Milan Campione d'Italia

L'unto del diavolo

Lanfranco Pace

Avevano cominciato a sfottere in anticipo, ogni giorno un po' di più. Andò così. C'eravamo appena trasferiti dal vasto pianterreno e sottoscala della rue Christiani, metro Barbés, piena casbah, al Marais, quartiere di tendenza, in un ex parcheggio a forma di nave capovolta, più largo alla base che alla sommità, otto piani sfalsati collegati da una rampa elicoidale che arrivava fino a una terrazza da dove si vedeva Parigi a perdita d'occhio. Ci sentivamo re.

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    Avevano cominciato a sfottere in anticipo, ogni giorno un po' di più. Andò così. C'eravamo appena trasferiti dal vasto pianterreno e sottoscala della rue Christiani, metro Barbés, piena casbah, al Marais, quartiere di tendenza, in un ex parcheggio a forma di nave capovolta, più largo alla base che alla sommità, otto piani sfalsati collegati da una rampa elicoidale che arrivava fino a una terrazza da dove si vedeva Parigi a perdita d'occhio. Ci sentivamo re. La redazione degli interni occupava il penultimo piano: accanto a noi lo sport, una decina, per lo più ex maoisti, custodi della memoria e guardiani della morale ma casinisti e alcolizzati il giusto. Si filava da mesi d'amore e di champagne. Fino a quel giorno di marzo in cui la buttarono là, come un'ovvietà: “Alors, l'italien, ton Milan à Madrid, que va-t-il faire?”, rubare il solito gol e poi tutti in porta?

    Avevo passato anni a occuparmi d'altro e del Milan, lo confesso, avevo un po' perso le tracce. La fede no, era la stessa del bambino che in un oratorio di provincia arraffò quella maglia rossa e nera che sentiva sua a pelle. L'ultima partita l'avevo vista nel 1979, anno del decimo scudetto, quello della stella. In Francia non c'era ancora la moda di trasmettere gli incontri dei campionati stranieri e la Rai oscurava spesso e volentieri: agli emigrati con valigia di cartone non restavano che le notizie dei giornali o per telefono. Non sempre erano delle migliori: la “fatale Verona” in cui perdemmo uno scudetto all'ultima giornata, il Totonero, due retrocessioni, un valzer di presidenti da strapaese, sette in poco più di dieci anni. Fino al 1986 in cui sbarca Silvio Berlusconi, esonera Niels Liedholm e ingaggia per la stagione successiva tal Arrigo Sacchi, da Fusignano, sconosciuto allenatore che proveniva dalla serie C. Subito il miracolo: vinciamo lo scudetto al primo colpo dopo una rincorsa pazzesca al Napoli di Maradona. Ma l'Europa è sempre stata un'altra storia: non vincevamo la Coppa da quando la banda di paròn Rocco, considerato chissà perché teorico del catenaccio, ne rifilò quattro all'Ajax di Rinus Michels, il profeta del calcio totale – ed erano passati venti anni. Nel 1989 il Real, il club più titolato al mondo, faceva davvero paura. Avevo dubbi. Chissà come gioca ora il Milan, mi chiedevo, vuoi vedere che hanno ragione queste facce da schiaffi frustrate per il loro calcio che sarà pure champagne ma la Coppa la vede sempre in mano agli altri?

    Si sa, la fede è fede. E quando si rosica è bene sfogarsi. Chers amis, sbagliate, noi non siamo “lantèrdemilan” come la chiamate voi, non siamo quelli del “taca la bala”, catenaccio e contropiede, che poi sarebbe gioco anche logico e d'astuta bellezza se hai una difesa come quella che avevano loro. Noi siamo ben altro, “casciavit”, proletari e laboriosi per nascita, aristocratici per gusto del bello. Noi siamo il diavolo, il nero dell'antro di Vulcano, il rosso del fuoco che distrugge e crea. Noi siamo quelli dal gioco arioso e audace, la squadra dei Nordhal, dei Liedholm, di Schiaffino, Dino Sani e Rivera, di Altafini che zoppica in lingua ma mai sotto rete, dei Prati e dei Mora. E anche dietro non scherziamo, Cesare Maldini, alto e smunto che sembra non avere mai mangiato carne, capitano della prima squadra italiana ad aver vinto la coppa dei Campioni. E quel Trapattoni, gambe corte ma frenetiche che non fecero toccare palla neanche a Pelé. Venite pure a scuola da noi, professori “des mes deux”: noi siamo il Milan.

