Le mie notti verdi col raìs

Adriano Sofri

Gheddafi appare in un'aura così ieratica che l'infedele ammesso al suo cospetto si sente come chi arrivi in un altrui luogo di culto mentre è in corso la funzione. Il colonnello è alto e imponente, ma ciò che più colpisce è la lunghezza della sua faccia. Direi che la mia ci sarebbe stata due volte, con un resto ulteriore. Una faccia da cavallo. Gheddafi è viceversa provetto cavaliere. Pone una straordinaria cura al suo vestiario, che varia dal burnus tradizionale alla divisa ridondante di foggia sovietica.

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    Dal 7 al 15 luglio 1982 Adriano Sofri fu ospite di Gheddafi a Tripoli, membro, come giornalista di Lotta continua, di un gruppo di esponenti e pacifisti “verdi” di vari paesi europei. Il quotidiano chiuse prima che il reportage potesse uscire. Sofri pubblicò la sua “cronaca a scoppio ritardato” nel supplemento culturale del quotidiano Reporter, Fine secolo, del 18-19 gennaio 1986. Ne ripubblichiamo il testo.

    Gheddafi appare in un'aura così ieratica che l'infedele ammesso al suo cospetto si sente come chi arrivi in un altrui luogo di culto mentre è in corso la funzione. Il colonnello è alto e imponente, ma ciò che più colpisce è la lunghezza della sua faccia. Direi che la mia ci sarebbe stata due volte, con un resto ulteriore. Una faccia da cavallo. Gheddafi è viceversa provetto cavaliere. Pone una straordinaria cura al suo vestiario, che varia dal burnus tradizionale alla divisa ridondante di foggia sovietica, con una predilezione evidente per l'abbigliamento beduino rivisto da qualche stilista italiano.

    La tenda in cui si sono svolti i nostri incontri notturni, nel bel mezzo del campo di Bab-el-Azizia, fortificato fino ai denti, era una summa dei gusti vigenti: buoni tappeti, teloni militari, divani in plastica similpelle, e un seggio per Gheddafi, assai più alto degli altri sedili, consistente in una poltrona aziendale da padroncino fatto da sé. In questo ambiente misto, solo una volta Gheddafi fu memorabilmente all'altezza del desiderio di esotismo desertico dei viaggiatori nordici: successe che, mentre parlava, uno scarafaggio venne fuori dalla sabbia e avanzò lentamente ma sicuramente lungo il tappeto verso la sua scrivania. Quando fu arrivato alla sua portata, Gheddafi tolse un piede dallo zoccolo in cui era infilato, afferrò con le dita del piede l'animaletto, senza neanche abbassare gli occhi, e lo gettò da una parte, dove potè tornare ad insabbiarsi. Inosservato pressoché da tutti, quel gesto abile e discreto mi parve l'unica dimostrazione ecologica del viaggio, oltre che un possibile modello per chi voglia liberarsi di una seccatura fermamente ma senza drammatizzare. Non voglio dire che possa esistere una procedura analoga nei confronti di Gheddafi stesso, ma certo sarebbe bello.

    La prima nottata fu interamente adibita al discorso di Gheddafi. Il quale fu stucchevolmente elementare, come sono spesso i ragionamenti ispirati dal pedagogismo rivoluzionario. Ma la ragione principale era probabilmente un'altra: la televisione riprendeva l'avvenimento, per trasmetterlo come la visita resa a Gheddafi da alcuni rappresentanti dei popoli d'Europa, più o meno, a beneficio del pubblico libico, cui era anche dedicata la sistematicità didascalica dell'esposizione. Riassumo rapidamente, non perché i riferimenti interessino ancora, con il tempo che è passato e i guai che sono successi, ma per fornire un saggio conforme della logica e della terminologia. A colpirmi e spaventarmi di più era la frequente e soverchiante ricorrenza dell'espressione “Terza Guerra Mondiale”. L'avevo sentita ripetere come una cantilena dai giovanotti dei Comitati, ma avevo sperato che fosse per la generosità anticipatrice, diciamo così, dell'età. Invece il leader maneggiava la nozione con altrettanta confidenza. Dunque: la politica sionista minaccia la pace mondiale, gli americani hanno tentato di portare a Beirut un migliaio di marines, e avrebbe potuto essere la Terza Guerra Mondiale. Se gli americani ci riprovassero, l'Urss ha avvertito che sarebbe la Guerra. Nel Mediterraneo, la flotta americana ha tentato manovre in prossimità del Golfo della Sirte che, sotto la pressione delle proteste, ha dovuto revocare. Se tentasse di forzare la sovranità libica sulla Sirte, sarebbe la Terza Guerra Mondiale. Eccetera. Quanto al movimento pacifista in Europa, Gheddafi auspicava che si mobilitasse per il ritiro israeliano dai territori occupati, per ottenere il boicottaggio economico e militare di Israele da parte dell'Onu, e per scendere al fianco del popolo libico contro le minacce di aggressione Usa. Su Israele, la sua posizione era assai chiara: gli israeliani avrebbero dovuto tornarsene in Asia o in Europa (anche in Urss? Anche in Urss…). Gheddafi salutava il movimento, segno della coscienza umana che si ridesta, della riscossa contro il materialismo antiumanista. Stima a parte, aveva qualche osservazione da fare. Il movimento deve essere mondiale, e non limitarsi all'Europa. Inoltre, non ha un'ideologia.

