150 anni di unità d'Italia

Il minirisorgimento

Tutto è pop, tutto è Centocinquantenario. Ma anche questo passerà e i re Vittorio, il conte di Cavour, i Mille e tutto il resto, non avranno più una così buona stampa come adesso

Pietrangelo Buttafuoco

La cosa  bella del Risorgimento, quello vero, quello delle cantate, è che non ha tutte quelle nebbie tipo: democrazia, Costituzione e federalismo. Meno che mai le aspirazioni riformistiche. L’Italia pensata così però non esiste, forse è esistita. Meglio farsi una bella cantata. E non scoperchiare più tombe

    La giornata comincia con una bella cantata: “Si scopron le tombe, si levano i morti”. Un impegno non senza brividi. Si va tutti al cimitero, si tolgono i lastroni di marmo e così si levano i morti. “E tutti quegli scheletri”, chiede il bambino meno aduso al linguaggio metaforico, “dove si mettono?”.

     

    Cala il gelo. Qualcosa non regge. Ma è solo un equivoco. Laddove per lui “levare” vuol dire, più o meno, “toglilo da qui e mettilo lì”. Il signor maestro, infatti, tuona: “Stiamo significando a dire che si alzano, che si svegliano, che risorgono!”.

     
    La cantata prosegue, a voce tutta di testa: “I martiri nostri sono tutti risorti, le spade nel pugno…”. Si soffia sulle trombe. E poi tuba, basso tuba, splendidi schiaffi coi piatti e mazzate alla grancassa. Sono convocati pure i maestri di musica. Alle dodici arriva il sindaco. A due, tra gli scolari meritevoli e meglio pettinati, viene affidato il Tricolore. Staranno sugli attenti per tutta la durata della cerimonia. Vengono distribuiti i fogli con le parole: “Inno di Garibaldi”. Ecco qual è il senso della cantata: i risorti che risorgono. E questo è il Risorgimento. E nel Risorgimento i morti arrivano per aiutare i vivi a fare l’Italia unita.

     
    Fuori dai finestroni ci sarà di sicuro l’Italia a godersi la festa. Quando anche questo Centocinquantenario passerà, l’Italia, rabbuiata nei suoi azzurri cieli, verrà di certo abbandonata e tutti i suoi eroi, i re Vittorio, il conte di Cavour, i Mille e tutto il resto, non avranno più una così buona stampa come adesso. L’iniziativa, assai lodevole, della Repubblica, “adotta un eroe del Risorgimento”, potrà mai avere esiti? A Marsala, fronte al mare, c’è un basamento che fa da basamento e nulla più da cento e più anni. Doveva erigersi la bella statua del generale Garibaldi a perenne gloria dello “Sbarco”. Da cento e più anni – pur con concorso di idee, approvazioni di progetti, finanziamenti e nastri accuratamente tagliati – non c’è stato verso di farlo il monumento. Quasi quasi fu lì per riuscirci Bettino Craxi. L’attuale governo non ha neppure voluto metterci mano e l’unico che adesso saprebbe ben raccontare questa incompiuta della monumentalistica è Giuseppe Culicchia, scrittore marsalese e non torinese come molti credono, chissà quanto è il rimosso e il non detto di questa vicenda così grottesca. Per quel che ci riguarda, noi che villeggiamo sovente in quel di Marsala, davanti al basamento e nulla più, proprio un catafalco, vorremmo chiedere: “Lo vogliamo levare o no questo morto in mezzo alla casa?”.

     
    I fanciulli, intanto, cantano, anche i più discoli non si sottraggono e i somari, tra loro, saranno pur contenti di non dovere fare almeno per un giorno altre tabelline o componimenti. I morti, al dunque, sono risorti. E i morti, poi, hanno una soluzione su tutto. Se per esempio ci sono gli austriaci che non vogliono sentire manco per scherzo il nome del Savoia, ecco, i morti hanno al proposito la più bella pensata. Scrivete, sembrano dirci col vibrante dito indice puntato contro la nostra tremebonda natura, “Scrivete sui muri, W VERDI! Ma mettete i puntini dietro ogni singola lettera della parola ‘verdi’”. Fate così: “W V.E.R.D.I.!, ovvero, Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”.

     
    Ci sarebbe da passare tutta la mattinata a scrivere sui muri “W V.E.R.D.I.”. Sarà pure una Repubblica, l’Italia, adesso, ma i Fratelli Bandiera, la Spigolatrice di Sapri e i Bersaglieri tutti corrono solo per il Re. Ci fossero ancora gli austriaci saremmo pronti a denudare il petto davanti al plotone di esecuzione e gridare “Viva il Re, viva l’Italia” perché la cosa proprio bella del Risorgimento, quello vero, quello delle cantate, è che non ha tutte quelle nebbie tipo: democrazia, Costituzione e federalismo. Meno che mai le aspirazioni riformistiche. Il Risorgimento unico e sincero è sempre e solo quello di Tina Pica. Toccava a lei il ruolo di vedova d’eroe garibaldino. Tutto un luccicare di sciabole sguainate e libro “Cuore” aperto. La pagina più bella del romanzo di Edmondo De Amicis è quella della mano. Un eroe riesce a stringere la mano al sovrano e la gioia è così grande che, con quella stessa mano, deve accarezzare il volto del figlio e degli altri bambini accorsi per vedere Vittorio Emanuele. Dice l’eroe mostrando la mano: “Andate a casa e mostrate la carezza del Re”. Un qualcosa di simile lo farà, secoli dopo, Giovanni XXIII, ma – con rispetto parlando – un Re è pur sempre il Re.

