Vecchi e garantisti/ 1

Liberale impunito

Guido Vitiello

Racconta Gioachino Belli in uno dei suoi sonetti ispirati alla storia sacra di come il Padreterno, per sventare la sedizione degli angeli ribelli, dovette schierare in armi i suoi “cherubbigneri”, sorta di angeli-carabinieri. Alla loro testa pose san Michele arcangelo, che avanzava fieramente al galoppo sotto uno stendardo bianco e giallo, i nuovi colori dello stato pontificio. Ma il grande blitz poliziesco, la cosmica retata, poté partire solo quando “un angelaccio de li neri”, per aver salva la vita, spifferò all'Altissimo la congiura.

    Racconta Gioachino Belli in uno dei suoi sonetti ispirati alla storia sacra di come il Padreterno, per sventare la sedizione degli angeli ribelli, dovette schierare in armi i suoi “cherubbigneri”, sorta di angeli-carabinieri. Alla loro testa pose san Michele arcangelo, che avanzava fieramente al galoppo sotto uno stendardo bianco e giallo, i nuovi colori dello stato pontificio. Ma il grande blitz poliziesco, la cosmica retata, poté partire solo quando “un angelaccio de li neri”, per aver salva la vita, spifferò all'Altissimo la congiura. Come in cielo, così in terra: questo angelaccio fu, per così dire, il protopentito, il pentito archetipico. Belli dice che “pijò l'impunità”, e “impunitari” (o impuniti) era appunto il termine con cui la giustizia papalina designava i delatori. Meno ipocrita, forse, di pentiti – che evoca tutto un mondo di intimi tormenti, notti dell'Innominato, Maddalene ravvedute – e meno anodino di collaboratori di giustizia, che dà quasi nel sindacale. Tutt'oggi, a Roma, nel gergo popolare impunito vale per sfrontato, impenitente.

    Una cosa è certa: nell'evenienza di una nuova retata del Padreterno o del suo vicario in terra, uno come Mauro Mellini non avrebbe scampo. Liberale, anticlericale impenitente (o impunito), fustigatore per giunta di quella che definisce “fobia antimassonica”, Mellini è il tipo d'uomo che il Belli avrebbe affidato d'urgenza alle cure del boia (“Chiameli allibberali, o fframmasoni, / O carbonari, è sempre una pappina: / E' sempre canajaccia giacubbina / Da levassela for de li cojoni”). Ma ciò non gli ha impedito, anni fa, di raccogliere diligentemente in volume centosessantuno sonetti giudiziari del poeta romanesco: “'Sta povera giustizzia” (“l'unico libro che ho scritto in quarant'anni invece che in una settimana”) è il frutto di questa laboriosa gestazione.

    Il sonetto dell'angelaccio impunito
    è anche il prologo in cielo di una lunga conversazione ad armi impari che ha per scena lo studio di Mellini, nel quartiere Prati. Al di qua di un'ampia scrivania disseminata di libri, codici e appunti vergati a mano siede un anziano garantista che non saprebbe definirsi tout court avvocato (“perché ho fatto molte altre cose”) ma neppure uomo politico (“quattro legislature, nel Partito radicale: e non ho concluso niente”, confessa con un understatement alquanto ingeneroso) e men che mai scrittore (“ho scritto molto, ma sono stato molto poco letto, e il pensiero volerà pure su l'ali dorate, ma da qualche parte deve posarsi”). Gli siede, dirimpetto, un garantista un po' più giovane, con molti grilli giudiziari pel capo, che non può certo definirsi giurista (un solo esame di Diritto, dato con gran tribolazione) ma a dirla tutta neppure giornalista (a malapena sa azionare il registratore, comprato per l'occasione).
    “Lessi una volta sull'Espresso una noticina di Leonardo Sciascia su quel sonetto, ‘L'angeli ribbelli' – rievoca Mellini – Iddio, osservava Sciascia, aspetta la delazione di un pentito per dare il via alla retata. Ma il Padreterno, che è per definizione onnisciente, poteva forse aver bisogno di un informatore per scoprire le trame dei congiurati? No di certo. La verità è che il pentito dice sempre quello che il magistrato sa già, quello che si aspetta di sentirsi dire”. La mia segreta speranza, tutta inquisitoria, è di estorcere a Mellini qualche lemma di un ipotetico abbecedario giudiziario, che mi pare urgente compilare. La filologia è filosofia, mi assicura, e viste da vicino certe parole di corso comune mostrano il loro volto abnorme e ripugnante. Pentito è solo la prima che passiamo in esame, ma molte altre dovrebbero trovar posto in questo lessico. Parole ingannevoli come emergenza, condizione permanente di un paese dove nulla è più definitivo del provvisorio, idolo a cui sacrificare diritto e garanzie (“ma il reato è sempre un'emergenza, un'interruzione del corso normale delle cose: giustizia d'emergenza è una tautologia, che cela il proposito di passar sopra a certe fisime per instaurare una giustizia di guerra”). Verbi agghiaccianti come smaltire, che designa l'attività del giudice operoso, che sa liberarsi di una gran mole di cause pendenti (“Lo si usa per due casi: per le pratiche e per i rifiuti. Il cittadino va davanti ai giudici per cercare giustizia, e invece viene smaltito”). E poi c'è la gestione dei pentiti a opera del magistrato, che è termine dalle risonanze sinistre.

