Chi comanda sul Pd

Alessandra Sardoni

Non ci fosse stato il piccolo particolare di quello che a oggi appare un rifiuto – perché Raffaele Cantone magistrato e scrittore non si vede nel ruolo di sindaco di Napoli – l'ultima iniziativa di Roberto Saviano, verdetto di irregolarità sulle primarie del Pd partenopeo e indicazione del nuovo candidato per le comunali, sarebbe passata alla storia come la ciambella con il buco, il caso di scuola, l'antonomasia dell'eterodirezione. Papa straniero che impone un papa straniero. Un esterno che ne designa un altro.

    Non ci fosse stato il piccolo particolare di quello che a oggi appare un rifiuto – perché Raffaele Cantone magistrato e scrittore non si vede nel ruolo di sindaco di Napoli – l'ultima iniziativa di Roberto Saviano, verdetto di irregolarità sulle primarie del Pd partenopeo e indicazione del nuovo candidato per le comunali, sarebbe passata alla storia come la ciambella con il buco, il caso di scuola, l'antonomasia dell'eterodirezione. Papa straniero che impone un papa straniero. Un esterno che ne designa un altro. Ma il “no grazie” del magistrato è solo il dettaglio che separa dalla perfezione e non inficia l'esemplarità della vicenda. A prescindere dall'epilogo, la capacità di Saviano di dare la linea e soprattutto quella del Pd intero di farsela dare, con tempistica accelerata e dunque rivelatrice (fra l'appello sul sito di Repubblica e l'adesione di Bersani l'intervallo è stato brevissimo) hanno creato nel partito e nelle aree attigue, autoironie, amarezze e turbamento. “Ma è mai possibile che decida Saviano?”, si chiedeva il direttore del Riformista Stefano Cappellini sulla prima pagina del quotidiano ribellandosi alla forza dell'icona di Repubblica. “E per di più un magistrato…”, si doleva sulla Stampa il filosofo Biagio De Giovanni. Il direttore di Europa Stefano Menichini optava per la versione dell'autonomia del segretario, una semplice coincidenza temporale o per il sospetto che, semmai, a Saviano qualcuno avesse chiesto una mano. I veltroniani si sperticavano nel ricordare che era stato Veltroni a proporre Cantone, prima di Saviano, nella manifestazione pubblica di Modem, al teatro Eliseo, rivendicazione della sintonia più che del copyright.

    Il caso è rivelatore di un atteggiamento psicologico e di una sostanza politica riassumibili in una parola “eterodirezione”, la più usata fin dagli anni '90 per descrivere o contestare il rapporto del Pd e, prima, dei partiti e dei leader del centrosinistra, con gli esterni, il gruppo Repubblica-l'Espresso in primo luogo, ma anche il Corriere o chiunque e qualunque cosa sia stato di volta in volta in grado di rivelare le sue potenzialità di attore della politica. Oggi, nella debolezza identitaria e di proposta, gli esterni si sono moltiplicati e frantumati spesso a loro volta indeboliti e sembra essere proprio il Pd a conferire loro la forza o lo spazio che in realtà avrebbero perso. L'eterodirezione, da accusa reciproca, da moto di insofferenza almeno come dissimulazione, si è trasformata in un'ammissione, l'argomento di un dibattito sottotraccia a livello dei dirigenti intermedi, condensata nell'immagine di “un Pd sballottato dagli eventi, dalle agende di altri o dalle emergenze” o nel cahier de doléances dell'alternativa che non si costruisce.

