Nel cuore della piazza yemenita

Daniele Raineri

“Che cosa penso di Obama? E' come lo speaker di una partita di calcio, che però non tiene per nessuna delle due squadre in campo. Quando segna una grida ‘goool' e alza le braccia; quando segna l'altra fa lo stesso: ‘Goool'”. Il colonnello dei servizi di sicurezza dello Yemen alza le braccia a salutare moderatamente un'ipotetica bella azione di gioco. "Nei paesi arabi dove è più forte il regime, il presidente americano sta con il regime, come in Arabia e in Bahrein. Dove è più forte il popolo, sta con il popolo, come in Egitto".

    “Che cosa penso di Obama? E' come lo speaker di una partita di calcio, che però non tiene per nessuna delle due squadre in campo. Quando segna una grida ‘goool' e alza le braccia; quando segna l'altra fa lo stesso: ‘Goool'”. Il colonnello dei servizi di sicurezza dello Yemen alza le braccia a salutare moderatamente un'ipotetica bella azione di gioco. “Nei paesi arabi dove è più forte il regime, il presidente americano sta con il regime, come in Arabia e in Bahrein. Dove è più forte il popolo, sta con il popolo, come in Egitto. Io lo rispettavo, mi era piaciuto all'inizio, quando aveva fatto il discorso al Cairo, mi sembrava che fosse partito con il piede giusto. Ora mi sembra incerto”. Il colonnello è sulla quarantina, ha strappato i gradi dalle mostrine (ma è l'unico qui attorno ad averlo fatto), ha una faccia magra e scura. Parla sotto una tenda affollata di soldati sdraiati che pescano con le mani da sacchetti di plastica pieni di riso ancora caldo.

    E' l'ora di pranzo, un brusio di “aiwa, aiwa” a bocca piena, sì sì, accoglie le parole dell'ufficiale. A piazza del Cambiamento, i militari che due giorni fa hanno abbandonato il governo e si sono schierati con la rivolta hanno soffiato il posto di star della rivoluzione agli uomini delle kabile arrivate da fuori città, che quando si erano uniti alle proteste erano sembrati anche loro i salvatori della nazione. A loro volta le kabile avevano soffiato il posto in prima fila ai membri dei partiti d'opposizione, che quando si erano uniti alla protesta lo avevano fatto con piglio da “ecco la cavalleria, siamo qui per soccorrervi”. Prima di loro non c'era nessun posto da rockstar: c'era un gruppo sparuto di studenti testardi che manifestava tra i ghigni degli automobilisti e sotto le manganellate della polizia. Quando i militari in uniforme girano per l'accampamento addobbati con i parafernalia patriottico kitsch dei manifestanti, coccarde bianconerorosse, fasce nazionali, spille, le troupe locali di al Jazeera (quelli dello staff vero sono stati cacciati dal paese cinque giorni fa) li fermano per interviste che subito raggrumano plotoni di curiosi.

    Quando un soldato sale sul palco a fare il segno di vittoria con le due dita e a cantare i cori antipresidente, la calca sotto non si tiene più e ruggisce. Quando però si chiede loro perché si sono uniti adesso alla rivolta, come è possibile che l'iniziativa sia stata presa dal gruppo più debole e inerme dello Yemen, gli studenti, i soldati fanno i vaghi. “Non ci sono studenti o militari adesso, siamo tutti un popolo con lo stesso obbiettivo, liberarci di Saleh e avere un paese migliore”. Sì, vabbé. Lo stesso succede con gli uomini delle kabile che girano per il campo a gruppi con la jambiya, la lama tradizionale, appesa alla cinta sopra l'ombelico (e la scena più ridicola è la perquisizione ai margini del campo, dove prima una fila di soldati e poi due file di manifestanti tastano con metodo chi entra alla ricerca di armi ma non degnano di uno sguardo il pugnalone).

    C'è però da ammettere che kabile e militari hanno aderito al codice imposto all'inizio dagli studenti. Rivolta pacifica, lasciate le armi nelle vostre case. In un paese da 23 milioni di abitanti e 28 milioni di armi da fuoco, dove cominciare a tirare con il kalashnikov a 15 anni fa parte della cultura virile, è già una mezza rivoluzione culturale, che precede quella politica. Il fatto che dopo venerdì, dopo che i cecchini hanno fatto fuoco sulla folla disarmata ammazzandone cinquanta e ferendone un centinaio, nessuno abbia reclamato il prezzo del sangue, la vendetta, è come una scossa sotto i piedi del paese. In piazza quel giorno c'era anche un ufficiale della Prima brigata corazzata, che poi ha abbandonato per prima il presidente: è stato centrato da un colpo alla testa ed è morto.

