta un po' lontano dalla riflessione che prima proponevo, che è quella della zona grigia. Il rischio del giudizio netto sul grado di autonomia che ogni singolo soggetto è in grado di portare rischia di occupare tutto lo spazio, mentre la riflessione sulla zona grigia è proprio sulle forme materiali attraverso le quali questa autonomia viene aggirata e portata in un'altra direzione. Poi ci sarebbe tutta l'altra parte della discussione su antropologia positiva e antropologia negativa. Credo si possa dire che un'antropologia ottimistica corre il rischio di essere rassicurante e poi a un certo punto deludente. E quindi bisogna prendere confidenza, non con un'antropologia negativa, ma con l'elemento che c'è alla sua base, l'attenzione alla fragilità dell'uomo. La fragilità dell'uomo è una dimensione che deve entrare anche in coloro i quali abbiano un orientamento all'allargamento della forza, dell'autonomia, della soggettività dell'uomo.
    Arrivo ora ad alcuni dei molti spunti proposti dal discorso di

    Ferrara. Vorrei dire una cosa a proposito del mio libro. Del testo di cui stiamo discutendo, la “Leggenda del Grande Inquisitore”, avevo già parlato in un saggio del 1993, cioè in un'epoca politica precedente alla nostra, perché ritenevo che proponesse già allora una serie di occasioni di riflessione sul Novecento. All'origine del libro c'è il desiderio di riflettere sul potere, sulla scia di un secolo che si andava chiudendo, che si è chiuso, con un bilancio molto controverso. Da lì sono partito e questo mi ha portato al libro. L'inserimento delle caratteristiche della situazione italiana, e quindi di Berlusconi, è venuto dopo. Ma alcune caratteristiche della riflessione erano già in piedi allora. E' fuori discussione che dentro quel giudizio non possa non esserci anche una riflessione sull'esperienza dove l'emancipazione è stata tentata nel modo più radicale, nel socialismo reale, e poi è crollata. E' fuori discussione che serve anche una riflessione su quella dinamica nel momento stesso in cui ci si riferisce al problema dell'emancipazione. Lo stesso dibattito tra Adorno e Gehlen è un dibattito del '65, che non ha compiutamente percepito quell'esito, non poteva conoscerlo. Rispetto alla conciliazione, alla differenza tra Europa e Stati Uniti. Io credo che questo tema della felicità sicuramente parte dagli Stati Uniti, anche se nella Costituzione americana c'è questo riferimento ma c'è anche un forte riferimento ai valori puritani per i quali la salvezza dell'uomo è più importante della sua felicità terrena.

    Ferrara. Mi permetto di osservare che è la Dichiarazione d'indipendenza quella valoriale…

    Cassano. Ma l'ethos puritano è comunque la caratteristica dei pionieri, della frontiera, del nuovo continente come terra promessa. C'era questa forza tensione morale.

    Ferrara. Per fortuna mentre Dostoevskij scriveva “I fratelli Karamazov”, Nathaniel Hawthorne scriveva “La lettera scarlatta”, e hanno fatto i conti con il loro retroterra puritano…

    Cassano. Ma comunque quell'elemento ritorna, anche nel neoconservatorismo americano, per esempio. E' un tema ricorrente. Un tempo si diceva che l'élite dominante negli Stati Uniti fosse quella wasp, “white anglo-saxon protestant”. Nell'etica protestante il consumo non è l'elemento essenziale. Ma è fuori discussione che la grande società dei consumi sia partita da lì e abbia costruito una straordinaria diffusione già nel corso degli anni Sessanta e Settanta. Anche in Europa, l'enfasi sui consumi è già una parte della fase fordista della società occidentale, dal momento che i grandi consumi sono legati alla produzione di massa. Oggi c'è un elemento nuovo sul quale vorrei che tutti fossimo chiamati a riflettere, nel guardare al tema dell'edonismo, molto rilevante. Non siamo più nella fase in cui l'elemento del consumismo era questa rottura con i precedenti modelli di organizzazione sociale. L'età della globalizzazione è qualcosa che cambia profondamente alcuni passaggi, perché alcuni degli strumenti classici, laici, di regolazione del mercato finiscono per saltare ed erodersi. Quindi questo meccanismo diventa più forte, più pervasivo, più difficilmente controllabile. Vorrei richiamare un giudizio del filosofo Antimo Negri (e sottolineo Antimo), il quale, nel libro “Discorso sopra lo stato presente degli italiani”, che echeggia nel titolo lo scritto di Leopardi, diceva che la globalizzazione in Italia, nella vecchia partita che De Sanctis vedeva tra Machiavelli e Guicciardini, ha fatto vincere Guicciardini, cioè il trionfo del “particulare”. Da questo punto di vista mi sembra che ci sia un edonismo e una fortissima carica individualistica nella nostra società. Mi preoccupa che non esistano più meccanismi importanti, forti, di contrapposizione. Un'ultima cosa. Nell'epilogo mi riferisco a quando mi capitò di leggere a studenti delle scuole superiori alcuni brani delle “Lettere dei condannati a morte della resistenza”. Mi ricordo che la parola che più li aveva colpiti era “sacrificio”. Una dimensione che appariva estranea. E' fuori discussione che con i bisogni diffusi e con l'espansione dei consumi non si possa costruire un rapporto di opposizione, ci mancherebbe altro. Il problema però è chiedersi dove porta questo processo nel suo complesso. Qualcuno lo può anche favorire, ma rischia di essere un apprendista stregone, perché la dinamica che sta a monte di questo processo è una dinamica molto forte.