    Critica molto, ma non offre soluzioni. Occorre un'ideologia, da cui venga fuori un programma capace di risolvere i problemi. L'opposizione deve presentare un'alternativa. Gheddafi aveva fatto un'analisi, da cui risultava che tutte le istituzioni sono manchevoli, si basano sullo sfruttamento dell'uomo e sulla dittatura. Quindi bisogna distruggere tutte le istituzioni economiche esistenti, e la classe sfruttatrice, e mettere fine allo sfruttamento. Sono le economie infatti che fanno le politiche, fino a scatenare guerre per difendere i propri interessi. Tutte le istituzioni fondate sullo sfruttamento hanno interesse a scatenare guerre. Gli affari di armi vanno bene, anche per le superpotenze. La guerra a Beirut, per esempio, uccide donne e bambini e ingrassa mercanti d'armi e guerrafondai. Dunque occorre cercare un sistema economico alternativo, che si basi sugli interessi dei lavoratori, e li spinga a liberarsi dal lavoro salariato e dai datori di lavoro, e a diventare partner. Questo deve avvenire in modo pacifico. Per esempio, Gheddafi indicava il Belgio, dove la cosa si era realizzata in alcune fabbriche, ma troppo poche, e accerchiate. Se oltre un milione di operai prendesse le fabbriche, non sarebbe più facile accerchiarli. Così pacifisti e operai dovevano unirsi per realizzare l'autogestione e liquidare il profitto e i padroni. Se questo vale per gli operai, che determinerebbero così, invece del padrone, ii proprio destino, vale anchè per i popoli, che non decidono, ma sono oppressi dai loro rappresentanti; o per i soldati in guerra, che eseguono comandi altrui. Anche le Nazioni Unite non sono che governi uniti. Tutto ciò che oggi esiste al mondo è inautentico: pochi “rappresentano” quattro miliardi di persone. Come può esserci la pace?

    Ecco dunque l'alternativa. Se il movimento di protesta è nato, vuol dire che le istituzioni esistenti non erano in grado di dire quello che esso ha da dire. Che badano solo a sacrificare gli altri per perpetuarsi. Così Carter quando ha cercato la prova di forza in Iran per ragioni elettorali; così Reagan quando ha rischiato nella Sirte una guerra che avrebbe pagato il suo popolo. La cosa è evidente in Europa, dove profitto e gara al riarmo hanno distrutto l'ambiente, inquinato i fiumi, rovinato le città. L'uomo è diventato un topo. Essere uomini è diventato vivere da parassiti, nell'interesse dei profitti e apparati di guerra.

    Il nuovo movimento reagisce a tutto questo, deve cercare una pace che abolisca anche l'ingiustizia, che sopprima le istituzioni fondate sulla rappresentanza, e dia inizio all'era mondiale della Giamahiria. Le masse controllano tutto, e governi, partiti, sindacati ed eserciti regolari devono sparire. Così anche tutto il male scomparirà dal mondo. Le masse saranno libere, e felici. Ci sarà un movimento internazionale in cui il colore verde sarà la bandiera. Anche il nero e il rosso dovranno scomparire. Per questo è stata fatta, e si continua a fare, la rivoluzione in Libia. Visto che abbiamo vinto, abbiamo scelto il verde, che è il colore della speranza e della salvezza (così dicendo Gheddafi sollevava, per noi e per le telecamere, il libretto verde), il colore che domina anche in Paradiso. E' rosso, al contrario, il fuoco dell'inferno. Se il movimento in Europa ha scelto il verde, vuol dire che una causa comune si è saldata. “Non avete incontrato Reagan o Begin o Sadat, ma me. Insieme potremo fondare un movimento internazionale verde”.