      
    E il Re si incontra a Teano con Garibaldi. Il Generale gli dice: “Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto”. E poi, aggiunge: “Obbedisco”. Fermi tutti, lo sappiamo. Non è andata così. Errata corrige. Garibaldi si pronuncia solo con un “Obbedisco”. La parte su Vittorio Veneto riguarda un altro momento importante dei Centocinquanta, ma è meglio soprassedere. Il Re, dunque, incontra Garibaldi a Teano ma la località è disgustosamente meridionale. La stazione di servizio sull’autostrada, facciamo per dire, è quanto di più stereotipato si possa immaginare. Arrivando lì si arriva nel meridione. Ci sono, infatti, ceffi che vendono calze, altri che si mettono a lavare vetri, quindi venditori di orologi rubati e qualcun altro, infine, messo di stanza nei cessi, disponibile per un pronto accomodo. Insomma, troppo garibaldina e poco regale questa stazione di servizio.
     
    Meglio fare benzina prima, a Roma, oppure dopo, in Calabria. Ci sentiamo di dare questo consiglio: evitare di fare sosta alla stazione di servizio di Teano. Ci resta il Re a Teano ma un automobilista che si lasci alle spalle Caianello, piuttosto volga con spirito lieve un pensiero al ricordo del maestro Scannagatti, “il cigno di Caianiello”, il sempre celebrato genio della moseca che è pari al collega di Busseto, ovvero Giuseppe Verdi. L’Italia, proprio, non si può fare con “Va’ pensiero” e se perfino Verdi stava dalla parte di Nabucodonosor, tutti i ghibellini di un certo gusto non possono che sottoscrivere quello che Riccardo Muti predica da una vita: “Sono le bande musicali a fare la patria”. Infatti sono i maestri di musica a soffiare su trombe, clarini e clarinetti la “Marcia dei bersaglieri”. E chissà perché sulla marcia, qualche paroliere giocoliere, ha messo sopra quella stupida canzoncina: “Garibaldi fu ferito / fu ferito ad una gamba”.

      
    Garibaldi, sia detto per inciso, non ebbe mai bersaglieri a corredo di iconografia. Ma solo mercenari e camicie rosse. Vittorio Caprioli, nel film “Er Più, storia d’amore e di coltello”, fu uno strepitoso usuraio in “camicia rossa”. Ogni volta che lo arrestavano i carabinieri lo supplicavano di “levarsi” quel così nobile cimelio. Camicie rosse assai chic furono Giuliano Gemma e Alain Delon. Il magnifico discorso alle Camicie rosse fu quello pronunciato in occasione del Cinquantenario dell’Unità d’Italia da Gabriele D’Annunzio, “Orazione per la Sagra dei Mille”: “Un’ira occulta percosse e ruinò una regione nobile tra le nobili, quella dov’è radicata dalle origini la libertà, quella dove il Toro sabellico lottò contro la Lupa romana, dove gli otto popoli si giurarono fede, si votarono al fato tremendo e la lor città forte nomarono Italica”. Ecco, i Mille: “Voi, miracolo mostrato dal non cieco destino, ultimi della sacra schiera sopravviventi in terra, o forse riappariti oggi dalla profondità della gloria per testimoniare agli immemori, agli increduli, agli indegni come veramente un giorno respirasse in bocche mortali e moltiplicasse la forza delle ossa caduche quell’anima stessa che qui gira e solleva il bronzo durevole”.

     
    Eppure a Teano, alla stazione di servizio, ci sono due presenze meritevoli. Sono presenze mute. Sono, infatti, sagome di cartone. Non sono Vittorio Emanuele e Garibaldi ma si notano oltre gli espositori. Uno è Aldo Cazzullo. Ed è assiso dolcemente sulla pila di “Viva L’Italia!”, il suo bestseller con prefazione di Francesco De Gregori. L’altro, a figura intera, ad altezza d’uomo, è Roberto Saviano.
     