    Da Casini a Vendola, da Marchionne alla Fiom, dalla Camusso a Bonanni alla Confindustria, dal tremontismo in salsa leghista al bocconismo liberal, fino al rapporto con la magistratura e con la chiesa e alle fascinazioni internazionali, oggi per la Merkel, ieri Zapatero o Obama, eterodirezione è diventata l'etichetta di una caccia ai contenuti, un indefesso bric à brac politicoculturale e anche relazionale. Certo, Repubblica resta la sirena più ammaliante e temuta per storia e capacità di influire sull'elettorato classico del Pd, per fissare i paletti invalicabili dell'antiberlusconismo, l'impraticabilità di ogni negoziato con il Cav. dai tempi di quello che Claudio Rinaldi definì il “mal di Bicamerale” che costò la rottura definitiva fra Carlo De Benedetti e Massimo D'Alema, fino ai giorni, questi in cui l'impraticabilità politica consente di accontentare Largo Fochetti con una liberatoria durezza dei no al piano economico del premier e a ogni confronto sulla questione del debito.
    Si è visto con chiarezza nei giorni immediatamente successivi al secondo Lingotto veltroniano: gli accenti entusiastici dell'endorsement di Eugenio Scalfari pro Veltroni hanno provocato nelle diverse anime del Pd effetti opposti, ma significativi di uno stesso fenomeno; ovvero che lo sguardo benevolo del fondatore di Repubblica può ancora fare la gioia o la disperazione dei leader del centrosinistra.

    “Scalfari ha esagerato, Veltroni ha concordato la recensione prima del Lingotto”, giuravano i bersanian-dalemian-lettiani nei conciliaboli di Montecitorio e nel documento interno del bersaniano Stefano Fassina rivelato da Claudio Cerasa sul Foglio si criticava “qualche autorevole quotidiano convinto di poter tornare ad eterodirigere il Pd”. Sul fronte opposto i veltroniani si diffondevano sulle proprietà tonificanti di un omaggio a loro dire del tutto “inaspettato” e talmente euforizzante da spingere l'ex segretario al bis il sabato successivo, con la chiamata alla mobilitazione di piazza via lettera a Repubblica in puro stile barocco veltroniano. A dispetto del disincanto di un fedelissimo di rango come l'economista Michele Salvati, intellettuale di punta della fondazione Democratica: “Gli editoriali di Scalfari non si sa bene come prenderli – ha detto al Foglio – ma i Veltroni e i D'Alema, nonostante la loro qualità, sarebbero impresentabili in un contesto elettorale”.

    Gli insider giurano che Repubblica non è nemmeno più un partito, che anche dentro il giornale un tempo monolitico si fanno sentire anime diverse; che De Benedetti non la pensa come Scalfari e nemmeno come Ezio Mauro; che sulla Fiat ci sono state cinque linee diverse (Massimo Giannini, Luciano Gallino, Ezio Mauro e Mario Pirani oltre che Scalfari); e che “Repubblica è un po' come il Pd”: il che ovviamente rende più amara l'eterodirezione.
    “Viene da dire basta arrendetevi, l'eterodirezione ha vinto su tutta la linea, è un argomento usurante che avrebbe bisogno di essere smentito dai fatti. E dai risultati elettorali” osserva Andrea Romano, intellettuale di punta di ItaliaFutura fondazione di Luca Cordero di Montezemolo, con un passato alla testa di Italianieuropei il think tank dalemiano. “Mai il Guardian o l'Independent hanno avuto con il Labour un rapporto simile a quello che c'è fra Repubblica e il Pd”. Stefano Menichini invece tiene a sottolineare che l'eterodirezione in Italia riguarda tutti e non solo il Pd: “Si potrebbe dire che anche il Giornale dell'epoca Feltri ha eterodiretto il Pdl sul caso Boffo o con le campagne su Fini”, salvo precisare che lui vorrebbe un Pd più autonomo. Mentre Nicola Latorre ci tiene a salvare la specificità del caso Napoli, “non c'entra con l'eterodirezione, è una storia a sé”.
    La questione tiene banco dagli anni 90, coda delle vecchie dispute metafisiche del pci su popolo e partito. Con il marchio dell'eterodirezione dei fax di Scalfari, il 30 giugno 1994 nacque l'idea stessa di Veltroni leader del Pds e con la ribellione a quel marchio il leader fu D'Alema. “D'Alema è l'unico che ha combattuto l'eterodirezione andando allo scontro con De Benedetti, con l'Anm sulla giustizia e sulla Bicamerale e con Cofferati sul ruolo del sindacato; ma è finita presto nel '97, e poi si è adeguato”, osserva Claudio Velardi, oggi alla testa di una società di comunicazione politica, all'epoca capo dello staff dalemiano ed estensore di piani di guerra con ambizioni dirigiste sui media che riletti in questi giorni fanno sorridere (“Nei confronti dei giornali e dei media in genere, il nostro deve essere un atteggiamento egemonico – scrivevano i due spin doctor nel 1997 – dobbiamo ragionare sulla possibilità di portare alla guida del Corriere e di Repubblica due direttori di garanzia… Non amici di D'Alema o dell'Ulivo. Ci servono due direttori che riconoscano il primato della politica”). Teorizza Salvati che “la più grande eterodirezione in realtà è stata Prodi, un esterno”. Risale ad allora il conflitto mai risolto del leader senza partito con i partiti e tra partiti e società civile e popolo delle primarie. L'insofferenza dei bersanian-dalemiani per le primarie ha anche quella radice, l'impossibilità per il partito di gestire fino in fondo, di controllare. Napoli 2011 in questo senso è il casus belli perfetto.

