Gli inglesi si fanno prendere in giro, ma Cameron è l'unico con un'idea

Paola Peduzzi

Forse un giorno ci spiegheranno che cosa avesse in mente il governo di Londra quando ha deciso di mandare a Bengasi una missione segreta per prendere contatti con i ribelli – talmente segreta che neanche i ribelli ne erano a conoscenza. Un team composto da otto persone, un diplomatico, un funzionario dell'MI6 e sei uomini del Sas (corpo d'élite britannico nato – ironia della sorte – proprio nell'Africa del nord ed emulato in tutto il mondo) è arrivato a Bengasi in elicottero.

    Forse un giorno ci spiegheranno che cosa avesse in mente il governo di Londra quando ha deciso di mandare a Bengasi una missione segreta per prendere contatti con i ribelli – talmente segreta che neanche i ribelli ne erano a conoscenza. Un team composto da otto persone, un diplomatico, un funzionario dell'MI6 e sei uomini del Sas (corpo d'élite britannico nato – ironia della sorte – proprio nell'Africa del nord ed emulato in tutto il mondo) è arrivato a Bengasi in elicottero, ma è stato subito fermato con borse piene di armi, esplosivi, mappe e passaporti falsi di almeno quattro nazionalità diverse. Le guardie del Consiglio dei ribelli, dirette dall'ex ministro Mustafa Abdel Jalil, li hanno arrestati, ironizzando anche sull'operazione in stile James Bond, e la diplomazia britannica ha dovuto spiegare, scusarsi, chiedere, giustificare. Poiché non c'è mai fine al peggio, anche nel bel mezzo di una guerra civile, c'è stato pure il tempo per intercettare queste conversazioni e mandarle in onda sulla televisione di stato.

    Nell'intercettazione più umiliante si sente l'ambasciatore inglese a Tripoli, Richard Northern, che spiega a un emissario dei ribelli che il team stava soltanto cercando un albergo e che c'era stato un equivoco. “Hanno fatto un grave errore ad arrivare in elicottero”, dice il ribelle, e l'ambasciatore: “Oh, davvero? Non sapevo come fossero arrivati”. Deborah Haynes, una delle giornaliste più seguite in temi di difesa e guerre, scrive sul Times: “Avrebbero potuto scendere dalla fregata che sta di fronte a Bengasi, l'HMS Cumberland, e prendere un taxi per farsi portare al tribunale che fa da quartiere generale del Consiglio dei rivoluzionari: ci vanno tutti i giornalisti tutti i giorni”. Domenica notte il team è stato imbarcato davvero sull'HMS Cumberland alla volta di Malta, ma mentre si conferma che la missione è stata pensata dal ministro degli Esteri, William Hague, si rafforza il mito negativo attorno ai britannici: nel settembre del 2005 a Bassora, in Iraq, accadde la stessa cosa. Due soldati del Sas furono catturati in borghese, con borse piene di armi, esplosivi e passaporti falsi e le truppe inglesi dovettero assaltare la prigione dov'erano rinchiusi per liberarli (prima erano stati presi a sassate quando avevano tentato di entrare nel commissariato dove i due erano interrogati). Se si pensa che erano inglesi anche molti passaporti ritrovati al commando che uccise a Dubai un esponente di Hamas un anno fa, è chiaro che l'ultimo exploit in Libia rischia di dare un colpo letale alla credibilità delle forze inglesi in medio oriente e nord Africa.

    Quest'ultimo imbarazzo e le polemiche sulla lentezza con cui il governo inglese ha messo in salvo i suoi cittadini in Libia rischiano di oscurare il dato più importante di tutta la vicenda, e cioè che il premier, David Cameron, sta assumendo la leadership di un'eventuale coalizione di volenterosi disposti a fermare le stragi di Muammar Gheddafi. Da giorni sta studiando la fattibilità di una “no fly zone” ed è riuscito a convincere – in parte – il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, a spostarsi su una posizione più interventista. Grazie a Cameron è stato organizzato un Consiglio europeo straordinario – previsto per l'11 marzo – e anche l'Alleanza atlantica ieri ha detto che non potrà stare ferma a guardare. Cameron è stato redarguito dal capo del Pentagono, Bob Gates, che se l'è presa con tutti quelli che parlano della “no fly zone” con leggerezza: è un atto di guerra, ha dichiarato il ministro americano. Il premier britannico lo sa bene, ma è l'unico che oggi parla esplicitamente della necessità di un intervento – di una guerra – recuperando il lessico blairiano sull'ingerenza umanitaria e democratica, con una sua declinazione sul “liberalismo muscolare”. Il premier inglese non è mai stato un fan di questa dottrina, ma di fronte alla strage di Gheddafi ha dovuto scegliere. I suoi due collaboratori più stretti, il cancelliere dello Scacchiere George Osborne e il ministro dell'Istruzione Michael Gove, sono interventisti, mentre il ministro degli Esteri Hague è considerato un realista. Cameron ha deciso di stare con i cosiddetti falchi, è stato il primo ad andare in Egitto dopo la caduta di Mubarak e in Kuwait, mentre si celebrava la liberazione da Saddam, ha ribadito che il realismo non è una politica realista, che è un interesse di tutti tenere alti i valori democratici, “ma non sono soltanto i nostri valori, tutti li vogliono ovunque, dalla piazza Tahrir a Trafalgar Square”.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi