Il sangue dello Yemen

Daniele Raineri

E' la fine della preghiera islamica del venerdì, si aspetta tutti accovacciati su un marciapiede con la schiena appoggiata al muro e con gli occhialetti da piscina e le mascherine di carta da infermieri – servono contro i gas della polizia. C'è uno yemenita che punta con il dito davanti a sé. “Guarda, guarda, fai una foto”.

    E' la fine della preghiera islamica del venerdì, si aspetta tutti accovacciati su un marciapiede con la schiena appoggiata al muro e con gli occhialetti da piscina e le mascherine di carta da infermieri – servono contro i gas della polizia. C'è uno yemenita che punta con il dito davanti a sé. “Guarda, guarda, fai una foto”. Al centro della pozza di rosso che si allarga c'è quello che sembra un tovagliolo di carta appallottolato e fradicio. E' un pezzo di cervello. Così, nel centro della capitale dello Yemen, il corteo di massa contro il regime del presidente Saleh che ogni settimana a mezzogiorno rimbomba tra i palazzi questa volta cambia faccia in pochi secondi, diventa una battaglia da 43 morti, gli ambulanti con i banchetti delle pannocchie abbrustolite, delle arance, dei fegati di pollo, dei popcorn, scappano con la propria roba e lasciano il posto alla gente che corre, grida, si china, indica e lancia pietre contro i soldati.

    Scrivere che c'è stata “una battaglia” però non è del tutto esatto. Per un'ora le migliaia di studenti e manifestanti prima in preghiera e poi in corteo stretto lungo il viale a due corsie che parte dall'università e fila verso il centro fanno da bersaglio facile a cecchini con la kefiyah tirata sul volto che tirano dai balconi e dai tetti delle case. Dietro il corteo ci sono le tende dove gli studenti passano le notti ormai da un mese, parecchie sono sforacchiate ad altezza d'uomo. Davanti c'è un muro alzato in fretta dal governo nella notte di venerdì scorso, per fermare ogni eventuale avanzata delle proteste verso i palazzi del centro. In mezzo ci sono loro: a gridare shalmiyah shalmiyah, “siamo pacifici”, e anche “non abbiate paura dei proiettili”.
    La maggioranza, incredibilmente, non ha davvero paura dei proiettili e sta ritta sulle barriere di cemento a gridare slogan cadenzati contro Saleh, a sventolare striscioni e a fare il segno di vittoria con le due dita. E ovviamente a lanciare le pietre. E a farsi ammazzare.

    Ogni tanto qualcuno cade, è portato via su una coperta afferrata ai quattro lembi dai suoi compagni, e poi la coperta torna, carica di altre pietre che nel frattempo altri compagni volenterosi scalzano con piedi di porco e con le mani dai marciapiedi poco dietro. La maggior parte degli spari che vanno a segno colpisce i giovani alla testa o nel petto e per questo il numero totale dei feriti, un centinaio, alla fine è basso rispetto al numero dei morti. Un giornalista yemenita muore sul colpo mentre in piedi sta scattando fotografie.

    I nemici sono i baltagiya, i teppisti assoldati dal governo tra i clan che vivono fuori città per fare il lavoro sporco della repressione con bastoni, coltelli e fucili. In arabo baltagiya è un termine da malavita, usato per chi ha il mestiere di riscuotere i debiti o di regolare i conti con le brutte maniere: i manifestanti che per primi hanno tirato fuori il termine l'hanno azzeccato. Accanto a quelli, il verde dei soldati e il giallo della polizia, fermi dietro gli scudi a fare cordone e a osservare. Il presidente Saleh dirà nel pomeriggio che tutto è successo “perché la polizia non era presente”. C'è invece, su tre file, ma ha una sola iniziativa: ogni quarto d'ora fa avanzare pigramente due cannoni ad acqua montati su camion per innaffiare non quelli che sparano ma la folla, per buttare giù con la violenza dei getti chi si avvicina troppo. L'acqua scorre al centro della strada e forma pozzanghere che sono, come in mille altre battaglie e in mille altri tempi, disperatamente rosse.

    Dopo un'ora finisce. Il nuovo muro era fatto soltanto da blocchi di cemento attaccati con la malta l'uno sull'altro, è un po' poco se voleva fare di Sana'a una nuova Berlino yemenita, viene giù senza troppe storie e diventa subito materiale da lancio. Il corteo s'alza sopra e dilaga oltre, è furioso, si fa sotto le case da dove partono i colpi, sfonda i portoni. La polizia in strada arretra, i baltagiya scappano, un paio sono catturati dalla gente e portati via. Da dentro i manifestanti s'affacciano ai balconi con le bandiere e a volto scoperto per non essere scambiati con i killer, per rappresaglia cominciano a distruggere tutto quanto capita a tiro, volano fuori dalle finestre letti, materassi, pentole e cibo, un televisore. Sotto la folla cambia subito segno, inorridisce, comincia a gridare no, no, noi siamo i buoni, cerca addirittura di tappare gli obiettivi ai fotografi, e quelli chiedono adesso che fate, siete impazziti, ci sono decine di morti, vi hanno sparato addosso e non dovremmo fotografare un paio di asciugamani che volano?

    La strage di mezzogiorno cambia tutta la storia della rivolta in Yemen. Fino a oggi si contavano una trentina di morti, ma gli episodi di violenza erano avvenuti a intermittenza, sparsi in tre città, nel corso di cinque settimane di grandi marce di protesta. Il paese è naturalmente violento, e le morti sembravano quasi in conto. L'impazzimento di ieri no, non era in conto. “E' diventato come Gheddafi”, gridavano nelle strade riferendosi al presidente Ali Abdullah Saleh, “sta sparando contro civili disarmati”. Nel pomeriggio, il presidente yemenita è apparso in televisione per annunciare il coprifuoco e l'imposizione di una legge d'emergenza su tutto il paese. E' da vedere come reagiranno gli alleati americani, che al governo di Sana'a hanno affidato tutta la propria politica antiterrorismo contro al Qaida – l'edizione yemenita ha già dimostrato di essere attiva e pericolosa – e ora si trovano con un altro rais chiuso nel suo palazzo, un movimento d'opposizione che di ora in ora si gonfia in tutto il paese e gli ospedali pieni di morti.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)