Ci vediamo a via Garibaldi

Camillo Langone

    Mi chiamo Peter Hillary, sono un cittadino neozelandese e adesso che sono in pensione posso finalmente approfondire la conoscenza della vostra bella Italia. Ci ero già stato un paio di volte, anni fa, ma solo per pochi giorni e solo a Roma. Stavolta ho pianificato un soggiorno abbastanza lungo per riuscire a visitare le città più importanti, i paesi più caratteristici, le cattedrali e i musei con i capolavori sommi. Devo confessarvi che mentre di arte italiana qualche cosa so (com’è possibile ignorare Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Tiziano, Caravaggio?) la storia italiana mi è quasi del tutto oscura. So che a Roma da duemila anni c’è il Papa e che nel secolo scorso avete avuto quel fascista amico di Hitler, quel Mussolini che vi ha fatto perdere la guerra: ma prima e dopo di lui, boh. Passeggiando per i centri storici ho notato che le vie principali hanno gli stessi nomi ovunque: Cavour, Mazzini, Vittorio Emanuele e soprattutto Garibaldi. Avrei potuto leggermi la voce di Wikipedia ma, sapete, i signori della mia età sono affezionati ai libri di carta. Quando ho visto nella vetrina di una libreria un piccolo libro con questo mister Garibaldi in copertina sono entrato e l’ho comprato. Si intitola “Contro Garibaldi. Quello che a scuola non vi hanno raccontato”, l’autore si chiama Luca Marcolivio, l’editore si chiama Vallecchi. Non vi ho ancora detto che conosco un po’ di italiano perché sono stato per molti anni il medico della vostra ambasciata di Wellington e a un certo punto, anche se tutti i miei pazienti conoscevano l’inglese, mi è venuta la curiosità di imparare la lingua. Ho seguito dei corsi e adesso riesco a leggerla, purtroppo non a scriverla (queste righe sono tradotte da un amico gentile) e nemmeno a parlarla. So dire appena spaghetti, fettuccine, pizza, una bottiglia di vino ragazzo, grazie. E capisco quando il cameriere mi chiede “Bianco o rosso?”. Non faccio per vantarmi ma un poco me ne intendo, in Nuova Zelanda abbiamo anche bei vigneti, non soltanto bellissimi pascoli. La sera in albergo ho letto il libro, l’ho sottolineato dall’inizio alla fine (non è tanto lungo) e ora credo di conoscere abbastanza bene la vita avventurosa del personaggio: proprio per questo capisco ancora meno di prima il motivo che vi ha spinto a intitolargli tante strade.

     

    Sono in via Garibaldi a Torino, sulla guida c’è scritto che si chiamava Dora Grossa e che si tratta della via pedonale più lunga d’Europa. Anche i marciapiedi vantano un primato: sono i più antichi del continente. Sarà vero? Non è che a voi italiani piace gonfiare un po’ le cose? Sto andando a vedere il “Ritratto di ignoto” di Antonello da Messina e intanto mi assalgono le insegne: Welcome Travel, Coffee House, Polar Store, Original Marines, Bolton’s, Trendy, Absolute Joy, Flash, New Angel, Foot Locker, Nike… Gli stessi nomi e le stesse marche di Auckland! La strada venne dedicata a Garibaldi subito dopo l’unità d’Italia, per motivi non chiari. Non credo che sia perché, come racconta Marcolivio, “intorno ai quindici anni compie la sua prima bravata: con la complicità di un gruppo di coetanei, ruba una modesta imbarcazione ormeggiata al porto di Nizza con l’intento di dirigersi verso Genova. Prontamente intercettato”. Ci dev’essere dell’altro, di giovani ladruncoli è pieno il mondo e a nessuno dedicano strade, che io sappia.