    Lanfranco Pace. Volevo fare un passo indietro perché la “Leggenda del Grande Inquisitore” non è che capiti così per caso, parte da una contestazione di Dio. Ivan chiede al fratello Alësa se gli paia armonico e divino questo progetto in cui ci sono sofferenze, lacrime e morti e il dolore degli innocenti, che poi è la critica classica degli atei e degli agnostici alla teoria del disegno divino creatore.

    Ferrara. Anche di Vito Mancuso.

    Pace. Anche di Vito Mancuso, è la cosa più ricorrente. E Ivan racconta del bambino di otto anni che è servo di un signore, lancia un sasso, ferisce un cane alla zampa e il signore dà il bambino in pasto ai cani. Allora Ivan, ed è una cosa agghiacciante, dice che quando la madre si abbraccerà “con l'aguzzino che ha fatto sbranare ai cani il figlio suo e tutti e tre inneggeranno fra le lacrime ‘Giusto sei tu o Signore', allora si toccherà l'apice della conoscenza e tutto sarà chiarito. Ma appunto qui è l'inciampo, appunto questo io non posso accettare, a questa suprema armonia oppongo un netto rifiuto, perché non vale essa delle povere lacrime, foss'anche di quel bambino solo, non vale perché quelle piccole lacrime rimarranno irriscattate”. In altri termini si dice: “Chi ha il diritto di perdonare?”. E lui chiede che non si perdoni, rovesciando questo nostro contemporaneo buonismo. La risposta ovviamente è che il diritto di perdonare ce l'ha Dio.

    Mancina. No, ce l'ha Cristo, perché si è sacrificato sulla croce.

    Pace. Sì, certo. Allora, mi pare che si dovrebbe dedurre che la questione del Grande Inquisitore è morta, cioè non è più un problema di gestione dell'umanità reale dolente, fragile e limitata da parte di un potere che poi è tragico, non dico sinistro ma è profondamente tragico e tormentato (anche il Grande Inquisitore è uno che nel deserto ci è stato, ha mangiato radici e lucertole). Non vedo il nesso con oggi, ecco, perché poi volevo partire dalla fine del suo saggio, professor Cassano: lei in realtà fa una grande critica puntuale ad alcuni atteggiamenti della sinistra di derivazione marxista, però ne ripete un po' in qualche modo la velleità utopistica. Questa storia dell'emancipazione non quadra, lei la definisce così: “L'emancipazione non è soltanto un programma per la città futura ma una pratica interpretativa che deve rendere ognuno curioso dei sogni e dei desideri dell'altro”. Eh, questo mi pare già abbastanza inquietante. Poi ci sono una serie di osservazioni che volevo fare, in un secondo giro.

    Ferrara. Questo può essere molto interessante, rilancia un po' la nostra conversazione. Andiamo al dunque, alla filosofia della politica: libertà ed emancipazione, come si definiscono alla luce di questa dialettica di bene e di male, di questa ambivalenza del male, di questa fragilità dell'uomo e di questa necessità di riscatto da questa fragilità, e dalla necessità anche di governarla? L'emancipazione, alla fine, che cos'è? Posso permettermi, essendo un vecchio comunista totalitario, o un ratzingeriano se preferite, e contemporaneamente uno stupido piccolo liberale metodologico che vive da vent'anni sotto l'ombrello di Silvio Berlusconi, posso permettermi di chiedere questo, che mi sembra proprio la radice del problema, sulla scorta di quello che diceva