    Gheddafi, qui,
    in conclusione invitava a leggere e studiare assiduamente il libretto verde. E ne dava una sommaria illustrazione, aiutandosi con un grafico. Nel primo capitolo c'è la soluzione del problema della democrazia attraverso l'organizzazione delle masse. Una volta attuato il primo capitolo tutto il potere è nelle mani della gente comune. Il secondo capitolo abolisce lo sfruttamento, e dà la casa a chi la abita, la terra a chi la lavora, e così via. Il terzo capitolo tratta dei rapporti sociali: applicandolo si evita la catastrofe sociale. Si riorganizza la famiglia, la tribù, la gens, su una base nuova. Si abolisce la discriminazione razziale. Si crea un sistema educativo libero. Anche sport e arte saranno di massa. Dunque studiare il libretto verde, e poi se ne riparla.

    L'ultimo argomento era il più delicato: la questione delle basi americane nell'Europa occidentale. Occorreva in primo luogo impedire l'installazione di nuove basi missilistiche, in secondo luogo smantellare una dopo l'altra le basi esistenti. “Anche attraverso il movimento di massa potete far chiudere queste basi. Invece di fare dimostrazioni nelle strade, bisogna manifestare nelle basi americane, tagliar loro viveri e acqua, naturalmente in maniera pacifica, cosicchè le basi, subendo questa pressione intollerabile, non potranno continuare a esistere, almeno pacificamente. Se il vostro movimento ha successo, potrebbe avere come conseguenza un movimento analogo in Europa orientale. Noi non vogliamo le basi in nessuna delle due Europe. Per questo movimento pacifico mettiamo a disposizione tutto quello che abbiamo. Se esso non avrà successo, vuoi dire che bisognerà rafforzare lo sforzo militare. Ci saranno gruppi di fedayn (a questo punto avvenne l'avanzata dello scarafaggio, ndr). Siamo anche disposti a darvi dei mezzi per questo programma pacifico.

    Quanto ai vostri cortei, voi forse dal di dentro non ve ne accorgete, ma noi che li guardiamo nei televisori a colori sì, ci sono molte più bandiere rosse che verdi, aumentate il verde, se no si pensa che sia l'Urss. Ci sono anche troppe falci e martello. Grazie dell'attenzione, arrivederci quando vorrete”.
    Come si vede, si tratta di una versione primitiva e ingenua di democrazia diretta, esposta con una solennità e un sussiego destinati ad accrescere l'imbarazzo dell'ascoltatore reduce dai disastri delle più sofisticate elaborazioni consiliari. Non mancava una qualche disposizione a prendere tutto sul serio da parte di qualcuno della compagine verde tedesca, propenso a trasferire la questione sul piano prediletto di normative e regolamenti, dell'applicazione della democrazia diretta e delle sue complicazioni tecniche. La prima notte con Gheddafi era comunque finita. Venimmo rimandati alla meditazione del libretto verde, tra qualche protesta.