    Uno scambio epistolare
    nella posta del Corriere fra il responsabile economico del Pd Stefano Fassina e l'editorialista Dario Di Vico la dice lunga sulla diversa fisionomia che il problema eterodirezione ha assunto negli ultimi due anni con la crisi economica. Scrive Fassina a Di Vico, autore di un pezzo critico (“Quel segretario catturato dalla piazza”) sulle ambiguità del Pd rispetto alla manifestazione della Fiom del 16 ottobre 2010 e sulla tendenza a ignorare precari, popolo delle partite Iva, lavoratori delle microaziende: “Non c'è contraddizione, ma coerenza fra la presenza alla manifestazione della Fiom e una proposta di fisco leggero sulle partita Iva… Le proposte del Pd sono coerenti con l'analisi di fondo contenuta nella Caritas in veritate”. Risponde Di Vico: “Disegnare una linea di continuità fra papa Ratzinger e Cremaschi passando per le uova a Bonanni è un esercizio che non porta da nessuna parte”.
    Il botta e risposta è il manifesto di quello che lo stesso Di Vico descrive al Foglio come “sincretismo debole”, il tentativo di cercare “fonti culturali ovunque anche a costo di rivelare una buona dose di minoritarismo”.
    Spazzati via dalla crisi economica, gli anni delle liberalizzazioni, l'egemonia liberaldemocratica alla Francesco Giavazzi caldeggiata dal Corriere e il feeling con la Banca d'Italia, l'eterodirezione è diventata plurima. Lo stesso Bersani che fra i suoi successi del biennio al governo amava annoverare le cosiddette lenzuolate, nate in debito e in contaminazione con quella cultura, appare stretto fra opposte pulsioni.
    Da una parte c'è la suggestione del tremontismo, che, secondo Andrea Romano, “nel suo binomio con la Lega, è il vero potere forte visto che i salotti del capitalismo finanziario non esistono più”. Osserva Romano che “Tremonti usa con intelligenza Berlinguer, lo cita in una prospettiva anticapitalistica, ma medievale e leghista che però fa presa sull'ala antimercatista del Pd, quella che sotto sotto crede nel ritorno dello stato. E che dunque abbocca”. Di convegno in convegno, Tremonti è passato dalle citazioni di Togliatti – sparse ad arte nei suoi discorsi pubblici – alla dissertazione sui discorsi di Berlinguer degli anni 70, con speciale attenzione a quello del 1977 sull'austerità, pronunciata alla presenza di Emanuele Macaluso, passando per le polemiche con i professori bocconiani, spiazzanti per il Pd che li aveva eletti a punti di riferimento dalla fine degli anni 90 al 2008. Naturalmente nel rapporto con il ministro dell'Economia che è soprattutto appannaggio di D'Alema e di Enrico Letta, via Aspen, e nell'asse nordista che lega Tremonti al mondo bresciano del banchiere Giovanni Bazoli, non c'è solo questa fascinazione culturale, c'è tattica politica, gioco delle alleanze, tentativi di costruire un dialogo in funzione antiberlusconiana. Discorso che non vale solo per Tremonti.

