In Yemen la rivolta vuole passare alla “fase egiziana”. Occhio ai “baltagia”

Daniele Raineri

Si è appena spalancata una botola sotto i piedi del presidente yemenita Ali Abdullah Saleh. Le due confederazioni tribali più grandi del paese hanno sciolto le loro riserve e si sono schierate con il fronte di chi vuole cacciarlo, dopo quattro settimane di imperscrutabile silenzio. Il cambiamento è già evidente nelle strade della capitale Sana'a.

    Sana'a, dal nostro inviato. Si è appena spalancata una botola sotto i piedi del presidente yemenita Ali Abdullah Saleh. Le due confederazioni tribali più grandi del paese hanno sciolto le loro riserve e si sono schierate con il fronte di chi vuole cacciarlo, dopo quattro settimane di imperscrutabile silenzio. Il cambiamento è già evidente nelle strade della capitale Sana'a, dove gli studentelli dalle camicie strette e gli slogan stampati su foglietti A3 che a gennaio hanno iniziato le proteste di piazza ora sono persi nella folla degli oppositori in arrivo, diluiti in mezzo agli striscioni e alle migliaia di uomini ben piantati appartenenti alle cabile di fuori città, che ostentano la jambìa, il pugnale a lama larga appeso alla cintura sopra l'ombelico, e accoccolati in gruppi sui marciapiedi attendono direttive dai capi.

    All'incrocio di strade davanti all'università, il quartier generale degli anti Saleh, il clima da Woodstock libertaria degli universitari sta lasciando il posto all'attesa di un confronto all'egiziana. Ritornare indietro non è tra le opzioni. Anche la macchina dell'organizzazione ora ha un segno diverso, sono arrivate tende, serbatoi di acqua potabile, amplificatori e casse. Attorno, il servizio d'ordine che perquisisce il flusso di gente in entrata è composto da quattro anelli di volontari, giorno e notte, e a tutti toccano quattro tastate da quattro paia di mani diverse – c'è la paura che infiltrati con armi riescano a entrare e colpire. Le due tribù contano quasi come l'esercito e funzionano un po' come Grandi elettori, il leader decide e i suoi uomini seguono – una è la stessa del presidente, che a differenza di quanto succedeva nel passato oggi non ha più abbastanza soldi per tenere buoni i suoi. Evidentemente hanno fatto la propria scommessa sulle sorti di Saleh, e ora l'ipotesi che il regime possa crollare s'è fatta reale.
    Il confronto all'egiziana parte oggi con una Giornata della rabbia per i morti di Aden, la città del sud dove le forze di sicurezza sono state durissime e hanno ammazzato 14 manifestanti in due settimane. Ci si aspetta una manifestazione di massa. Venerdì scorso, alla preghiera rituale dei manifestanti si sono prostrate 40 mila persone, prese in mezzo tra i venditori ambulanti e i poster di Che Guevara del partito socialista, inguaribile nostalgico della presenza russa nel sud del paese. Nella capitale culturale del paese, Taizz, lo stesso giorno i manifestanti sono stati 100 mila.

    Secondo la voce del suk, la manifestazione è oggi perché la rivolta in Libia è ormai alle sue battute finali ed è tempo che l'attenzione di giornali e televisioni si sposti sullo Yemen. Di solito i cortei sono di giovedì, ma per venerdì prossimo è stata annunciata un'altra giornata campale di proteste e non si vogliono comprimere le proteste nei due giorni del fine settimana islamico. Il nome da tenere d'occhio tra i leader è quello di Hamid al Ahmar.
    Il presidente Saleh sta passando per tutte le fasi del ciclo di incredulità dei rais arabi davanti alle rivolte. Prima la negazione, “sono pochi anarchici”, poi l'indulgenza misericordiosa, “sono come un'influenza, passeranno”, poi le accuse contro i complotti stranieri, poi la violenza brutale, infine l'offerta tardiva: ieri ha annunciato per oggi la formazione di un nuovo governo di unità nazionale, ma l'opposizione, alla vigilia della più grande manifestazione politica degli ultimi trent'anni, ha rifiutato. Il governo sbatte fuori dal paese tutti i giornalisti che può – a cominciare da quelli di al Jazeera, è rimasto soltanto lo staff yemenita – e taglia la durata dei visti agli stranieri. L'ambasciata italiana sta compilando la lista degli italiani nel paese e dei luoghi in cui trovarli. Ieri, autocarri carichi di soldati sfilavano cantando sulla strada principale che attraversa la città. Il resto della controffensiva è affidato alle migliaia di uomini delle tribù pro Saleh accampati nel centro di Sana'a a piazza Tahrir (una mossa geniale, l'hanno occupata preventivamente per impedire che diventasse il centro simbolico delle proteste), che attaccano i cortei dell'opposizione con bastoni, coltelli e fucili. Il nome arabo che è stato affibbiato loro è baltagia, ovvero gli sgherri della malavita incaricati di riscuotere i debiti. Secondo fonti d'intelligence, il governo avrebbe già cominciato a rilasciare quasi 200 detenuti legati ad al Qaida, per aumentare il disordine e giustificare una repressione brutale. La smentita parla di notizie “esagerate”. La piazza chiede non un governo di unità nazionale, ma la rinuncia al potere: Saleh dovrebbe sloggiare almeno qualcuno dei suoi dall'apparato militare e di sicurezza.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)