    “Arrête ton cirque, rital”. Manca poco che mi chiamino “sale rital”, sporco italiano. Lo sfottò è ormai scherno, lo scherno evoca qualcosa di antico e sinistro, la stessa diffidenza etnica che all'inizio del secolo spinse i residenti a linciare centinaia di italiani arrivati nelle Bocche del Rodano per lavorare in miniera. Il calcio è simulazione certo, ma come ogni arte rispecchia visioni diverse della vita, del mondo. La sera prima del match me ne sto in disparte, non do confidenza a nessuno: aiuta la concentrazione e di solito porta bene. Esco tardi dal giornale e vado a cena da Mimmo, sul boulevard Magenta. Ha il talento per la bella cucina di un tempo, il dono di essere napoletano. E un vizio capitale: è interista. Ma gli voglio bene. Mi vede teso e gli dico che è per via della partita. “Ma che partita e partita, non ci sarà nessuna partita. Lanfrà, chill sono mostri, Sacchi farebbe segnare pure a te e a me. Io li ho visti a San Siro e se te lo dico io…”.

    E' buon profeta: non ci sarà partita. L'indomani in tutti e otto i piani della rue Béranger, anche chi non è interessato al calcio tiene un occhio puntato sui televisori. Io sto addossato al muro, alle spalle dei punzecchiatori. Il Real Madrid va in vantaggio. Dovrei disperarmi, invece sono in uno stato di beatitudine. Gullit segna, bella azione, bel gol, potrebbe essere il pareggio ma l'arbitro annulla, non si capirà mai perché. Non mi deprimo affatto, anzi comincio a capire cosa sia l'estasi dei mistici. Nessuno ha mai giocato così, non il Real Madrid del grande Di Stefano, non il Santos di Pelé, non l'Ajax di Cruijff: il Milan, il mio Milan si ripresenta al mondo come falange terrificante per potenza e classe, in cui anche i giocatori con minore talento contribuiscono perfettamente a un movimento d'insieme, sincronico, che impone il dominio sul tempo e conquista lo spazio. Il Real è pressato fino all'asfissia, fatica addirittura a passare la metà campo.

    Al 77' Mauro Tassotti, terzino destro, vola per sessanta metri fino alla tre quarti. Lascia partire un cross, la traiettoria non sarebbe male ma al momento di calciare, evidentemente a corto di fiato, sbuccia la palla che arriva in area, sporca, un buon metro alle spalle di Marco Van Basten. Che le va incontro di mezzo passo, poi si tuffa di lato e in orizzontale a un metro da terra, avvita il busto, imprime una torsione al collo e con la nuca crea: la palla si alza, scavalca il portiere, ridiscende dritta al sette, colpisce la traversa, rimbalza a terra ed entra. Un gesto pazzesco compiuto addirittura con l'eleganza delle cose semplici. E' pareggio ma per quanto visto in campo mai risultato è apparso più bugiardo. Tutti ammutoliti, qualcuno annuisce con il capo e mi lancia sguardi d'intesa, qualcun altro si congratula. Vorrei saltellare con il petto in fuori, come un pollo, mi trattengo scelgo il basso profilo, il trionfo dei forti. Ma canticchio “è tutto un complesso di cose che fa sì che io mi fermi qui, le donne a volte sono scontrose o forse han voglia di far la pipì… se tu vuoi andare vai, e vai, che io sto qui e aspetto Bartali, tra i francesi che s'incazzano e i giornali che svolazzano…”.

    Fu quel 5 aprile 1989 che decisi che Silvio Berlusconi sarebbe stato padrone del mio cuore di tifoso, capitano della mia anima rosso-nera. Capii che avrebbe portato il tempo delle ciliegie e fu una delle poche previsioni che ho azzeccato nella vita. I rabat-joie a prescindere dicevano che era tutto merito di calciatori che erano davvero campioni e in subordine del profeta dagli occhi spiritati.

