Teologia di Nanni Moretti

Marco Burini

"Habemus papam" non me lo posso perdere, è ovvio. Ma sono contento perché vado a vederlo in compagnia. E che compagnia. Si tratta del monaco benedettino Elmar Salmann, tedesco trapiantato a Roma da decenni, teologo raffinato e non solo. E' un uomo che il mondo lo conosce, lo frequenta e studia da una vita. E i molti piani che il film di Nanni Moretti attraversa non lo trovano impreparato. Ha letto tutto Freud, ha pure lavorato dieci anni in un manicomio come cappellano.

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    "Habemus papam" non me lo posso perdere, è ovvio. Ma sono contento perché vado a vederlo in compagnia. E che compagnia. Si tratta del monaco benedettino Elmar Salmann, tedesco trapiantato a Roma da decenni, teologo raffinato e non solo. E' un uomo che il mondo lo conosce, lo frequenta e studia da una vita. E i molti piani che il film di Nanni Moretti attraversa non lo trovano impreparato. Ha letto tutto Freud, ha pure lavorato dieci anni in un manicomio come cappellano (“I medici mi mandavano i loro casi limite religiosi e io mandavo loro i casi limite patologici”). Ha studiato recitazione e drammaturgia. E poi ha seguito e segue tuttora preti che abbandonano il ministero.

    In questo plumbeo venerdì di fine Quaresima ci diamo appuntamento al cinema Nuovo Sacher. Andiamo a casa del regista per vedere questo suo film che per noi trasuda suggestioni familiari, parla di cardinali riuniti in un conclave e quel che ne segue. Noi li conosciamo bene questi maschi anziani, stanchi, e però sinceramente attaccati alle loro tradizioni, alla loro fede, che si chiudono nella Cappella Sistina per eleggere il successore di Pietro. “Habemus papam” parla del nostro mondo e lo fa con stile e garbo. Usciamo dal cinema commossi e stuzzicati. Ci ronzano nella testa un sacco di spunti che decidiamo di spartire subito, davanti a un bel piatto di carbonara.

    “Il tema di fondo è il rapporto tra privato e pubblico, calato nel dramma di un rappresentante del sacro”, attacca Salmann. Quindi non è un film sul cristianesimo, i suoi dogmi e la sua crisi. “No, infatti. E' il problema della rappresentazione che riguarda tutti gli ambiti – religione, politica, società – dove ognuno è solo il rappresentante di un ruolo e non è più visto come una persona. Nel film si confrontano la società dei mass media e una società arcana come la chiesa, la biografia privata e la figura pubblica”. Non a caso il portavoce vaticano ha un ruolo fondamentale, è lui il regista dell'operazione di copertura. “Appunto, perché tutto il racconto si gioca sul registro gerarchico, sul ruolo da recitare”.

    Una recita che si gioca su diversi palcoscenici. “Il teatro del mondo (Roma), il teatro dell'anima (la psicoanalisi), il teatro della vita (le vicissitudini del protagonista), il teatro nel teatro (la messa in scena di Cechov), il teatro ecclesiale (il conclave e l'elezione). Il portavoce è il mediatore tra questi mondi fino alla finzione totale delle tende agitate, dei drappeggi che sventolano sulla Loggia delle benedizioni deserta, dei sipari socchiusi”. Sipari che diventano siparietti: il film è costellato di sketch gustosissimi. “Perfino questi cardinali iperstilizzati sono felici di uscire dal guscio, tornare bambini, parlare delle loro idiosincrasie. Sono personaggi ben rappresentati eppure nessuno di loro è solo ciò che pare”.

    Moretti descrive questa dialettica con mano felice. “Sì, è raffinato. Perciò va molto al di là di un discorso sui contenuti: la fede, la chiesa… Il Papa in realtà è il prototipo della deprivatizzazione nell'impatto tra una società aperta e democratica, la chiesa e la marea degli individui. D'altronde nei suoi film Moretti ha sempre lavorato sui ruoli fondamentali: il prete nella ‘Messa è finita', la famiglia nella ‘Stanza del figlio', il politico nel ‘Caimano'…”. Le care vecchie istituzioni. “Di cui il regista fa vedere il retro, il mai detto e l'interdetto”. Senza sbeffeggiarle, però. “Assolutamente, ha uno sguardo curioso e misericordioso. Fa vedere l'ambivalenza del ruolo, i fallimenti, e ciò che si nasconde tra persona e personaggio, senza smontarne la grandezza”. In effetti il film non comunica un senso di commiserazione dei preti o della chiesa. “Non c'è sarcasmo. Si riscrive il versante tragico e farsesco di un ruolo ma non per questo viene messa in dubbio l'importanza del papato che anzi ne esce quasi enfatizzato. Certo, resta il non detto e il suo significato per l'individuo. Questo fa anche capire il recente interesse dell'opinione pubblica per la vita privata dei Papi, per i loro pensieri intimi, e il nuovo genere letterario dell'intervista papale utile a creare un minimo di equilibrio tra biografia personale e ruolo pubblico”.