    La seconda nottata – si cominciò all'una passata – non prevedeva la presenza delle telecamere, e fu riservata a un giro plenario di pronunciamenti degli ospiti. Gheddafi seguiva con condiscendente cordialità. Cominciò un rappresentante dell'autonomismo andaluso, in corriva maglietta verde, simpatico peraltro, e capace di sviolinate così incredibili da venir accolte con una specie di allegria dallo stesso Gheddafi. Il quale aveva questa volta una casacca sahariana celeste con bottoni d'argento grossi come orologi da tasca. Toccò poi a Gertrud Schilling, seria e appassionata consigliera verde di un comune dell'Assia, che esordì sulla tristezza di dover oltrepassare tanti posti di blocco, uomini armati, congegni bellici e postazioni militari, prima di arrivare ad incontrarsi. Gheddafi – che era accompagnato questa volta da una donna dai lineamenti molto belli e forti, maternamente ironica, con un normale vestito a scacchi, una tunica ricamata, e scarpe coi tacchi – sembrò ancora più divertito. E' un ordinario luogo di conferenze – disse – c'è il nostro normale servizio di vigilanza. Per me non è normale – insistè accorata Gertrud – non dovrebbero esserci mai né armi né armati; e lui scoppiò francamente a ridere, con l'aria di chi pensa “buona questa”. (Una risata ancora più di gusto se la fece quando un altro ospite tedesco disse di aver trovato eccessivo il traffico automobilistico di Tripoli). Gertrud descrisse le varie componenti del movimento in Germania, parlò dell'ecologia, della pace, del diritto alla vita. Disse, un po' incautamente, che i verdi entravano nel Parlamento in fondo per abolirlo, e che non erano organizzati molto diversamente da quanto previsto nel primo capitolo del libro verde, e che comunque rompevano le regole del gioco di potere degli altri partiti. Gertrud esponeva con molta generosità programmi decisamente ideali, le spade in aratri, come dice il profeta, a est e a ovest, una vita di pace, non solo senza armi, ma senza oppressioni e costrizioni, una equa distribuzione dei beni, l'amicizia con la natura. Non vogliamo farci difendere a morte – disse. Tuttavia, spiegò, cerchiamo un modo non militare di difenderci. A differenza della Libia, cerchiamo modi alternativi di resistenza. Se no, è il vicolo cieco dell'autodistruzione. L'idea di fondo è che un popolo, alla lunga, non può essere dominato se non collabora con l'oppressore. Non i confini o il territorio vanno difesi, ma le forme di vita democratica. L'acqua scava la pietra – disse. Precisò anche di rifiutare la militarizzazione delle donne: vogliamo uguali diritti, piuttosto che l'uguale privazione dei diritti. Illustrò le campagne contro gli impianti nucleari, contro le basi e le manovre militari, contro il traffico di armamenti, contro l'estensione dell'aeroporto di Francoforte. Mostrò altresì i piani di un circuito ecologico di produzione alternativa. Disse che lo scopo non santifica i mezzi. Parlò di una rivoluzione che sorge dal basso, dalle radici dell'erba, citò Gandhi, poi la Luxemburg cui attribuì l'idea della libertà che è sempre libertà di chi la pensa diversamente, e concluse.

    Il tasso di imbarazzo era ulteriormente salito. Poi toccò ad Alexander Langer, che compì una disamina dei pericoli per la pace e delle violazioni alla tolleranza in questa parte del mondo, e una difesa delle articolazioni della democrazia rappresentativa, con tale acribia da non elevare il saggio di imbarazzo, e da meritarsi la mia gratitudine di connazionale. Poi un austriaco. Poi un inglese, che perorò la causa palestinese e l'opportunità di fermare la guerra in Libano: Gheddafi fece un rumore che voleva dire forse “ma senti questo che ci viene a raccontare”. Poi una giovane donna svedese che dichiarò di imparare moltissimo dal Corano, sia nel senso della democrazia di base, sia per l'invito a non uccidere, e mi fece pensare, pensiero di cui mi vergogno ancora, all'influenza esercitata a suo tempo in alcuni ambienti nordeuropei dal bandito Giuliano Salvatore. (Sul quale si vedano le pagine seguenti).

    Alla fine Gheddafi rispose. Ci mise poco. A quanto pare – disse, rettificando generosamente il suo pensiero della sessione precedente, quella televisiva – una ideologia ce l'avete. In fondo siamo d'accordo. Le idee principali sono comuni, soprattutto che l'era delle masse è già cominciata. Certo le vostre idee non sono così chiaramente formulate come qui nel libro verde. Il suo studio varrà a esplicitare ciò che è latente. La democrazia diretta, sono le conferenze popolari, e i comitati popolari. Noi siamo con voi, come vi ho assicurato ieri, e forse abbiamo i mezzi e i metodi che portano al successo. Possiamo contribuire con le nostre possibilità, per mostrare che vogliamo la pace e non il terrorismo, grazie, arrivederci. Fin qui gli incontri con il consigliere principale del popolo libico. (Dei quali esistono comunque le registrazioni).