    La mente corre fatalmente
    a un altro grande garantista morto qualche anno fa, lo storico del diritto Italo Mereu, e alla sua convinzione – maturata ai tempi della legislazione d'emergenza – che la nostra giustizia non si fosse mai affrancata dal retaggio dell'Inquisizione. “E' un'intuizione notevole – riconosce Mellini – Tutta una letteratura antimafia, per esempio, discende dal ‘Malleus Maleficarum', dai manuali inquisitoriali. E' tutto un modo di ragionare, per il quale la storia è fatta attraverso i processi. Se andiamo a leggere i trattati di demonologia, ritroviamo sempre questo tipo di affermazione: ‘Risulta da una quantità di processi che il diavolo è fatto così e così'. Come vede, questi parlavano come Travaglio. Ma cosa risultava, davvero, dai processi? Che gli inquisitori facevano triturare gli inquisiti finché non confermavano le loro fantasie malate. Se leggiamo il ‘Malleus' e la letteratura demonologica, c'è scritto non solo quel che bisogna chiedere alle streghe, ma anche quel che bisogna aspettarsi in risposta per assicurarsi che abbiano detto il vero. L'inquisitore deve sapere – ‘come risulta da una quantità di processi' – che il demonio ha lo sperma gelato, o che si accoppia nei giorni di luna piena. E chi ha detto queste cose? Altre persone che sono state torturate come quelle che, seguendo il manuale, il novello inquisitore dovrà torturare a sua volta”. E' un circolo da cui non si esce, un nodo che avvince l'inquisitore e l'inquisito, una collusione ben più terribile di qualunque sindrome di Stoccolma: “C'è un circuito perverso che si crea tra torturatore e torturato, tra pubblico ministero e pentito, e questo circuito ha per effetto la creazione di tutto un mondo che è fondato su una sostanziale falsità. Il torturato, che aspira all'impunità, cerca di adattarsi alla mentalità del torturatore, si foggia nella mente dei criteri su ciò che è accettato e ciò che non è accettato dall'uomo che è lì con la frusta o con le corde a suppliziarlo. Ma a sua volta il torturatore ha bisogno di questa adesione. Ne ha bisogno per la sua soddisfazione, per un'apparenza di giustizia, o anche perché deve poter scrivere nella sentenza che il condannato destinato al rogo è stato ‘convinto di eresia' (altra espressione di cui prender nota). E a forza di convincere gli altri, l'inquisitore convince se stesso”.
    Solo qui fa capolino nella nostra conversazione un nome che aleggiava già da un po', quello di Enzo Tortora. Mellini, che con i Radicali fu uno dei grandi animatori della battaglia per la giustizia giusta culminata nel referendum del 1987 per la responsabilità civile dei magistrati, rievoca un episodio all'apparenza minore che però, venticinque anni dopo, è ancora in grado di ridestare un'irascibilità che con l'andare degli anni si era un poco acquietata: “Una delle pagine più ignobili del caso Tortora è la presentazione delle ‘memorie' di Melluso, uno dei pentiti suoi accusatori. Il libro, ‘Gianni il bello', venne presentato in pompa magna al Circolo della stampa di Napoli, presente il fior fiore mondano della magistratura partenopea, con suocere, figlie da marito, giornalisti e cronisti giudiziari”. E' una storia che Mellini ha raccontato mille volte, che racconterà di nuovo nel libro che sta preparando.