    Sono in via Garibaldi a Genova, patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco, sede della Galleria di Palazzo Bianco (Caravaggio, Memling, David, Rubens…) e della Galleria di Palazzo Rosso (Van Dyck, Veronese, Tiziano, Guido Reni, Guercino…). Si chiamava Strada Nuova e per la magnificenza venne anche detta Via Aurea, la via dell’oro. Dal 1882 si chiama via Garibaldi come un milione di altre. Scrive Marcolivio che l’eroe “viene arrestato per schiamazzi notturni a Taganrog: da buon italiano caciarone…”. Caciarone? What do you mean “caciarone”? Fa lo stesso, riprendo a leggere: “Da buon italiano caciarone Garibaldi si ritrova a gozzovigliare nelle osterie della città ucraina, ignorando le severe norme di rispetto della quiete pubblica che lo zar Nicola I aveva imposto. Prende così a bighellonare per le strade, intonando canti popolari ai suoi compagni di sbornia: Garibaldi, però, è più ubriaco degli altri e il tono della sua voce più molesto”. Quindi gli hanno intitolato una delle più sontuose strade del mondo perché beveva molto e cantava forte?


    Sono in corso Garibaldi a Milano e non c’è niente da vedere. I milanesi di un tempo non dovevano apprezzare troppo il generale se gli hanno assegnato una strada del genere, a Wellington ne abbiamo di più caratteristiche. Forse la commissione toponomastica aveva presente quello che mi ha fatto scoprire Marcolivio, lasciandomi senza parole: durante la prima guerra di indipendenza “Garibaldi ad Arona requisisce due battelli e, dopo aver sequestrato un gruppo di cittadini locali, riesce a ottenere un riscatto di settemila lire e un discreto quantitativo di viveri. Giunto a Luino fa fucilare gli ostaggi”. I milanesi di oggi credo lo apprezzino ancora meno visto che proprio qui hanno aperto il Radetzky Cafè, dedicato al feldmaresciallo che mazziniani e garibaldini li impiccava senza pensarci due volte.

     

    Sono in via Garibaldi a Venezia. Ormai ero convinto che nella Serenissima non ci fosse posto per toponimi seriali, non avevo notato nemmeno gli onnipresenti Cavour e Mazzini. Un passato glorioso e pittoresco sembrava essersi fissato per sempre sugli angoli dei palazzi: Lista di Spagna, Rio terrà San Leonardo, Mercerie, Riva degli Schiavoni… Ma sulla sinistra mi aspettava una via più larga: via Garibaldi, accidenti, anche qua. Forse i veneziani, eredi di una gloriosa repubblica marinara, sono rimasti affascinati dalla figura del navigatore? Dubito conoscano i dettagli. Dopo il fallimento della Repubblica romana, Garibaldi fugge a New York e poi a Lima dove “ottiene la cittadinanza peruviana e il comando del brigantino Carmen. Porta merci in Asia e, sovente, torna in Sudamerica carico di merci umane! Proprio così: secondo i cronisti meno agiografici, negli anni Cinquanta una delle attività più redditizie dell’Eroe dei due mondi è proprio il commercio di schiavi”.

     

    Sono in corso Garibaldi a Padova, sto andando alla Cappella degli Scrovegni dopo aver letto il capitolo brasiliano: “Una delle fasi più oscure nella vita di Garibaldi, i cui uomini si distinguono per le più efferate razzie: stupri, atti di brigantaggio ed eccidi gratuiti nella zona della laguna di Dos Patos. Tristemente noto agli abitanti del luogo (ma pressoché ignorato dai libri di storia) rimarrà il massacro del villaggio di Imaruhy”. E allora mi domando: perché questa strada non l’hanno chiamata corso Giotto? Non sarebbe stato più logico, più bello e anche più turistico?

     

    Sono a Bologna in via Garibaldi per ammirare l’arca di San Domenico scolpita da Nicola Pisano, Arnolfo di Cambio, Niccolò dell’Arca e Michelangelo, una squadra fortissima, gli All Blacks della scultura. Nella chiesa dei domenicani si respira la pace dell’arte e della liturgia, sembra uno scherzo di cattivo gusto l’aver intitolato la via di fronte a colui che “il 17 agosto 1848 entra a Varese, dove ricatta brutalmente la popolazione, imponendole la consegna di un totale di ottantamila franchi. Non avendo ottenuto ciò che vuole fa fucilare un contadino e i varesotti capitolano”. Peccato non abbia tempo di spingermi fino a Varese per vedere se esiste una via Garibaldi anche lì. Non mi stupirei di trovarla: comincio a sospettare che voi italiani siate un popolo di masochisti.