    Ma dare un profilo e una cultura vincenti a un club glorioso e stanco, assemblare una simile macchina da guerra in meno di due anni, reclutare uomini che ognuno nel proprio ruolo si sarebbero rivelati fra i migliori al mondo, non poteva essere solo questione di denaro. Occorreva un demiurgo. Lungimirante, consapevole della giustezza delle proprie idee, determinato a imporle. Vincere non è facile ma si può, vincere molto già è meno facile. Ma vincere per buona parte di un quarto di secolo, passando da un ciclo all'altro, da campioni ad altri campioni, diventare insomma il presidente con più trofei nella storia del calcio somiglia a un destino unico. Capiamolo dunque. Quando a chi gli chiede se preferisce occuparsi di politica o del Milan, risponde: “Non scherziamo, il Milan è una cosa seria”. O quando nel 1994 seppellì Luigi Spaventa da Oxford, suo sfidante nel collegio di Roma centro, con un semplice “prima provi a vincere qualche coppa internazionale”.

    All'inizio nessuno capì che quella e non altro era la vera “fabbrica dei sogni”, Hollywood in Brianza. Non le case ridenti dove si vive a misura d'uomo, non la televisione che è solo un mezzo e comunque non fa sognare. Non La Cinq, tentativo fuori tempo di vendere fondoschiena e piume di struzzo al paese del Crazy Horse, che gli intellettuali della Rive gauche bollarono come volgare e fu sepolto definitivamente dalla politica sciovinista di Chirac. “Santità, ogni suo viaggio è come un gol. Ha la stessa idea vincente del mio Milan, che è poi l'idea di Dio, la vittoria del bene sul male” disse a un esterrefatto Giovanni Paolo II.
    Basta sfogliare i pochi libri dedicati all'argomento – meritori e pressoché introvabili – come “Il Cavaliere nel pallone” di Eugenio Berliri e “Il Cavaliere a due punte” di Rino Ghedini, per rendersi conto che proprio nei primi anni da presidente del Milan si svela il nocciolo duro, l'essenza del fenomeno berlusconiano, il suo splendore, le sue miserie. E' il primo grande palcoscenico in cui dire menzogne che sembrano sempre sincere e fare gaffe che sembrano sempre da sprovveduto, in realtà calcolate fatte con uno scopo. Per la prima volta vede una folla reale, che palpita e vive, intuisce la presa che su di essa hanno i simboli, i riti, gli inni, la messa in scena. Un club che in patria è terza forza, con meno tifosi dell'Inter e meno della metà della Juventus, viene proiettato d'acchito sul mercato europeo e mondiale, lanciato come brand planetario, da Los Angeles a Tokyo. Per ottenere il successo, sceglie una tattica che è anche una formidabile filosofia di gioco: attaccare comunque e ovunque perché il Milan non sarà mai fuori casa. Un tratto distintivo che manterrà anche dopo e contribuirà a farne un politico unico.

    E' singolare che i tanti intellettuali che hanno sognato e ancora oggi sognano di farlo a pezzi, abbiano scelto nei suoi confronti il disprezzo, il sarcasmo, le forme del pregiudizio, anziché mostrarsi curiosi, studiare l'avversario. Magari scendendo per strada, andando in uno stadio, avrebbero capito quello che la folla delle curve, con le sue intuizioni, sapeva già: bastava leggere il folgorante striscione apparso in occasione di un Livorno-Milan, “Berlusconi, Dio esiste. Ma non sei tu, rilassati”. O vedere la faccia del tifoso, impazzito per lo scudetto appena vinto, che gli blocca la macchina: “Silvio, se vuoi votiamo tutti per il partito che dici tu, diamo milioni di voti a chi vuoi, poterli dare a te personalmente sarebbe il massimo”. E lui apre la portiera e scende: “Amico mio, sto proprio pensando a fondare un partito tutto mio”. Venti anni prima del predellino.

    E' certo che il calcio lo ama davvero. E' altrettanto certo che ne capisce. Ha cominciato a giocare da ragazzo dai salesiani, nel campetto di via Copernico. Massimo Fini fu suo compagno di squadra: dice che era “un attaccante inguardabile che non passava mai la palla”. Mediocre ma abbastanza duttile da cambiare campo. A meno di trent'anni fonda la Torrescalla-Edilnord, esonera Vittorio Zucconi (“un incapace”) e si nomina allenatore. Il vice è Marcello Dell'Utri. Massimo Nava, giornalista del Corriere della Sera, era allora uno della rosa: ricorda che arrivava al campo in Maserati e con la cura maniacale dei dettagli riuscì a farne una squadra vera, vincente nella sua categoria. “I miei ragazzi facevano anche diciassette passaggi consecutivi e negli ultimi cinque minuti nascondevano la palla agli avversari”: quando lo dice al calcio degli adulti dunque, lo dice a ragion veduta. Eppure tutti sghignazzano: non ammettono che un campo di periferia possa far parte del romanzo di formazione di un presidente.

