Il manuale degli anti moralisti

Alessandra Sardoni

Attenti alla “boria del bene”, alla voluttà di specchiarsi nella propria perfezione morale. Attenti al progressivo distacco dalla realtà che affligge chi sceglie di criticare il male nell'immobilità della propria cittadella assediata. Attenti perché il male ha un vantaggio sul bene: conosce le debolezze degli uomini e le comprende mentre il bene può sconfinare nell'“aristocratismo etico” e preferire la salvezza dei pochi a quella delle moltitudini pur di non corrompersi o, peggio, somigliare ai nemici, al Nemico di cui non c'è nemmeno bisogno di fare il nome.

    Attenti alla “boria del bene”, alla voluttà di specchiarsi nella propria perfezione morale. Attenti al progressivo distacco dalla realtà che affligge chi sceglie di criticare il male nell'immobilità della propria cittadella assediata. Attenti perché il male ha un vantaggio sul bene: conosce le debolezze degli uomini e le comprende mentre il bene può sconfinare nell'“aristocratismo etico” e preferire la salvezza dei pochi a quella delle moltitudini pur di non corrompersi o, peggio, somigliare ai nemici, al Nemico di cui non c'è nemmeno bisogno di fare il nome. “L'umiltà del male”, pamphlet fresco di stampa (106 pagine, Laterza, Bari, 14 euro) del sociologo Franco Cassano, maître à penser della sinistra meridiana, sfida a colpi di ossimori le élite azioniste, gli engagés genere MicroMega, Libertà e giustizia, ma anche, sia pure in modo meno diretto, il Pd e lo stesso Vendola – culturalmente amalgamati quanto a complesso dei migliori – che ne hanno introiettato i riflessi o che li conservano come patrimonio genetico, nella loro scatola nera novecentesca, cordone ombelicale difficile da tagliare, forse la più difficile.

    “Perché siamo antipatici?”, si chiedeva un altro sociologo, Luca Ricolfi, in un fortunato libro di qualche anno fa, escursione nel senso di superiorità della sinistra politica e intellettuale, ritenuto con ragione, era la vigilia delle politiche del 2006, elettoralmente impervio. Perché dobbiamo imparare l'umiltà dal male, è quanto spiega oggi Cassano, esponente di punta della cosiddetta école barisienne, quel gruppo di intellettuali – da Beppe Vacca a Biagio De Giovanni (tuttavia non autoctono), a Leone De Castris, l'italianista scomparso nel marzo 2010, di stanza a Bari – stanziati intorno alla Laterza di Alessandro e Giuseppe, considerato il guru di Vendola e autore di un famoso saggio sul mezzogiorno intitolato “Il pensiero meridiano”. Cassano è nel solco di quel genere letterario, severo con i compiacimenti moralistici della sinistra, che ha avuto in Ricolfi, il primo sistematizzatore/divulgatore, ma sembra forzarne il perimetro e lo stile: non fa nomi. Non ci sono le esemplificazioni dei moralismi, le citazioni delle tassonomie di Umberto Eco, l'Elettorato Affascinato o Motivato, le frasi rivelatrici di Pierluigi Castagnetti, “il confine etico che ci separa dal centrodestra” o di Romano Prodi che dava dei “mercenari” ai volontari di Forza Italia. Non fa nomi Cassano, ma il destinatario si staglia con assoluta evidenza, in controluce, un ceto intellettuale, un'élite comunque guardata con rispetto.
    Perché per entrambi i sociologi, nella diversità antropologica, la prima persona plurale è esplicita o sottointesa – il segno ribadito di un'appartenenza. E la prospettiva è pragmatica: essere meno antipatici nella versione ricolfiana, imparare dal male in quella barisienne, può aiutare a batterlo.