    Sono a Parma in piazza Garibaldi dopo aver percorso la lunga strada Garibaldi. In mezzo alla piazza, dallo stile così disordinato che in confronto Civic Square a Wellington sembra tutta disegnata dal Bernini, si erge un monumento: a Garibaldi. Non so quale sfaccettatura del proteiforme personaggio abbia entusiasmato maggiormente i parmigiani: il fucilatore di ostaggi? lo schiavista? il finanziatore della mafia? il liberatore dei camorristi? l’organizzatore di plebisciti-farsa? l’affamatore del Mezzogiorno d’Italia?


    Sono a Ravenna in piazza Garibaldi che si trova a pochi metri dal sepolcro di Dante. Il padre della lingua italiana si rivolterà nella tomba al pensiero di un simile vicino, capace di mettere l’Italia nelle mani di una dinastia francofona. Ecco l’incontro di Teano nella descrizione di Marcolivio: “I due interloquiscono in francese, unico idioma che i Savoia masticano con disinvoltura. Je vous remets l’Italie, proclama ossequioso Garibaldi a Vittorio Emanuele II”.

    Sono a Pisa in piazza Garibaldi che pur non essendo grande è, per via della posizione strategica, fra la stazione e il Campo dei Miracoli, l’ombelico della città. Impossibile non passarci e quando ci si passa ti vedono tutti, non ti puoi nascondere. Come non ti potevi nascondere nell’ottobre 1860 se eri un elettore dell’ex Regno delle Due Sicilie: il voto era superpalese, “sotto la truce sorveglianza dei garibaldini, coaudiuvati da qualche scagnozzo camorrista”. Per convincersene basta leggere i risultati: 99,37 per cento a favore dell’annessione, 0,63 per cento i contrari. Se premiate con una piazza chi ha organizzato una votazione del genere, vuol dire che è questa la vostra idea di democrazia. E vi lamentate di Berlusconi?

     

    Sono a Urbino in corso Garibaldi sotto i torricini del Palazzo Ducale voluti da Federico di Montefeltro, lui sì un fior di condottiero. Marcolivio scrive che Garibaldi è riuscito a battere solo avversari comprati o in drammatica inferiorità di uomini e mezzi: in caso contrario era solito rimediare batoste, dal Sudamerica (dove in due spedizioni perse due flotte) fino a Mentana. In una lettera indirizzata a Cavour, Vittorio Emanuele definisce il soggetto “non così onesto come si dipinge” e dal talento militare “molto modesto”. Aveva più che altro un buon ufficio stampa.

    Sono a Viterbo in via Garibaldi, per salire al Palazzo dei Papi bisogna omaggiare la memoria dell’uomo che definì il Papa del suo tempo, Pio IX, “un metro cubo di letame”. Siete proprio pazzi, amici italiani. Io invece saggiamente mi mangio un kiwi ricchissimo di vitamina C. E’ l’unica cosa che accomuna i nostri due paesi: il fruttivendolo mi ha spiegato che l’Italia è il maggior produttore mondiale del frutto simbolo della Nuova Zelanda. A meno che non mi abbia raccontato una frottola come quelle inventate dagli amici di Garibaldi.