    Lanfranco Pace. E cioè: l'emancipazione è autodeterminazione dell'uomo al cospetto del cosmo e del creato e del mistero che ogni razionalista deve riconoscere essere all'origine? O l'emancipazione è una forma politica di definizione e quindi di limitazione della libertà umana, cioè l'emancipazione come criterio non negoziabile, dato? Il che non significa prigioniero della tradizione o inscritto nelle tavole. Però qualcosa che è dato, un limite razionalisticamente dato dalla libertà stessa? Io sono per questa seconda ipotesi, e mi pare, dalla lettura del libro veramente molto bello e indagatore di Franco Cassano, che questo nodo non venga sciolto, che l'emancipazione resti, come diceva Pace, nella sfera dell'aspirazione, del generico, e non si precisa mai che ogni emancipazione è definizione. E ogni definizione è, linguisticamente, filosoficamente e politicamente una limitazione. L'emancipazione è un dato finito, non è un anelito infinito del soggetto ad autodeterminarsi.

    Cassano. Partirei dal riferimento che faceva Pace alla fase precedente del dialogo tra Ivan e Alësa, quello sulla morte degli innocenti, sulla morte dei bambini, dove poi Ivan dice: se questa è la Tua creazione, io restituisco il biglietto, perché non voglio assistervi. Questo punto è un punto essenziale che è stato ripreso anche da altri autori. Per esempio un autore a me caro di cui ho parlato, proprio su questo punto, è Albert Camus. Nella “Peste”, se ricordate, esiste il passaggio nel quale c'è un religioso, che è probabile si suicidi perché non riesce a sopportare il fatto che un bambino sia stato contagiato dal morbo. A questa immagine si contrappongono alcuni personaggi, tra i quali il medico è uno dei più importanti, per i quali la nostra vita sarà una serie di sconfitte perché la creazione è ingiusta, ma noi vogliamo far fare un passo in avanti alla parte giusta, noi vogliamo ridurre anche di poco il dolore e l'ingiustizia che c'è nel mondo, è il compito che noi dobbiamo darci. E' un tema presente, non solo antico, che poi è stato affrontato anche da autori non riconducibili a uno schema di metafisica dell'emancipazione. Nell'“Uomo in rivolta”, Camus ci tiene a fare chiaramente la distinzione tra rivolta e rivoluzione per delle ragioni che qui non posso ricordare. Anche Ivan Karamazov è un personaggio che esce dal romanzo e ha attraversato tanti altri passaggi. Venendo al tema della emancipazione. L'idea di cessare di essere parte del patrimonio di un altro (che è nell'etimologia della parola “emancipazione”) credo sia un'idea molto forte, molto importante e molto positiva, alla quale penso siamo molto legati anche tutti noi che stiamo qui discutendo. Per quanto si possano avere rapporti di fiducia e di attenzione nei confronti di altri, siamo tutti anche custodi gelosi della nostra libertà. Quando si parla dell'emancipazione si tocca un tema che ci riguarda tutti, al di là delle filosofie e delle ideologie politiche. Io, personalmente, accompagno questa parola con un'altra che mi è più cara, almeno nell'accezione che io gli ho dato, che è quella di fraternità. A me interessa se la direzione che gli uomini prendono è una direzione nella quale la nostra condizione di creature fragili che sono su un mondo con una natura che è straordinariamente più forte di loro, e che un domani potrebbe anche portare, con i suoi sconvolgimenti, a far dimenticare la voce dell'uomo (penso a certi passi delle “Operette morali”), mi interessa se quella direzione abbia tra i termini di riferimento quello di allargare la fraternità tra gli uomini. E' un rispetto di ciò che in comune abbiamo: la nostra fragilità. E allora, a questo punto, l'emancipazione la rileggo in questa chiave: come cercare di fare in modo che il cerchio degli uomini solidali, che mettono in comune la loro fragilità, li sottragga alla lusinghe di quelli che invece la fragilità degli uomini la usano per degli scopi di incremento del proprio potere. Poi c'è anche da riflettere sul Novecento. In due occasioni parlo del timore che scendere sullo stesso piano del male, nella contesa, possa portare un giorno a scoprirsi, davanti allo specchio, con le stesse sembianze del Grande Inquisitore. Quindi la via è stretta, la via è difficile, però è quella. Non ho altro riferimento al di fuori di questa grande patria fraterna di tutti gli uomini. Difficile, ma rispetto alla quale è necessario in primo luogo scendere da ogni piedistallo, perché la condizione della debolezza dell'uomo è talvolta morale, talvolta esistenziale, talvolta strutturale e deriva da diseguaglianze radicali e terribili. Farsi carico di queste cose io credo che sia una componente di cui non ho mai fatto a meno e che mi guida. Poi il lessico, certo, ci deve portare a stare attenti, a riflettere criticamente anche sulle disavventure dell'emancipazione, però non può portarci a perdere questa stella polare della fraternità.