    Ora aggiungerò alcuni dati su altri aspetti dei viaggio. La enorme piazza centrale di Tripoli, al tempo malaugurato del colonialismo italiano piazza Italia, si chiama oggi piazza Verde, ed è interamente verniciata di verde. Ancora più deplorevolmente, sono verniciati di verde i tronchi di alcuni alberi, con effetti materialmente e spiritualmente assai nocivi. Si incontravano molte persone anziane che ti interpellavano cordialmente in italiano. I giovani tenevano a mostrarsi più duri e fieri. Tuttavia – poiché eravamo lì nella fase finale del mondiale di calcio spagnolo – la vittoria italiana fu accolta con uno spontaneo tripudio e i nostri compagni di viaggio tedeschi poterono misurare, in occasione della finale, la loro maggiore impopolarità. Gli spettacoli televisivi sono spesso interrotti da ammonizioni circa i guasti degli spettacoli televisivi. Nei lavori manuali e nei servizi si ha l'impressione che siano impiegati solo stranieri: africani, e asiatici soprattutto. Anche nelle esperienze agricole modello che siamo stati portati a visitare i lavoratori erano del Bangladesh, o delle Filippine. Gli immigrati vengono sostituiti dopo un certo tempo, così da non sollevare problemi di radicamento e di assimilazione. Il bazar è chiuso d'autorità, e con esso il centro di un modo di vita tradizionale, e anche di una forma di artigianato – come del resto in Iran. C'era aperta la stanzuccia di un tessitore di seta anziano, ebreo, che abbiamo visto schernire, e reagire con improperi clamorosi: la cosa ebbe l'aria di essere usuale, e recitata dagli schernitori, forse a nostro beneficio. L'islamismo appariva incorporato nel regime, ma con una certa distanza. L'oltranzismo antioccidentale khomeinista non c'era. In un campo militare fummo accolti da un concerto rock elettrico di una “banda per al Fatah”. Funzionavano locali notturni. (Tuttavia, a stare ai giornali, i costumi si sono fatti da allora sempre più rigidi). La politicizzazione invadente e forzata, propugnata dal libretto verde, faceva qui un'impressione più singolarmente fuori luogo che in altri paesi – la Cina, l'Iran – per l'apatia e l'indolenza della vita quotidiana, che è forse uno stereotipo, ma viene confermato da una passeggiata per le strade assolate della capitale. Tanto più perchè noi eravamo lì durante il Ramadan e i nostri stessi accompagnatori-custodi, agenti dei servizi, si trascinavano straccamente fino all'ora della rinascita notturna. Non riconosciuto formalmente, il diritto più essenziale della democrazia, quello a occuparsi d'altro, a “non partecipare”, sembrava lì esser molto applicato di fatto.

    Nei giorni in cui eravamo lì, era esacerbata la crisi con Reagan, e la psicosi dell'attentato e di una nuova crisi nella Sirte. I nostri ospiti vi fecero leva per riscuotere una presa di posizione del gruppo europeo. Quest'ultimo si divise fra una parte che escludeva qualunque pronunciamento, individuale o collettivo, su qualunque tema; e un'altra parte, minore, il cui zelo, peraltro in buonafede, arrivò al punto di richiedere una imbarcazione con la quale andare a occupare le acque della Sirte così da intermettersi agli intenti bellicosi delle opposte flotte. Una tale proposta spaventò gli ospiti libici al punto da indurli a sdrammatizzare precipitosamente le loro notizie, e la Terza-guerra-mondiale, che sembrava destinata a scoppiare prima dell'alba successiva, venne aggiornata. Strane impressioni reciproche dovettero riportare i vari membri di quella vacanza.

    Fra gli incontri che avemmo in Libia ci fu quello con Sha'atti, un uomo non più giovane, che mi sembrò molto intelligente e accorto. Sha'atti era stato ministro degli Esteri, ma ora era a capo di un centro di orientamento ideologico. Ciò che forse rendeva le sue parole più ipocrite di quanto non facesse un tempo la diplomazia. Ci spiegò il passaggio dalla diplomazia agli “uffici del popolo”. Si adoperò per spiegarci la superiorità della guerra di popolo, e di liberazione nazionale, sul negoziato, e la superiorità della lotta di massa sulla trattativa: io, che avevo reputato un tempo che si dovesse lottare e non trattare, poi che comunque non si dovesse trattare senza lottare, e infine che la pratica della “trattativa” fosse migliore del feticcio della “fermezza”, ero un po' irrequieto, e così Langer. Non servì a mettermi a miglior agio l'illustrazione, alla lavagna, del tolemaismo consiliare libico, con tanto di cerchi e freccette. Quando toccò a noi fare domande, chiedemmo perchè non riconoscessero Israele, e perchè ritenessero i paesi “socialisti” più affidabili dell'occidente. La risposta alla prima domanda fu quella nota, Israele usurpatori, da rimpatriare ecc.; alla seconda fu risposto che nell'Europa dell'est non ci sono classi capitalistiche, né lobby sioniste come negli Usa: sussisteva dunque un pericolo di scontro con l'occidente delle multinazionali e delle forze di destra, non con i paesi socialisti, in generale aperti al terzo mondo. In compenso il comunismo era insidiato dalla presenza del partito, problema risolto in Libia dalla proclamazione della non esistenza del partito. Una mia proposta di adottare a simbolo della giusta lotta dei popoli un grande cocomero, verde fuori e rosso dentro, non incontrò il favore degli ospiti.