    Inevitabile, a questo punto, che si affacci nel nostro abbecedario un altro lemma: circo, per l'esattezza circo mediatico-giudiziario. Una formula che è stata via via abbandonata in favore di varianti pudiche, quasi reticenti. Si preferisce chiamarlo circolo (che evoca, nobilmente, il circolo vizioso della logica) se non circuito o cortocircuito mediatico-giudiziario (che allude al malfunzionamento di un meccanismo, indipendente dalla volontà di chi lo innesca). Ma Soulez Larivière, che introdusse la formula in un pamphlet dei primi anni Novanta, parlava inequivocabilmente di cirque, un circo che pianta il suo tendone sulla scena di un crimine, vero o presunto, per allestirvi il suo spettacolo pacchiano. Di solenne c'è ben poco. Il processo dovrebbe essere un dramma che “ricalca i classici modelli teatrali della tragedia greca”, scrisse una volta quello spirito donchisciottesco di Enzo Tortora, che coglieva le cose con una chiarezza abbacinante proprio perché le rifletteva nello specchio impietoso della letteratura; ma il suo gli pareva semmai “un feroce e stolido vaudeville”, con attori che “non facevano precisamente pensare a Eschilo”.

    Mellini ha in mente la Roma pontificia più che la Grecia classica, e ricorda quel giudice della Sacra consulta che il Belli dipinse in uno dei suoi sonetti più neri, dove dietro i paramenti del ministro divino s'intravede il profilo corvino del boia: “E cantò messa monzignor Camuffa / uno de quelli che condanna a morte”. E' ancora al cattolicesimo, in altre parole, che dobbiamo guardare per spiegarci alcuni aspetti della giustizia-spettacolo. “Ero ancora un ragazzetto fresco di laurea – racconta – Andai al Palazzaccio con Carlo Manes, l'avvocato con cui facevo pratica. ‘Adesso ti faccio vedere una cosa', mi disse. Passammo davanti all'aula magna della Cassazione, mi mostrò Giustiniano e Teodora, e poi non so quale iscrizione in latino, e le colonne, e in breve tutta la solennità del luogo. Mi disse che la giustizia si era assunta il compito di sopperire a quel bisogno di celebrazioni che nel passato era propria della chiesa, imitandone il fasto, quel tono basilicale che ritroviamo per esempio nell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Più che la tragedia greca, è un'imitazione delle cerimonie cattoliche. Sessant'anni dopo, me lo ricordo ancora”.
    Gli suggerisco che il circo evoca anche altro, la selvaggeria dei ludi imperiali, il sangue, le fiere, i cristiani sbranati. A Mellini la distinzione non sembra decisiva: “Una cerimonia è bella non quando ci son tante candele, ma quando nella folla si scatenano reazioni irrazionali. Produrre queste reazioni è proprio dei riti religiosi e di un certo tipo di giustizia. Nessuna giustizia ne è mai stata immune”. Da questo germoglio, se lo si volesse, si potrebbe far crescere un rigoglioso ramo d'oro di antropologia giuridica, che da Frazer discenderebbe al René Girard del capro espiatorio. Mellini cita un antico costume dei Celti prima della colonizzazione romana: “Quando c'era un delitto, se non se ne trovava il colpevole, per placare lo spirito dell'ucciso si metteva a morte uno schiavo. Ecco, lo stesso accade quando si cerca un colpevole purchessia, o quando i giornali – dopo che magari la Cassazione ha annullato una sentenza – scrivono quella orrenda idiozia: ‘Un omicidio senza autori'”. Quasi che il macchinario della giustizia avesse la funzione non di accertare la verità ma di produrre un colpevole, per placare gli spiriti e assicurare la pace sociale. Veniamo così a un altro lemma insidioso: esemplare. “L'idea della sentenza esemplare mi fa inorridire. Esemplare dovrebbe essere la sentenza particolarmente attenta, che vaglia fino all'infinitesimo il pro e il contro. Di solito invece s'intende tutt'altro, quella sentenza che punisce con esagerata severità in un determinato momento, quindi una sentenza esemplarmente ingiusta”. Molte sentenze storiche lo sono state. Anzi, “non ricordo una sentenza storica che fosse una sentenza giusta, a partire da quella che mandò a morte Cristo”. Ripensa, Mellini, all'agghiacciante fantasia di Anatole France, “Il procuratore della Giudea” – libro caro a Sciascia – dove l'anziano Ponzio Pilato, ormai in ritiro, non ricorda più nulla di Gesù. “E' la quintessenza dell'indifferenza”.
    Un'indifferenza, forse, che è propria di quel giudice che gode del suo potere invece di patirne il peso terribile. Leggo a Mellini una pagina di Sciascia che potrebbe costituire il lemma giudice dell'abbecedario. Vi si dice che il potere di giudicare i propri simili “non può e non deve essere vissuto come potere. La scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell'accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità” (non diversamente André Gide, dopo l'esperienza come giurato popolare nella Corte d'Assise di Rouen, volle battezzare “Ne jugez pas” la collana giudiziaria che curò per Gallimard). “E' lo Sciascia migliore, con la sua visione dolorosa dell'esistenza. Il precetto evangelico, ‘Nolite iudicare', vuol dire proprio questo: non ergetevi a legge, non siate voi la legge, il giusto e l'ingiusto. Io giudice non sono misura di niente. Sono sottoposto alla legge come te imputato. Tu devi sottostare alla pena, io devo sottostare alla pena di irrogarti la pena. Ma questa è una concezione di un'elevatezza tale…” – e lascia sfumar via la frase, con il gesto lieve e svagato di chi è abituato a predicare al vento.