    La sensazione è che un giorno gli storici del paese parleranno dei quasi due mesi – per ora – in piazza del Cambiamento a Sana'a come del periodo in cui i clan si sono mescolati tra loro e con gli studenti, e sono stati esposti all'ambiente della metropoli. Chissà che cosa racconteranno al loro ritorno dopo avere dormito per cinquanta giorni sotto la gigantesca bandiera di Che Guevara appesa dai socialisti. Chissà che cosa hanno pensato quando hanno visto le studentesse di medicina, pur velate da capo a piedi di nero e fasciate dal camice, toccare con le mani gli sconosciuti sanguinanti raccolti in strada, mentre i medici estraevano le pallottole con lunghi forcipi. Chissà che cosa pensano quando vedono i giornalisti stranieri camminare con le scarpe e le macchine fotografiche sul tappeto rosso della moschea che ha raccolto pietosamente i cadaveri dopo il massacro, ma il pensiero collettivo era unanime, che camminino pure, è importante che il mondo possa vedere lo scempio che stiamo ricomponendo sotto il lenzuolo (e c'è voluto un giorno intero). La rivoluzione è anche un gigantesco esperimento per gli arabi.

    Accanto al colonnello, in piedi sotto la tenda, c'è un militare gigantesco, impettito, con i capelli rasati di fresco, il contrario del soldato medio, segaligno, arruffato e di solito stravaccato su un gradino a masticare qhat. Aramdullah al Ryani s'è arruolato che aveva quattordici anni, è passato per un periodo di addestramento speciale ed è diventato guardia del corpo personale di Saleh. La sua presenza al campo non è importante soltanto per il simbolismo ovvio – tutti abbandonano il rais – ma anche per la domanda cruciale delle ultime quarantott'ore: più di metà dell'esercito ha cambiato versante e si è unita alla ribellione, si va verso una transizione liscia modello egiziano o verso una catastrofe modello Libia? “Lo Yemen non è la Libia, dove i militari si sono spaccati e ora si stanno sparando da due fronti opposti”.

    Eppure ci sono unità ancora fedeli al presidente, per esempio la Guardia repubblicana, modellata sull'esempio di quella irachena fedele a Saddam Hussein, e comandata da Ahmad Saleh, il figlio del presidente. “Pure nella Guardia repubblicana ci sono defezioni, anche se non posso parlare per tutti. Io sono ancora in contatto con i miei compagni della scorta e sono disperati. Sono quelli che in questo momento sono più sotto pressione, e tutto questo per uno stipendio da meno di duecento dollari”. L'ideale democratico intrecciato con la busta paga inadeguata è un argomento irresistibile e riscuote l'approvazione della tenda intera. S'alza una mano, “a noi pagavano soltanto duemila rial (poco meno di 9 euro) al giorno in qhat” – le foglie amarognole e blandamente stimolanti che tutti masticano per passare il tempo. “Io ero un baltagiyah, pagato dal governatore di Sana'a per picchiare i manifestanti. Poi, quando due miei fratelli si sono uniti alla protesta, non me la sono più sentita e sono venuto anch'io qui”.

    Vi fidate del re saudita? Saleh ha appena mandato il suo ministro degli Esteri – in teoria il governo è stato dissolto, così nessuno può avere l'alzata di ingegno di dimettersi, ma che ciascuno resti al proprio posto a svolgere le sue funzioni – a Riad per chiedere al re di mediare tra governo e ribelli. La voce di popolo sostiene che il re abbia appena mandato ottanta carri armati per aiutare Saleh, “sarebbe molto male”, dicono i soldati, ma forse, è la speranza generale, il presidente si sta soltanto prenotando un buen retiro dove fuggire, come prima di lui il presidente tunisino.

    E di Ali Muhsen, il generalissimo che per primo ha iniziato lo smottamento dei militari da una fazione all'altra, vi fidate? Tutti sanno la storia di come il presidente abbia cercato di ucciderlo, “quattro volte, mica una soltanto, quattro volte ha tentato di ucciderlo”, fornendo ai caccia sauditi che stavano bombardando le basi dei ribelli Houthi, su a nord, le coordinate del campo di Muhsen. Ma il generale, che non è arrivato a occupare quel posto per il suo candore, quel giorno fece partire due elicotteri dalla capitale, uno grande, ufficiale, verso la base che sarebbe stata bombardata, e l'altro piccolo, senza insegne, dove era lui, verso una città della costa. I soldati sostengono che Muhsen, in questi anni, non ha mai cercato di soffiare la poltrona al presidente, forse perché troppo occupato a restare vivo. “Ma gli piacerebbe essere il Tantawi dello Yemen”. Tantawi è il generale che in Egitto sta guidando la transizione dal regime di Mubarak al dopo.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)