    Gli omicidi all'estero

    Ci furono anche lunghi incontri notturni, in tende o all'aperto, coi giovani leader dei comitati. Incontri senza tempo, e senza ordine del giorno, addolciti da tè e torte e musica, più simili a nottate passate su una spiaggia a tirar l'alba, che a conferenze ideologico-politiche. Tuttavia di politica prima o poi si parlava. Darò anche di questi un sommario, che può avere un interesse documentario generale, e ha un interesse specifico, per la parte in cui si parla dei libici ammazzati all'estero. Presentando i comitati, il più autorevole dei nostri ospiti dice che bisogna servire il popolo, non se stessi. Tutti i precedenti tentativi sono falliti, perché non appena si istituzionalizzavano, tentavano di accaparrarsi privilegi. Le masse finivano da una parte, i partiti dall'altra. A scapito della felicità dell'umanità, che è il vero fine. I movimenti alternativi (come quelli europei lì “rappresentati”) stanno un passo in avanti, verso ciò che l'umanità realmente ricerca. Essendo il mondo cattivo e complicato, occorre tuttavia darsi una teoria politica e un'organizzazione: indicare gli obiettivi non basta. Quanto all'identità dei comitati rivoluzionari, i fratelli visitatori possono vedere di persona che solo la propaganda americana può contraffarli come organi terroristi. Quindi nuova illustrazione sui comitati, che non mirano al potere, ma ad avviare e spingere il movimento popolare: non essendoci gerarchia, è il cerchio che prevale sulla piramide. Sussistono come tramiti della transizione al potere delle masse. Già, ma come si formano? Attraverso una selezione naturale dei più volenterosi e meritevoli. Ogni congresso popolare ha, all'interno, il proprio comitato. I due opposti pericoli sono la regressione alla dittatura, o il caos.
    Alle domande più o meno arcadiche che avevano inframmezzato l'esposizione, ne seguì a questo punto una inconcepibile nella sua aritmetica puntualità, che solo il brutale candore di un verde tedesco protestante poteva concepire, e che suonò come uno sparo in una festa da ballo: “Quanti libici avete ammazzati finora all'estero?”. Ci fu un momento di gelo, i membri più navigati del gruppo in visita assunsero espressioni distratte o costipate, gli ospiti sembrarono divisi fra l'interdetto e il passare alle mani. Il domandatore se ne stava, quanto a lui, con una faccia che escludeva qualsiasi malizia, ma anche qualsiasi disponibilità a ritirare la domanda. E il candore la vinse sui machiavellismi mediterranei di ogni sponda, combinandosi con l'opposto candore degli ospiti. “Anche i nostri amici rischiano di fraintendere. Ciò che è successo all'estero è solo l'attuazione di decisioni pertinenti alla giustizia locale e a decisioni prese da congressi popolari”. Dunque, gli ospiti, presi dalla foga della spiegazione, non si sognavano neanche di negare il fatto. “Gran parte di questa gente – continuarono – è stata condannata qui da noi per aver commesso crimini economici, ed è stata molte volte invitata a costituirsi, a restituire il maltolto. E' stata promessa loro anche un'amnistia, e solo dopo è venuta la decisione di punirli. Purtroppo questa decisione viene gonfiata dalla stampa anti-libica per farne un caso politico. Noi non li consideriamo come oppositori nostri, perchè chi è all'estero si oppone non a una parte, ma a tutto il popolo, e poi perchè nel congresso popolare noi non abbiamo un partito, un governo, o un presidente, ma tre milioni di persone. E nessuno ha da difendere una poltrona. Dunque l'opposizione politica è come tale impossibile. Vengono puniti dei crimini economici, ecco tutto, come avviene in altri paesi. All'estero si è in malafede o non si riesce a capire un sistema che esiste in questa forma per la prima volta. Non si riesce ad ammettere che non ci sia autorità costituita, o a distinguere tra Gheddafi come capo e come teorico. Tutto si crede deciso da Gheddafi. Ieri per esempio molti congressi popolari si sono riuniti spontaneamente in seduta straordinaria per i fatti del Libano, e nessuno glielo aveva ordinato. Hanno criticato la posizione della Siria, dell'Urss. E invece si presentano le cose come se fosse stato Gheddafi in persona a ordinare la liquidazione di quelli all'estero, e se si trattasse di oppositori di Gheddafi”.