    Sono a Roma sul ponte Garibaldi. Sarà che sono abituato bene (le città neozelandesi sono fra le più verdi e vivibili del mondo) ma trovo l’aria dei lungoteveri irrespirabile. Come fanno i romani? Perché il sindaco non blocca il traffico per un anno, il tempo minimo per rigenerare i polmoni dei suoi elettori e le foglie di questi poveri platani? Nella vostra capitale sciatteria e rassegnazione raggiungono vette più alte del nostro Monte Cook. Questo forse spiega come sia possibile che uno dei ponti principali della città sede della chiesa cattolica sia dedicato a chi sostenne ed elogiò Callimaco Zambianchi, “ai tempi della Repubblica romana distintosi per il barbaro massacro di numerosi sacerdoti e suore a San Callisto”, definendolo “simbolo della coscienza nazionale verso la setta pervertitrice” (appunto i cattolici). Eppure sui sette colli l’assurdità non ha regnato sempre: sette secoli fa Pietro Cavallini collocava con grande esattezza le tessere dei mosaici di Santa Maria in Trastevere, qui a due passi.

    Sono a Napoli in piazza Garibaldi. L’ho capito che Rinascimento e Barocco sono passati e trapassati, che da secoli non avete più la fortuna di un Borromini e nemmeno di un Cosimo Fanzago, ma per costruire questa stazione un altro architetto non ce l’avevate? Anche se i nostri progettisti non sono famosi andatevi a guardare la stazione di Dunedin: una meraviglia, non siete d’accordo? Centocinquant’anni fa i napoletani non erano così indietro rispetto ai neozelandesi: “Alla vigilia dello sbarco dei Mille si poteva parlare di vero e proprio miracolo economico. I Borbone disponevano della terza flotta mercantile d’Europa, una moneta solida, un debito pubblico pressoché inesistente, bassa disoccupazione e nessuna emigrazione. Nel Regno erano sorti il maggior complesso siderurgico d’Italia (Pietrarsa) e la prima ferrovia mai edificata nella penisola (Napoli-Portici). Quanto alle finanze, il Regno di Napoli poteva contare su una riserva monetaria doppia rispetto ai restanti stati peninsulari”. Come andò a finire? Malissimo. “Nei due mesi di dittatura, Garibaldi produrrà un deficit pari a dieci milioni di ducati. Prelevando in modo dissennato dai fondi del Banco delle Due Sicilie per coprire le spese di guerra, ricompensare i notabili che avevano contribuito alla rivoluzione… La camorra riceverà ben settantacinquemila ducati (circa diciassette milioni di euro) per aver avallato la causa di don Peppino il liberatore. Ciliegina sulla torta: l’abolizione dei dazi che stroncherà ogni possibilità di sviluppo dell’industria del sud”. Più osservo questa piazza squallida più penso che Garibaldi in fondo se la merita.

    Sono a Caserta nell’ennesima piazza Garibaldi. Da Napoli avrei voluto scendere fino in Sicilia ma in Sicilia c’è la mafia: “A Salemi, Garibaldi incontra un nuovo mecenate, un losco latifondista che gli fornisce duecento uomini: è la prima di una serie di connivenze con la nascente mafia, in lotta per il mantenimento di quei privilegi feudali che i Borboni stanno combattendo”. Allora ho preferito risalire verso nord dove però ho trovato la camorra. La colpa è sempre sua e dei suoi collaboratori: “Pur di favorire l’invasione, Liborio Romano concede la scarcerazione a Salvatore De Crescenzo e a numerosi altri malavitosi, con l’obiettivo di piegare l’intero corpo di polizia ai voleri del nuovo dittatore don Peppino: chi non è d’accordo viene trucidato senza pietà”. Però sono ottimista, in albergo ho acceso la televisione e ho visto Roberto Saviano, un giovane di queste parti che combatte il crimine organizzato a rischio della vita. E’ uno scrittore preparato che ama la verità, ha un largo seguito, conosce le radici antiche del fenomeno e sono sicuro che uno di questi giorni prenderà la parola per sbugiardare Garibaldi e quelli che dopo tanti anni ancora lo sfruttano a scopi politici. Magari chiamerà al suo fianco Luca Marcolivio e insieme spazzeranno via tutta questa retorica e tutte queste piazze. Adesso però scusatemi, devo scappare, ho l’aereo che mi parte da Fiumicino: auguri, amici italiani, auguri!

    • Camillo Langone
    • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).