    “L'umiltà del male” è a tutti gli effetti un testo politico, ma il grimaldello è letterario, fatti salvi i riferimenti alla sociologia e alla filosofia novecentesche, specie Max Weber e poi Theodor Adorno giustapposto all'antropologo conservatore Arnold Gehlen: i Karamazov di Dostoevskij soprattutto e poi “I sommersi e i salvati” di Primo Levi, quest'ultimo per ragionare di differenze tra comprensione e perdono, dove l'una non presuppone l'altro, e avventurarsi nella zona grigia che domina, è la tesi, anche la regione del male dostoevskiano.
    Il perno dell'analisi è la poderosa “Leggenda del Grande Inquisitore”, il poema che Ivan Karamazov racconta in prosa al fratello minore Alioscia, in uno degli ultimi capitoli del romanzo di Dostoevskij, meditazione sul potere e la libertà, il male e il bene, la felicità e l'infelicità dell'uomo, ambientata nell'esotica Siviglia del Cinquecento.

    Del lungo monologo dell'Inquisitore di fronte al Cristo che lo ascolta muto, Cassano privilegia non il profilo di despota, il labirinto del potere, ma la questione dell'aristocratismo etico, quello dei pochi, i “dodicimila santi per ciascuna generazione” capaci di resistere alle tentazioni, di mangiare locuste e radici. Se l'Inquisitore trionfa nel mondo, scrive, “è perché, dopo essere partito per i deserti della perfezione spirituale, ha deciso di lasciare i santi al loro destino”. Ha capito che la “via di Cristo era la via di pochi e che era necessario voltare le spalle ad essa per poter andare incontro a tutti gli altri”. Che colpa hanno i deboli “se non sono stati capaci di sopportare quello che hanno sopportato i forti? Che colpa ha un'anima debole, se non è in grado di accogliere in sé doni tanto tremendi?”, chiede il sociologo citando Dostoevskij.

    Non c'è alcun intento revisionista, di riabilitazione dell'Inquisitore neppure come provocazione. Il male è male, il bene è altrove e in un'intervista a Repubblica di qualche settimana fa lo stesso Cassano concedeva al quotidiano il beneficio dell'identificazione dell'Inquisitore con Berlusconi, capace di governare i desideri e di riadattare nelle forme spettacolari contemporanee i tre attributi/strumenti che la Leggenda assegna al potere, “il miracolo, il mistero, l'autorità”. La revisione semmai è nella scelta delle pieghe da esplorare, in un'esegesi prismatica, che alla tradizionale ritrattistica del volto demoniaco del potere preferisce l'indagine sulla “confidenza del male con le fragilità dell'uomo”, detto con il lessico di sinistra che fa capolino nel testo, la capacità di comprenderne i bisogni.
    E' una rilettura distante da quella che dello stesso testo fa il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, presidente onorario dell'associazione Libertà e giustizia, fra i destinatari ovvi del pamphlet di Cassano e che al Grande Inquisitore ha dedicato a sua volta un saggio nel 2004 “Il segreto del potere”, una lectio magistralis e una conferenza all'Accademia dei Lincei il 14 gennaio scorso, pubblicata quasi integralmente da Repubblica nello stesso giorno.

    Per Zagrebelsky la Leggenda è una profezia del presente, l'Inquisitore o gli Inquisitori sono “despoti seduttori” capaci di far leva sulla “ragion del volgo”, di esonerarlo dal peso della libertà in cambio dell'obbedienza e di stare “dalla parte di un'umanità innocente che nulla conosce se non il proprio meschino benessere”. Cassano nella parte finale e più politica del suo libro al contrario riconosce legittimità proprio all'aspirazione al benessere tutt'altro che meschino e anche ad altro, perfino alla categoria dell'evasione come anelito di libertà: “Per pensare di poter combattere il Grande Inquisitore con qualche successo occorre evitare di separare i dodicimila santi da tutti gli altri uomini, occorre non solo combattere, ma anche rispettare l'angustia dell'uomo. Il suo bisogno di sicurezza, di protezione, l'affidarsi al rito e alla festa, il desiderio di ridere e giocare, la fede nell'aiuto della fortuna. Se si vuole sbarrare la strada ai Grandi Inquisitori si devono criticare le risposte che essi danno a quei bisogni, non negarne la legittimità”.