    Ormai il dado era tratto. Avanzammo cortesi dubbi circa l'eventualità di un sistema che dichiarasse impossibile l'opposizione, e che si rifiutasse di considerare oppositori i suoi transfughi giustiziati. Proponemmo anche il tema della sovranità nazionale violata quando si va ad assassinare connazionali all'estero. Tema cui la Libia era ben sensibile, per esempio nella definizione della sovranità territoriale sulla Sirte.
    “Ribadiamo – risposero, risentiti – che non è una questione ideologica, e dunque è stata sollevata arbitrariamente in questo incontro. Tuttavia abbiamo deciso che risponderemo lo stesso. L'altra questione centrale che dovete tener presente è che gli stati interessati sono stati più volte interpellati. La verità è che l'imperialismo Usa e la Cia hanno operato per formare gruppi di opposizione coi loro mezzi, e sfruttando questi fatti (le uccisioni all'estero, ndr) per propaganda. E intanto facevano loro le stesse cose. Sapete quante sono le vittime della Cia, dei servizi tedeschi, o italiani? Ma la nostra propaganda è debole, e così, i nostri crimini vengono esaltati e i nostri meriti denigrati. Noi del resto abbiamo buoni rapporti coi paesi in cui questi fatti (le uccisioni, ndr) sono avvenuti”.

    Il primo e impavido domandatore, ricordò a questo punto che c'è una sovranità della vita umana prima di quella degli stati, e chiese notizia di due libici liquidati a Bonn. Perorò un ordine mondiale di valori al cui culmine stesse la vita umana, e chiese agli ospiti di impegnarsi a non assassinare più nessuno, pena la fine del reciproco dialogo. Rispose uno di loro fra i più autorevoli: “La polizia tedesca ha indagato, e non è emerso nessun retroscena politico per quelle due persone. Potete leggere gli atti di polizia. La responsabilità è dei regimi reazionari che li proteggono. Hanno rubato soldi qui e li hanno investiti in occidente a spese del popolo libico, che ha il diritto di difendersi. Abbiamo diritto che i congressi popolari realizzino la loro autodifesa. Qui si sta confondendo i comitati rivoluzionari e quello che succede all'estero con il livello statale, cui i comitati non sono direttamente riferibili”. (Qualche tempo più tardi costui, che era medico e autorevole funzionario libico a Bonn, fu al centro di una accusa di sequestro e violenze verso un giovane libico in Germania).
    La discussione era ormai legnosa. Gli ospiti libici ci rimbrottarono: “Ci aspettavamo da voi una discussione intellettuale, e ci troviamo a fronteggiare una specie di opposizione. E poi, Mussolini lo avete impiccato voi, non noi”.

    Ci fu un'interruzione, i reciproci gruppi si consultavano fra loro, poi si riprese: come una festa da ballo dopo che il cadavere è stato sgomberato. Si parlò da parte nostra ancora di qualcosa, della gente che non ha tempo di fronte all'illusione di una democrazia senza funzionari; della novità polacca rispetto al tradizionale rapporto col potere; dei rischi di politicizzazione forzata, della contraddizione di fondare la democrazia diretta su un versetto del Corano, e di volerla poi estendere ai non islamici; dell'ambiguità della critica ai partiti. Ciascuno, ormai, parlava solo per mettere le mani avanti con la propria coscienza, e con i posteri. Era notte alta, e uno scintillante cielo basso, quando ci salutammo.

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