    Pace. Volevo solo un chiarimento, professor Cassano. Non è che lei usa il concetto di emancipazione come una sorta di belletto, un po' come fa Negri (stavolta Antonio, non Antimo) in “Impero e moltitudine”, su vecchi concetti come rivoluzione, lotta di classe? Concetti, cioè, che non si possono più usare, perché sono fané, e allora usiamo il termine più anodino di emancipazione.

    Cassano. Credo di aver risposto spiegando che cos'è per me la parola fraternità, che ci può disancorare da vecchi lessici e vecchie categorie. Per quanto mi riguarda, ripeto che la categoria guida, che preferisco a quella di emancipazione, è fraternità. Tutte le osservazioni qui fatte sulle disavventure dell'emancipazione le condivido. Ciononostante penso che qualcosa di quella idea sia ancora oggi importante, perché attiene alla capacità degli uomini di non essere nel potere esclusivo di qualcun altro. In questo, anche di cercare di trovare una fraternità. Ho sempre presente la “social catena” della “Ginestra” di Leopardi. Credo che sia uno degli obiettivi che noi, prima o poi, dovremo porci stabilmente.

    Ferrara. Per essere onesti fino in fondo, professore, bisogna darle atto che non soltanto lei tiene ferma l'idea fondante della emancipazione nella fraternità, ma che, in un altro punto del suo pamphlet, lei dice anche che non un ceto, non una classe ma un gruppo, una élite di elaboratori del bene, di persone che credono, di credenti nella fraternità, nell'emancipazione, nella sua possibilità concreta, è necessario. Lei non ha scritto un libro cinico, non appartiene alla cultura dell'antropologia negativa, sebbene sia fortemente affascinato, non suggestionato, intellettualmente e criticamente affascinato da questa idea a mio giudizio straordinaria, e sulla quale ci incontriamo, che è quella di almeno comprendere, capire l'umiltà del male.

    Cassano. Qualcuno parlava di pessimismo dell'intelligenza. Una tradizione a capire le ragioni di un'antropologia negativa credo sia condizione indispensabile proprio per cercare di evitare di rimanere chiusi. Questo è l'insegnamento grande che mi viene dalla “Leggenda del Grande Inquisitore”.

    Ferrara. Io mi permetto di pensare che “pessimismo dell'intelligenza e ottimismo della volontà” sia un'aporia, termine filosofico contraddittorio, irrisolto. Che sia insomma un'inconcludenza, che ci sia in questo concetto una venatura di impotenza euristica.

    Cassano. Potremmo parlare in un'altra tornata di un tema che non è venuto fuori, e cioè perché in quello che chiamo “aristocratismo etico” ci sia in alcuni casi un elemento di impotenza, di difficoltà a confrontarsi con una realtà che si è profondamente trasformata. L'appello che io faccio a una ricognizione del mondo che circonda queste élite etiche è un appello che faccio a capire esattamente un mondo molto cambiato. E bisogna evitare che nel grande cambiamento ci si rifugi in una situazione di difesa e di nostalgia. La sfida che il presente ci propone è molto forte e quindi bisogna evitare che nel nostro atteggiamento ci sia invece soltanto un elemento di difesa della nostra storia.

    Ferrara. Prima di dare la parola per un ultimo giro a Mancina e a Pace, vorrei proporre non un quiz, perché se lo facessimo ci consegneremmo mani e piedi all'industria culturale, ma una procedura di identificazione, che consenta anche ai lettori di entrare bene nel problema che abbiamo cercato, mi sembra con un minimo di rigore, di illustrare. Lei, professor Cassano, a pagina 86 scrive: “Il mondo terreno appare consegnato al male soprattutto perché quest'ultimo è umile e disponibile, a differenza dei migliori che sono talvolta accecati dalla propria supponenza”. Qui emerge l'elemento più critico, polemico, più rivolto verso l'attualità. Possiamo dare un nome un cognome, o almeno un nome politico a questa supponenza? Questo è un giornale che il nome politico l'ha dato a questa supponenza virtuista e neopuritana, cercando sempre