    Un effetto niente male questo di Saviano. Stringe tra le mani il tricolore. E se solo Saviano avesse un’altra estetica o, diciamo così, un altro look, più consono al tema risorgimentale (anche Cazzullo non starebbe male con un pizzo tipo spezzaferro), ce lo vedremmo coi i baffi, i favoriti e poi con ciocche di capelli patriottici cascanti ad adornare di gloria quell’incarnato invece così sbiancato, tutto rapato, con quella barbetta da Banda Bassotti che però ce lo rivela qual è: la fronte ricoronata di Dante Alighieri. Ma se al Centocinquantenario si dovrebbe arrivare sulle note di Gioacchino Rossini, o sulle fantastiche pagine del “Rinaldo in campo”, la commedia musicale di Garinei & Giovannini, quella dei tre briganti e i tre somari, visti i tempi, di ovvia ridicolizzazione, ci si emoziona per la sinossi esplicativa e le analogie sull’Inno di Mameli fatte a Sanremo da Roberto Benigni. In prima fila, ad applaudirlo, c’era anche Giorgia Meloni, ministro della Gioventù, evidentemente non sufficientemente edotta se dopo pochi giorni, interrogata durante un quiz culturale in tivù da Antonello Piroso, interrogata a proposito della conoscenza di “Fratelli d’Italia”, davanti a quattro versi scelti a caso da individuare, lei ha preso giusto quello “La visione dell’Alighieri, oggi brilla in tutti i cuor”. E con la più sincera voce del cuore lo ha riconosciuto: “Questo è un verso dell’inno nazionale”. Ha indovinato ma sbagliato allo stesso tempo: è un verso tratto da “Giovinezza”, quello. E non è più primavera di bellezza, questa nostra età. L’Italia si esplica nel ginepraio delle didascalie e delle pubblicazioni per sottrazione, così come un tempo s’abbondava di romanità per convocare quanta più gente possibile innanzi all’idea di una nazione fatta a immagine e somiglianza coi propri eroi, adesso ci si sottrae dall’essere italiani “per dovere” e si fa Sanremo e tutta una serie di patacche fatte marketing.

     
    Tutti sanno tutto e lo spiegano senza imbarazzo. Anche Rosy Bindi ha scelto di indossare la coccarda, c’è da giurare che se ne farà un profluvio di coccarde da pavesare l’intero territorio nazionale , Scampia e Bozen comprese.
      
    Tutto declina secondo marca: non si vedranno labari a Redipuglia, né corazzieri a vegliare le tombe dei poeti, né un pellegrinaggio allo Spielberg. Tutto è pop. Giorgio Napolitano, con un fotomontaggio del Corriere della Sera, mette la mano sulla spalla a Vittorio Emanuele; su Topolino, il giornale da noi tanto amato, si legge un’avventurosa doppia storia dal titolo “Topolino, Pippo e l’Unità d’Italia”. Si nota, tra i personaggi, un paffuto Cavour. Ma non ha echi di bunga bunga. Né di alcun conflitto d’interessi.
     
    Tutto, infine, è Centocinquantenario. E ognuno di noi, nel proprio piccolo, è chiamato ad adottare un eroe del Risorgimento e noi proponiamo allora Matteo Nardi quello che una stele, a Milazzo, così lo ricorda: “Eroe popolano che, con sprezzo del pericolo, si lanciava contro i borboni durante l’assedio del castello di Milazzo”. In verità il povero Nardi era uno sempre ubriaco.
    Quando i garibaldini presero la fortezza di Milazzo, non se la guadagnarono con il fuoco e con il sudore, ma pagando. Imprendibile com’era, infatti, la fortezza fu abbandonata senza che si sparasse colpo, eccetto uno, quello che colpì a morte Nardi. Ubriaco, appunto, se ne stava a bivaccare nel frattempo che le truppe borboniche, lautamente rimborsate, abbandonavano la città. Scaracchiando e insultando, Nardi, invece, inveì e gettò ancora qualcosa al nemico in ritirata e qualcuno, per reazione, gli fece pum! E fu così che Nardi morì. Tutto ubriaco. Perfetto per il maledettismo postumo.
     
    Sono fatti così, gli eroi. Perfino il generale Garibaldi, tanto era atteso, tanto era l’anelito di libertà del popolo di Milazzo, non ebbe verso di trovare un tetto dove dormire in quel giorno di gloria. Fece a tal punto impressione dover pagare una conquista, invece che spararla, che ai milazzesi sembrò opportuno ospitare l’Eroe dei Due Mondi sugli scalini della chiesa di Santa Maria Maggiore. Con tanto di lapide, oggi, si ricorda il fatto: “Qui dormì Garibaldi”. E poi dovette levarsi da quello scomodo giaciglio.

     
    Il nostro racconto del Risorgimento è tutto un levare di archivi, memorie e medaglie. Un vero peccato che duri soltanto un anno il Centocinquantenario altrimenti ce ne sarebbe da scavare intorno alla montagna fatata dell’Italia che risorge. Laddove per montagna segreta intendesi il tumulo di terra occorrente per seppellire l’Italia. La mattinata procede con la cantata dell’“Inno di Garibaldi”. La bandiera, portata in processione lungo i corridoi della scuola, è ancora quella che in una lontana primavera nacque senza stemmi sulla sua parte bianca, “là”, come disse il figlio di un celebrato orientalista fiorentino, “dove noi idealmente iscriviamo, come su una pagina tornata vergine, una sola parola: ‘Onore’”.

     
    L’Italia pensata così però non esiste, forse è esistita, ma sta tutta sotto quella montagna di morte che a volerne resuscitare lo scheletro verrebbe fuori un paragone troppo impegnativo con la festa in corso. Meglio farsi una bella cantata. E non scoperchiare più tombe.

    • Pietrangelo Buttafuoco
    • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.