    E' un film che coglie molto bene un paradosso contemporaneo: una figura arcaica come l'uomo di Dio, il sacerdote, presiede il rito secolare della comunicazione. “Oggi il Papa è sicuramente uno dei pochi rappresentanti della speranza, della purezza, di un ethos dell'indicibile, per questo è una calamita che attira i media.

    Solo che il pubblico è semi illuminato dalla psicoanalisi, è composto di spettatori astuti”. Questa è un'altra falda molto ampia del film. “Noi tutti abbiamo un grande bisogno della politica, della sacralità, di un mondo immemorabile, e al tempo stesso siamo ormai tutti istruiti sull'inconscio, abbiamo tutti a disposizione una qualche nozione psicoanalitica. Il film tende a farsi beffe di questa nuova cabala che tenta di ridurre tutto a un deficit di accudimento e non sa nemmeno sanare i suoi interpreti. La coppia dei migliori psicoanalisti del mondo è ormai in frantumi”.

    Moretti, che nel film fa la parte dello psicoanalista chiamato in soccorso del Papa riluttante, questo lo sa bene e da regista si regola di conseguenza. “Infatti gioca questa carta in maniera plateale, leggera – osserva Salmann – Ormai siamo tutti psicoanalisti dilettanti e guardiamo il mondo così, tra dialettica negativa e occhio clinico. Nel film la psicoanalisi dà voce a ciò che ci frulla nella testa quando vediamo un uomo pubblico. E' uno sguardo avveduto, circospetto, scaltro nei confronti degli statisti, dei politici. La rappresentanza pubblica è costantemente minata da uno sguardo simile che però non viene ancora fatto proprio dai cardinali”. Come se fossero gli unici al mondo a non sapere che le cose funzionano così. “Infatti, l'eletto imparerà gradualmente alla scuola della vita ciò che è vero in lui. Si risveglieranno i ricordi, la vena fanciullesca, l'interesse per la vita quotidiana, le cose elementari che un cardinale non fa più. Pian piano quella vita mai vissuta tornerà alla ribalta e da lì nascerà la sua umanità. Quanta strada dal rifiuto iniziale fino all'ultimo discorso… L'eletto torna in scena solo per annunciare il suo ritiro. Momento di massima teatralità e minima realtà. E lì c'è l'autentico”. Il protagonista è nudo sulla scena, per un attimo e non di più perché è insostenibile. “Rappresentazione e realtà coincidono in quell'attimo. Straordinario”.

    Mi domando se la descrizione di questi cardinali, un po' nevrotici e molto acciaccati ma in fondo bravi ragazzi che alla sera fanno il solitario in camera, sia verosimile. Nella gerarchia cattolica non mancano i tecnocrati spregiudicati. “Certo, il film ha un taglio giocoso e farsesco eppure questa miscela di astuzia politica e di banalità quotidiana è molto diffusa. Non riguarda solo gli uomini di chiesa. La doppiezza del ruolo è una prassi comune nel sistema patriarcale: marito e amante, padre di famiglia  e imprenditore…”.

    La psicoanalisi, dunque. Ma ovviamente un altro piano di lettura è quello biblico. “In una delle scene più toccanti lo psicoanalista recita alcuni brani dei salmi davanti ai cardinali sbigottiti, trattandosi di testi che tradiscono la disperazione degli eletti di Dio. E' il tema dell'elezione del reprobo e della riprovazione dell'eletto che attraversa tutta la Bibbia. Basta pensare alla storia di Mosè e Aronne, o di Saul e Davide. E poi Giovanni il Battista che si chiede se è lui il prescelto o deve arrivarne un altro. E Saulo che diventa Paolo, Pietro che fallisce a ripetizione”. Nel film il candidato forte del conclave non è il cardinale Melville, ma Gregori. “Chi mai è all'altezza dell'elezione divina? Nella Bibbia, che è un racconto, si dà molto spazio a questa dinamica di elezione e rifiuto che invece nella storia della chiesa è attutita, per ovvie ragioni”. In effetti, l'istituzione è attendibile soltanto se è solida e non concede troppo alle oscillazioni interiori dei suoi rappresentanti, anche se oggi un paradigma durato secoli sembra non funzionare più.