    L'abbecedario giudiziario ha preso forma,
    per quel poco che era possibile in un mezzo pomeriggio di bonaria inquisitio. Prima di congedarmi da Mellini, gli chiedo ancora cosa tenga insieme le sue due anime di garantista e di anticlericale, e se non siano un'anima sola. La laicizzazione dell'Italia passa forse per una laicizzazione della sua giustizia, per l'abbandono di tutti i retaggi inquisitori, i lavacri di espiazione, lo status sacerdotale dei giudici, le contiguità di tribunali e confessionali? Mellini mi assicura che il suo anticlericalismo non è di origine giudiziaria, che ha robuste radici ottocentesche, e si è temprato nella grande battaglia per il divorzio. Della chiesa, lo infastidisce più di ogni altra cosa la disinvoltura nel rigirarsi la frittata dottrinaria, nel mettere in conto le malefatte alla tristizia dei tempi, spesso a opera di chierici che “non credono manco nel pancotto” – uno splendido modo di dire romanesco “che non sento più da qualche decennio”.
    Gli domando infine se il processo non sia il terreno ideale dove riformulare l'antico dilemma: Atene o Gerusalemme? In fondo, a furia di battagliare sulle radici cristiane o greche dell'Europa, ci dimentichiamo che basta arretrare di un passo, abbracciando in un colpo d'occhio il panorama, perché ci appaiano due processi fondativi: quello a Socrate e quello a Gesù. Mellini propende decisamente per Atene: “Tanta parte della dottrina cristiana che si è andata formando dagli anni dei Vangeli e delle lettere degli apostoli, fino alla prima teologia e ai concilii, è stata sì concepita nel mondo ebraico dell'incombente tragedia della distruzione del Tempio di Gerusalemme, della diaspora, ma è stata poi pensata nella lingua greca e nel pensiero di quei grandi costruttori di strumenti logici e dialettici che furono i sofisti. Allo stesso modo il diritto romano che è arrivato a noi era scritto in latino, ma il diritto dell'età imperiale, che è poi quello del Digesto, a parte le interpolazioni giustinianee, era frutto dei giureconsulti che avevano studiato a Rodi la retorica e la grammatica. Il nostro pensiero giuridico e il nostro pensiero religioso hanno in comune questo grande dato di origine”.

    Certo è che la Bibbia è un grande dramma cosmico-giudiziario, culminante dinanzi al sinedrio, o nella valle di Giosafat. Una nota a piè di pagina dell'abbecedario potrebbe ricordare che Satana è, in ebraico, l'Accusatore, e che nel greco dei Vangeli lo Spirito Santo è chiamato il Paracleto, cioè l'avvocato. Ma su questa china gerosolimitana Mellini proprio non mi segue. Non si sente certo, come avvocato, un vicario dello Spirito, e anzi preferisce scherzare sul patrono dei forensi, sant'Ivo di Bretagna, “advocatus sed non latro”. E al pancotto, Mellini, ci crede? “Magari con un po' d'olio sopra”.