    Lo hanno sempre ostacolato. Hanno cominciato con il dire che in realtà è interista e avrebbe comprato l'Inter se all'ultimo minuto Ivanoe Fraizzoli non gli avesse preferito Ernesto Pellegrini, su cui Gianni Agnelli andò subito a chiedere informazioni al fratello: “Umberto dimmi ma non sarà mica quello che cucinava per i nostri operai?”. In piena trattativa per il Milan, è Gianni Rivera che lo accusa di voler far fallire il club per ricomprarlo poi per un tozzo di pane. Si vede dunque fin da subito che ha denti da caimano, sorriso carnivoro, ma si vede anche che non è un ipocrita perbenista, non finge di essere altro da quello che è. Il caimano si sa è vendicativo: così fa ritoccare le foto ufficiali e invita, discretamente, i Milan Club intitolati al Golden boy a cambiare nome. Allora dicono che è solo un cinico tifoso di se stesso: per via di quella medaglia celebrativa dei novant'anni della società su cui campeggia sorridente. Chi mai avrebbe dovuto esserci? I grandi calciatori sfioriscono come le rose, i grandi allenatori passano: solo i grandi presidenti restano.

    In chi ha l'ambizione di fare qualcosa di grande i peccati vanno tollerati. Quelli veniali come la vanità. Quelli che lo sono un po' meno, i fondi neri per pagarsi la ballerina del momento. La menzogna sfacciata detta con la mano sul cuore: che il grande difensore non sarà comprato perché è una bandiera e le bandiere degli altri non si toccano, che il grande attaccante non sarà venduto perché più che un investimento è un figlio. O i peccati più gravi, come l'improvvisa caduta di stile. La notte del Velodrome in cui non si capisce cosa sia avvenuto di tanto misterioso da far dire ad Adriano Galliani che ne parlerà solo in punto di morte. O aver accettato di disputare una coppa del Mondo per club senza averne guadagnato il diritto sul campo. Cose che sono da perdonare. Si può dare al mondo “Via col vento” senza farsi divorare dalla megalomania, senza coltivare egoismo assoluto, senza agire con grande crudeltà?

    I moralisti del tempo lo accusarono di aver corrotto il calcio facendo crescere in modo spropositato gli stipendi dei calciatori per accaparrarsi i migliori, di aver imposto organici faraonici, come se il calcio potesse davvero crescere ed essere competitivo con l'acqua santa e i finanziamenti a fondo perduto dei Consigli provinciali, come in Francia. La verità è che non hanno sopportato allora e non sopportano ora che abbia allargato le frontiere dell'interesse e del consenso, dato voce a una fetta importante di popolo che si nutre di televisione e di sport e che tutti gli altri hanno trascurato per insipienza. Nell'accanimento seriale contro il “mio” presidente c'è tutto il disprezzo illuministico verso un corpo sociale “povero di aspirazioni”.

    Come se la vittoria non fosse legittima aspirazione di ciascuno. Come se “vincere, convincere, avvincere” non fosse la migliore espressione di una buona cultura della vittoria. Come se aver visto il Milan abbattersi come un ciclone sul mondo, diventare spauracchio, “L'ogre Milan”, titolò in prima pagina l'Equipe, non ci avesse reso felici. Al punto da farci credere a qualcosa che a pensarci bene è insensata, che “il Milan deve essere più forte della sfortuna, dell'ingiustizia, della cattiva sorte, dell'invidia”. Come si fa dunque a non amare perdutamente un presidente che per conto di tutti noi, con grande sprezzo del ridicolo, riesce a dire: “Nel momento del trionfo, degli osanna, lasciami, caro vecchio Milan, confondere la mia storia nella tua!”.

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    • Lanfranco Pace
    • Giornalista da tempo e per caso, crede che gli animali abbiano un'anima. Per proteggere i suoi, potrebbe anche chiedere un'ordinanza restrittiva contro Camillo Langone.