Riad congela il contagio nel Golfo inviando i soldati in Bahrein

Daniele Raineri

Ieri duecento veicoli e mille soldati sauditi hanno attraversato il mare sulle tredici corsie del gigantesco al Jasr al Malik Fahd, il ponte autostradale “Re Fahd” di 25 chilometri che collega l'Arabia Saudita al minuscolo regno-isola del Bahrein. L'opposizione ha subito denunciato “l'occupazione straniera”, ma questa era una mossa attesa da tempo dagli osservatori. Nessuno pensava che il sovrano saudita, re Abdullah, potesse davvero lasciare da solo il vicino sovrano del Bahrein, Hamad bin Isa al Khalifa, in difficoltà davanti alla maggioranza sciita in rivolta.

    Sana'a, dal nostro inviato. Ieri duecento veicoli e mille soldati sauditi hanno attraversato il mare sulle tredici corsie del gigantesco al Jasr al Malik Fahd, il ponte autostradale “Re Fahd” di 25 chilometri che collega l'Arabia Saudita al minuscolo regno-isola del Bahrein. L'opposizione ha subito denunciato “l'occupazione straniera”, ma questa era una mossa attesa da tempo dagli osservatori. Nessuno pensava che il sovrano saudita, re Abdullah, potesse davvero lasciare da solo il vicino sovrano del Bahrein, Hamad bin Isa al Khalifa, in difficoltà davanti alla maggioranza sciita in rivolta. Secondo un'anodina dichiarazione saudita, le truppe inviate farebbero parte di un'unità speciale creata con uomini dei sei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo proprio per affrontare questi “problemi interni”.
    In realtà sembra appartengano alla Guardia nazionale saudita, che a differenza della Guardia nazionale americana non è un'armata di serie B, ma un secondo esercito di proprietà del re formato per la maggior parte dai membri di tribù leali alla corona con la missione di affrontare le rivolte interne e di bilanciare il potere dell'esercito regolare. Sono l'“Esercito bianco”, gli eredi degli Ikhwan, i Fratelli, i soldati dell'islam e sunniti ultrazeloti che crearono il regno nella sua forma attuale e che da oggi non avranno compassione delle proteste sciite.

    Nella capitale tutta vetrocemento
    e svincoli sovradimensionati non esiste un centro simbolico come piazza Tahrir al Cairo, così i manifestanti hanno scelto di occupare una rotonda nella zona dei centri commerciali, la periferica piazza delle Perle, e di trasformarla in un sit-in pacifico. Domenica e ieri hanno bloccato con una catena umana e barricate improvvisate anche il distretto finanziario che poco lontano ospita i palazzi delle banche, ma le forze di sicurezza hanno reagito con durezza, liberando le strade e sparando proiettili di gomma. Sono le stesse che la notte del 13 febbraio scorso avevano sgombrato la rotonda con ferocia uccidendo cinque manifestanti disarmati. La monarchia del Bahrein ha creato le sue forze speciali e le sue unità antisommossa assumendo in Siria, in Yemen, in Iraq (ha dato asilo a elementi del regime in fuga dopo la cacciata di Saddam Hussein), in Giordania (il capo del Mukhabarat, i servizi segreti, è un giordano accusato di torture). Gli uomini non intendono il dialetto arabo locale. Il trenta per cento degli arruolati viene dal Pakistan e non sa nemmeno parlare l'arabo. In questi giorni, a Lahore una fila di disoccupati pachistani, ex militari ma anche laureati, è in fila davanti al Pearl Continental Hotel per un posto nei ranghi delle forze di sicurezza del Bahrein.

    Non esistono numeri precisi su questo shopping di sicurezza all'estero, perché il regno non vuole alimentare le accuse dell'opposizione, ma c'è una strategia più generale per bilanciare con sunniti d'importazione la presenza degli sciiti, che sono il sessanta per cento del milione di abitanti del regno. E' la differenza di trattamento tra i nuovi naturalizzati e la maggioranza oppressa ad avere innescato le prime proteste. L'opposizione sostiene anche che gli assunti nelle forze armate sono scelti per il loro zelo religioso sunnita e l'inclinazione a considerare gli sciiti come loro nemici naturali.

    Re Abdullah ha deciso di dare un aiuto decisivo alla repressione in Bahrein e ha insabbiato le proteste sul nascere in casa propria, in Arabia Saudita, con un piano faraonico di welfare da 36 miliardi di dollari ed è diventato la barriera a oriente del contagio antiautoritario tra gli arabi. A occidente se ne sta occupando con i suoi metodi cruenti il rais libico Muammar Gheddafi. I due sono nemici mortali, Gheddafi organizzò un attentato contro Abdullah quando questi era ancora principe ereditario, ma sono diventati le due muraglie di contenimento della rivolta democratica.  Entrambi, a est e a ovest, sono aiutati dal rigido principio di non interferenza adottato dall'occidente. Washington e le capitali europee hanno duramente condannato il regime in Libia per la brutalità, ma stanno agendo con lentezza: la no fly zone approvata anche dalla Lega araba è ancora allo stato di ipotesi e intanto i soldati di Gheddafi hanno avuto tutto il tempo di riconquistare l'iniziativa e riprendersi il terreno perduto. Il golpe dei ribelli si sta dissolvendo sotto la marcia di vendetta dei lealisti. 
    Nella penisola araba, il principio di non interferenza dell'occidente è ancora più rigoroso. Due giorni fa, di tappa nel suo viaggio verso l'Afghanistan, il segretario americano alla Difesa, Robert Gates, ha detto a re Khalifa che “i passi da bambino” delle riforme intraprese nel Bahrein non bastano, ci vuole di più. Ma l'isola ospita la Quinta flotta americana in una posizione strategica a poca distanza dall'Iran ed è realistico non aspettarsi troppa pressione dalla Casa Bianca.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)