    A proposito di malfunzionamento, è evidente la debolezza del film dal punto di vista teologico e di fede. “Sotto questo profilo, la pellicola sembra risultare un elogio fatale a uno dei vizi più contestati dalla tradizione monastica ed ecclesiale: il Papa è simpatico perché rispecchia la nostra tendenza all'accidia, alla codardia, allo svago della mente tra depressione e fuga nel divertimento. E' la viltà e pusillanimità che Dante rinfacciò a Celestino V, colui che fece il gran rifiuto”. A questo proposito Padre Salmann mi ricorda diversi brani della tradizione, dai Padri del deserto fino alla lettera di san Bernardo a Papa Eugenio III “che ricorda la grandezza e dignità dell'ufficio papale e dell'essere polvere e fango di colui che lo ricopre, trovando così la via media tra presunzione e disperazione. Gli stessi toni li ritroviamo nei ‘Paradossi della fede' del cardinale Henri de Lubac e all'inizio di ‘Resistenza e resa' di Bonhoeffer, uno straordinario elenco di virtù in tempi di emergenza e di prova: il coraggio civile, il senso di qualità e la sprezzatura necessarie per conquistarsi quella libertà oggettiva che saprebbe rappresentare la verità del cristianesimo e della cultura romana. E se il film fosse anche un tradimento soave e seducente di questa grande tradizione?”.

    Certo, “Habemus papam” non ha un messaggio da lanciare o una tesi da dimostrare. Descrive piuttosto un'atmosfera, fiuta l'aria che tira. “Per questo non è una pellicola anticlericale né teologica, men che meno politica. Si muove su diversi piani e descrive diverse problematiche: pubblico e privato, elezione e riprovazione, teatro e vita, rappresentazione e introspezione. Non è una banale denuncia, non smaschera alcunché”. Perché Moretti sceglie proprio Cechov? Perché è la quintessenza del teatro? “Come dicevamo il film è sottodeterminato. Cechov è colui che mette in scena la non vivibilità e la non rappresentabilità della vita. La chiesa guarda le cose dall'alto, Cechov – che era un medico – dal basso”. Geniale l'idea di recitarlo nei corridoi di un albergo: lì trova la sua verità. Quando alla fine viene rappresentato sul palcoscenico, torna a essere una finzione bruscamente interrotta dalla realtà, o dalla Realpolitik. “Ma c'è anche un terzo momento del racconto, quando alla prova generale viene a mancare il protagonista, impazzito, e Melville rimpiange la passione giovanile per il teatro”.

    Tutto il film di Moretti è venato di una affettuosa malinconia. “E in questo modo coglie la poliedricità, la scissione, la stranezza della vita di ognuno di noi”. Proprio perché siamo così dissipati e frammentati non bisogna calcare troppo i toni, dobbiamo mantenere uno stile sobrio, arioso, altrimenti schianteremmo. Questo Moretti l'ha capito benissimo. “Perciò Melville in mezzo a tante rappresentazioni, attese, pressioni e illusioni, alla fine riesce a trovare il bandolo della matassa”.

    C'è un'altra falda dell'opera che non abbiamo ancora considerato: il ruolo della donna. “Rimossa dalla chiesa, torna qui come madre e sorella”. Non giudica, esercita invece con discrezione il suo maternage. Il deficit di accudimento, però, non è la formula magica che risolve il caso. “Anzi, è quasi ridicolizzata. Il fatto è che tutti noi pensiamo psicoanaliticamente ma questo non ci aiuta. Piuttosto ci commuove l'educazione sentimentale di un Papa eletto, il suo cammino verso la realtà e la nudità finale, la fine della recita. Questo fa bene al teatrino della nostra vita”.
    Il protagonista si chiama Melville. Un nome un destino. “Appunto, la caccia impossibile del capitano Achab e Bartleby lo scrivano che risponde sempre ‘preferirei di no'. Il marinaio Billy Budd che viene condannato a morte ingiustamente. E il capitano Benito Cereno che, vittima di un ammutinamento, è costretto a fingere di comandare ancora la nave”. Risonanze letterarie preziose. “L'eletto” è anche il titolo di uno degli ultimi romanzi di Thomas Mann, autore che lei, caro professore, ama particolarmente.

    “Certo, l'elezione è un tema che ricorre in tutta la sua opera. Già nella ‘Montagna incantata' chi è eletto per la vita finisce nella banalità. E poi, naturalmente, ‘Giuseppe e i suoi fratelli'. Tornando all'‘Eletto', assistiamo a uno spettacolo inverso a quello del film: un uomo segnato da una grave colpa percorre una lunga stagione di penitenza per poi essere eletto Papa contro ogni probabilità, per pura grazia divina. Nanni Moretti percorre la strada opposta: un eletto dignitoso che trova, in un triduo pasquale di vita quotidiana, il coraggio di pronunciare la semplice frase: non sono all'altezza di stare al gioco dell'altezza reale (che del resto è il titolo di uno dei romanzi più divertenti di Mann)”.

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