    Sicurezza e anche “protezione”, laddove Zagrebelsky, in un appello per la manifestazione organizzata da Libertà e giustizia con Repubblica “Rompiamo il silenzio” dello scorso febbraio, spiegava che “i cittadini chiedono sicurezza non protezione”, attribuendo a quest'ultima parola una connotazione negativa, quasi fosse automatico considerarla prezzo per il sacrificio della dignità della persona al potente. Dunque meritevole di essere estromessa dall'elenco delle aspirazioni eticamente corrette.
    Scrive Cassano che “gli eletti ispirandosi a modelli alti ed esigenti si propongono di combattere contro la fragilità dell'uomo, contro i suoi difetti spesso forzandone la natura. Il Grande Inquisitore lavora proprio su questa soglia, a dividere gli uomini migliori da tutti gli altri, a presentarli come un'aristocrazia boriosa e innamorata della propria perfezione”.
    E' delle imperfezioni della perfezione, delle tentazioni del bene che parla in fondo “L'umiltà del male” rileggendo Dostoevskij, prima fra tutte il “narcisismo etico”, cedimento alla voluttà del dover essere contrapposta agli inestetismi dell'essere.
    La Leggenda aiuta a scorgere “l'insopportabile presunzione dei migliori, il lato debole della loro forza”, scrive Cassano, aggiungendo ossimori a ossimori e scagliandosi contro la supponenza di quanti disprezzano chi è rimasto attardato o si è fermato qualche gradino più giù”. Perché è qui che i Grandi Inquisitori sono competitivi grazie alla loro capacità di seduzione e di comprensione.

    Ed è proprio qui, imparando dalle abilità dell'Inquisitore, che, secondo Cassano, la sinistra dovrebbe essere capace di trasformare la propria spinta morale in politica. Il sogno è quello di una élite di persone coraggiose, spiega intervistato da Repubblica, “per cui testimonianza non evoca il tribunale penale, ma la capacità di fare onore alle proprie idee”.
    Certo il compito non è facile: si devono fare i conti con una società più complessa di quella preconizzata nel secolo scorso dai filosofi di Francoforte, percorsa dal soggettivismo, dalla voglia di distinguersi e di essere qualcuno (non mancano nel saggio le intersezioni con i temi della società dello spettacolo, la tv, i reality ecc., “l'industria culturale”), di cercare spazio pubblico per le proprie sensazioni private. Tendenze che peraltro sono già entrate nelle case della sinistra, che ne contagiano icone e attitudini.
    Si devono fare i conti, è la tesi, anche con l'irrealizzabilità, almeno nelle vecchie forme, della prospettiva dell'emancipazione. Cui l'autore non sembra tuttavia voler rinunciare così come alla convinzione implicita di esser parte dei dodicimila eletti della propria generazione. Semmai il suo è un più realistico ridimensionamento degli obiettivi: “Non miriamo ad una vittoria totale: il dover essere e l'essere rimangono regni eterogenei e nessuno di essi può essere ridotto all'altro. Bisogna resistere alla tentazione di sedersi dall'una o dall'altra parte accettare di rimanere in piedi anche se si sta scomodi e ci si può stancare”.
    A ben guardare la parte propositiva vira sul recupero di una dimensione popolare, materiale perfetto per il vendolismo, e non è un caso che nel saggio di Cassano Massimo Bray, direttore della dalemiana rivista ItalianiEuropei, veda l'ombra del populismo e preferisca concentrarsi su un altro aspetto, il primato della politica. “In fondo invita a far diventare politica la spinta morale”, dice Bray al Foglio. Che tuttavia ci tiene a ricostruire il contesto biografico del lavoro di Cassano. “E' il ritorno alla politica di un intellettuale che aveva scelto la via movimentista, da società civile con l'associazione pugliese Città plurale, bacino vendoliano dal 2005, dopo aver lasciato la politica alla fine degli anni 70”.
    Una lettura alla fine politicienne e prudente che plaude ai “richiami all'umiltà e a parlare ai molti”, ma poi chiede “come si fa nella società liquida…”. Quasi a segnalare mancanze nella pars costruens, peraltro non l'oggetto specifico del pamphlet. Che conserva un'aura difensiva, il sapore di memento solo vagamente millenarista: il Grande Inquisitore lavora a isolare i santi, potrebbe appuntare Cassano in un'agenda della sinistra. Attivarsi.