Su cosa si regge il sottilissimo dialogo del Pd sulla riforma Alfano

Alessandra Sardoni

“E' sbagliato dire che quella della giustizia è una riforma ad personam, la verità è che è una riforma di destra”. Sentiti i membri pd delle commissioni Giustizia di Camera e Senato come imposto dalla delicatezza dell'argomento, registrato che nessuno si è sbilanciato facendo endorsement pro separazione delle carriere, Andrea Orlando, responsabile del settore, recensisce così con il Foglio la riforma costituzionale della giustizia by Angelino Alfano.

    “E' sbagliato dire che quella della giustizia è una riforma ad personam, la verità è che è una riforma di destra”. Sentiti i membri pd delle commissioni Giustizia di Camera e Senato come imposto dalla delicatezza dell'argomento, registrato che nessuno si è sbilanciato facendo endorsement pro separazione delle carriere, Andrea Orlando, responsabile del settore, recensisce così con il Foglio la riforma costituzionale della giustizia by Angelino Alfano. Il ricorso alla categoria culturale novecentesca è una variazione non solo lessicale all'apparato argomentativo classico, testimonia la voglia del Pd di distinguere i propri no da quelli dipietristi e savianei (“mai con questo governo” aveva detto lo scrittore di Gomorra domenica scorsa a Enrico Mentana).

    Un complesso lavoro di palettatura per evitare le accuse di cinismo che il Guardasigilli ha lanciato a D'Alema e Violante da Lucia Annunziata, per dire no senza passare per quelli che non sanno dire “come” e tenere insieme un partito che contemporaneamente non regge aperture al nemico e teme le insidie del dialoghismo di Alfano. “Il nostro è un no - argomentato- per il metodo, la via costituzionale, e soprattutto è un no a partire dalle posizioni che noi abbiamo espresso”, dice Orlando, ricordando proprio la bozza a sua firma illustrata al Foglio circa un anno fa. “Non è neppure un no dovuto al fatto che al governo c'è Silvio Berlusconi, il tema è che questa riforma ha una torsione autoritaria e populista di destra, punta ad assoggettare il potere giudiziario a quello politico. Discorso che sarebbe pericoloso comunque, anche se al governo ci fosse il centrosinistra”. “Le ragioni del veto Pd alla riforma sono tre”, spiega Orlando: “lo strumento scelto, la via costituzionale che riguarda solo il titolo quarto e non ha riequilibri nell'assetto complessivo dei poteri”; “la permanenza di leggi ad personam come il processo breve” (cancellare la norma transitoria non basta) o “inaccettabili” per il partito di Bersani come “le intercettazioni o la legge al senato sui rapporti tra pm e polizia giudiziaria”. Infine, last but not least, “la gerarchizzazione dell'azione penale affidata alla politica”.

    La disponibilità al dialogo viste le condizioni poste è un filo sottilissimo: “Per via ordinaria siamo pronti a ragionare su autogoverno, trasparenza dell'obbligatorietà dell'azione penale, la separazione delle funzioni di fatto già c'è”, assicura Orlando. Che pure ci tiene a salvare qualcosa della sua bozza: non rinnega di aver posto a suo tempo la questione dei rischi connessi all'obbligatorietà dell'azione penale, ammette che “il problema del rapporto tra indipendenza della magistratura e responsabilità esiste, che anche il Pd pensa che si debba fare qualcosa nella direzione del vecchio referendum dei Radicali ma che non si può esaurire la questione dicendo che il pm è uguale a qualsiasi funzionario pubblico: perché del resto un ragionamento di questo tipo è maturato anche nella magistratura: all'ultimo congresso dell'Anm il tema non era l'indipendenza, ma l'autoriforma”.

    Un passaggio sufficiente per rilanciare nel campo del governo l'appello all'inclusione: “Non era una provocazione la mia proposta ad Alfano di convocare gli stati generali della giustizia, ma un richiamo alla coerenza. Penso che sarebbe utile coinvolgere tutti i soggetti della giurisdizione, magistrati e avvocati, anche loro peraltro sono sul piede di guerra per via della legge sulla mediazione civile che toglie loro molte cause”.