    In questa fase sincretica, la Fiom è una tentazione e per certi versi un porto. Garantisce la piazza, è muscolare e ne ha licenza e know how, è antica, ha il comitato centrale. Fischia la Camusso, ma parla alla pancia e al cuore. Non è solo il vecchio imperativo “non avere nemici a sinistra”, ma qualcosa di più e di più emotivo a spingere nella direzione dell'accumulo di materiali lasciandosi tentare da quelli forti o semplicemente cool.
    “Non ci sono più, hanno funzioni diverse le figure tipiche dell'intellettuale di volta in volta di riferimento come sono stati in passato Beppe Vacca, Nicola Rossi, Giorgio Bosetti, non ci sono più le riviste”, lamenta Di Vico, e Salvati si associa sottolineando che i numerosi think tank e fondazioni sono ormai solo relazionali: “C'è Pietro Ichino che vale un think tank, ma è solo”, dice l'economista mentre enfatizza l'importanza della scelta ichiniana fatta da Veltroni al Lingotto.

    L'eterodirezione ha corollari temibili, per esempio che, nella debolezza dei progetti e delle leadership, nel deficit identitario, gli eterodirettori perdano l'interesse a eterodirigere e si rivolgano altrove. E' successo con i mondi intermedi, con la rete delle piccole imprese così come la Lega delle cooperative.
    In un'intervista al Corriere di pochi giorni fa, il presidente di Legacoop Giuliano Poletti decretava la fine del collateralismo, spiegava che la Cgil è una controparte proprio come per la Confindustria, che l'idea delle cooperative, come terza via fra stato e mercato imposta per anni dalla politica, è finita per sempre e in sostanza che della politica a quel mondo che con la politica è nato e cresciuto interessa molto poco. A riprova che se il sincretismo significa paralisi e deficit di proposta si perdono pezzi.
    “L'eterodirezione serve a tenere insieme la ‘ditta' come dice Bersani evitando risse – sostiene ancora Salvati – da sempre e anche oggi nel Pd si combattono due linee, una più liberale l'altra più tradizionale e vicina ai sindacati. Riconducibili alla fine a veltroniani e dalemiani. Se il Pd scegliesse si spaccherebbe e per evitare questa spaccatura, da sempre ricorre all'esterno”.
    Così ecco il caso Fiat con il partito che evita la posizione comune, ma anche la resa dei conti restando così semplicemente diviso fra marchionnisti come Sergio Chiamparino, Walter Veltroni, Enrico Letta e non, come Bersani, saldamente sulla linea Camusso, sostegno al referendum nel nome del no, ma sperando nella vittoria dei sì. In modo tale da contenere le diverse posizioni.
    Questo clan unitario, pur nella rissosità interna, serve a mettere a fuoco anche altri aspetti: per esempio quel che resta del rapporto con i grandi personaggi dell'economia magari non ascrivibile alla categoria dell'eterodirezione, ma sicuramente a quella dell'attenzione. L'affievolimento della relazione fra Pd e poteri forti è confermata da qualunque osservatore ed esemplificata nel mutamento/indebolimento, uno per tutti, del rapporto con Mario Draghi. Le relazioni personali – one to one direbbero in gergo manageriale – invece resistono e condizionano soprattutto gli equilibri interni al partito, il gioco delle correnti, l'assetto oligarchico. D'Alema con Cesare Geronzi, Enrico Letta con Giovanni Bazoli e in qualche modo con Corrado Passera e perfino Marco Tronchetti Provera (che mantiene contatti con Nicola Latorre,) l'imprenditore romano Raffaele Ranucci con Veltroni, così come in un diverso contesto di influenza Scalfari/Mieli con Veltroni, al di là della reale efficacia e significato dell'endorsement servono a garantire la non prevalenza dell'uno sull'altro e la possibilità dei ritorni. Eterna, come si vede dalle reazioni opposte speculari di Bersani e Veltroni, al “surge et ambula” di Scalfari per quest'ultimo.
    Cene e convegnistica, dibattiti e presentazioni di libri mostrano la mappa delle relazioni. Qualche volta anche le gaffe. Come capitato a Sergio Chiamparino sindaco di Torino che nel 2008 inviò a politici e personalità locali il programma per gli ultimi tre anni di mandato senza accorgersi che il paper in questione portava il marchio della provenienza, lo studio del più importante avvocato di Torino Angelo Benessia, presidente della fondazione San Paolo. Dal punto di vista dei poteri forti, se un interesse resta, il rapporto è legato a una fiche da giocare per il dopo Berlusconi, quando sarà. E, secondo un retropensiero decrittato a bassa voce nelle analisi più disincantate, come uno scudo antropologico, un lavacro preventivo o una collocazione di sicurezza rispetto a eventuali sempre possibili collisioni con la magistratura.
    Anche con la magistratura il rapporto è flebile, riassumibile in un riguardo oggi facilmente gestibile vista l'estremizzazione dello scontro tra Berlusconi e la procura di Milano. Ma anche in questo caso la “direzione” è altrove. Perché lo scontro con Berlusconi è totale appannaggio di Ilda Boccassini e Edmondo Bruti Liberati. A questo va aggiunto anche un altro spunto di riflessione. Perché nel giro di 15 anni anche i magistrati hanno trovato referenti diversi e più forti di quelli del Pd, con cui mantengono rapporti accademici, a partire da Luciano Violante: Di Pietro, ovviamente, e un giornale, il Fatto, oltre al feeling storico e mai tramontato con Repubblica e con Micromega, e oltre alla fluida congerie movimentista già dei girotondi.

