La scelta di Israele

Daniele Raineri

“Il pessimismo è un lusso che un ebreo non può concedersi”, diceva Golda Meir, che un paio di cose attorno a Israele e alla politica in medio oriente le sapeva. Oggi però Israele ha solidi motivi per essere pessimista. Sempre circondato da un ambiente ostile, da un accerchiamento di regimi arabi che non hanno mai firmato una pace vera, ora vede crollare anche quegli spicchi di panorama che non erano pregiudizialmente e dichiaratamente governati da nemici mortali.

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    “Il pessimismo è un lusso che un ebreo non può concedersi”, diceva Golda Meir, che un paio di cose attorno a Israele e alla politica in medio oriente le sapeva. Oggi però Israele ha solidi motivi per essere pessimista. Sempre circondato da un ambiente ostile, da un accerchiamento di regimi arabi che non hanno mai firmato una pace vera, ora vede crollare anche quegli spicchi di panorama che non erano pregiudizialmente e dichiaratamente governati da nemici mortali.

    C'era un'architettura di sicurezza fatta di nazioni che da tempo non hanno più al primo posto della loro agenda politica l'aggressione a Israele – e che hanno raggiunto questa condizione di neutralità soltanto dopo essere state battute severamente in guerra e dopo essere scese sul terreno del compromesso politico con Gerusalemme. Questa architettura sta sparendo, travolta dai giovani arabi che aspirano a migliori condizioni di vita, a società più aperte e a sistemi politici meno corrotti.

    Il caso macroscopico è naturalmente l'Egitto. Il paese degli accordi di pace firmati a Camp David si è sbarazzato a febbraio di Hosni Mubarak, che tra le altre cose si era assunto il compito coraggioso di esserne garante. Per quanto fosse dispotico e imbroglione con gli egiziani, il rais e il suo vice ombroso ai servizi segreti, Omar Suleiman, erano la dimostrazione che un paese arabo può vivere in pace con Israele e collaborare a lungo alla causa della sicurezza comune contro lo stesso nemico, il fondamentalismo islamico. Dal 2005, da quando Israele si è ritirato per decisione unilaterale dalla Striscia di Gaza, è (era?) il governo del Cairo a occuparsi del contenimento di Hamas sul lato sud.

    Ora dall'Egitto arrivano cattive notizie: l'amministrazione ad interim del paese, che in teoria scade fra soli cinque mesi e si dovrebbe occupare soltanto di migliorare la Carta costituzionale e di preparare il paese alle prime, grandi elezioni democratiche, sta rivoluzionando la politica estera, promette aperture diplomatiche al regime di Teheran e anche aperture materiali, altrettanto preoccupanti, nella barriera con la Striscia di Gaza. E quello che sta succedendo al Cairo non è che un esempio.
    Eppure, il crollo di quest'architettura di sicurezza era ineluttabile. Non si poteva davvero pensare che i regimi arabi più o meno autoritari reggessero per l'eternità, se non altro perché l'età media dei rais malfermi o già andati è tra i settanta e gli ottant'anni. Contare su Mubarak, che per quanto tetragono sull'accordo di pace era pur sempre ottantenne e gravemente malato, non era più da tempo un'opzione reale.

    Il quotidiano Haaretz scrive che Israele ha bisogno di lanciare un'offensiva diplomatica preventiva. “Non c'è bisogno di essere dei geni per capire che Israele deve pensare a un'iniziativa per dare una bella rimescolata alle carte in un gioco che altrimenti è sul punto di perdere”. Eppure, per ora prevale l'attendismo. Il lento sgocciolio quotidiano dei brutti presentimenti: la metà libera della Libia è diventata terreno di scorribande per estremisti che si mescolano facilmente ai ribelli aiutati e protetti dall'occidente, in Libano il governo è di colore Hezbollah, lo Yemen è diventato un'incognita oscura, persino la rivolta in Siria promette un punto d'arrivo più preoccupante dello status quo che c'era alla partenza.
    Non mancano gli ottimisti coriacei. La leggenda militare Ehud Barak, oggi ministro della Difesa, dice che “sul lungo periodo” il vento di cambiamento che soffia sui paesi arabi sarà un fatto “estremamente positivo”. Il presidente di Israele, Shimon Peres, ha scritto un lungo editoriale sul quotidiano britannico Guardian per dire che queste rivoluzioni non sono uno scontro di civiltà, ma uno scontro tra generazioni: “I giovani vogliono pace e progresso nella nostra regione, e noi in Israele diamo il benvenuto a queste sollevazioni”.

    Ehud Barak e Shimon Peres: sono due che appartengono alla vecchia guardia, hanno combattuto per la fondazione e la difesa del paese fin dai primi momenti, non sono due scrittori benintenzionati di romanzi. Non possono essere accusati di ottimismo ingenuo, ma nella loro vita ne hanno viste abbastanza per sapere che Israele se la caverà costruendo un nuovo schema di sicurezza attorno a sé, con nuove alleanze e anche – dove servirà – con nuove pressioni e nuove minacce, a partire dalla questione sempre aperta con i vicini palestinesi, sia in Cisgiordania sia a Gaza. Con lo stesso spirito pragmatico e pionieristico che soffiava sui padri fondatori di Israele e senza il quale il paese non sarebbe nemmeno mai nato.

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    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)