    Restano tracce relazionali in fenomeni di culturalizzazione: Antonio Ingroia procuratore dell'antimafia di Palermo che ha scritto sull'ultimo numero di Italianieuropei “Quale stato di diritto”, Bruti Liberati, che insieme a Violante compariva nel numero monografico sulla giustizia della stessa rivista, prima tuttavia di diventare capo della procura di Milano. Veltroni che affida lezioni presso la sua scuola di politica, Democratica a Piero Grasso procuratore nazionale antimafia e lancia Cantone dopo aver arruolato in passato un altro magistrato e scrittore, Gianrico Carofiglio. L'eterodirezione messa così appare una condanna. Confina con la subalternità e con l'ansia di legittimazione. Visibile per esempio nel rapporto con la chiesa e il Vaticano, altre temibili fonti culturali da inglobare, di cui tenere conto almeno con una candidatura o una citazione come Fassina con la Caritas in veritate. Con un riflesso culturale antico e ineliminabile la ricerca di quello che è bene pensare. Dice al Foglio lo storico Giovanni Sabbatucci: “Venuta meno l'ideologia e il welfare, capisaldi della sinistra, quale può essere la cosa con cui un partito di sinistra giustifica se stesso se non essere i migliori? In mancanza di una dottrina, la vulnerabilità alle suggestioni dei nuovi massimalismi e la glassa dei buoni sentimenti”. Una glassa che trova sbocchi mediatici e scorciatoie logiche per esempio negli elenchi di valori e icone associati senza la fatica del predicato verbale sperimentati da Fabio Fazio e ancora Saviano in “Vieni via con me” o nel sentimentalismo di Vendola, nella nostalgia scalfariana per il sogno veltroniano e più pericolosamente di Veltroni e degli altri leader per i vecchi se stessi.