Il sogno (sindacale) americano

Stefano Cingolani

Il modello americano che Sergio Marchionne vuol portare a Torino provoca irritazione e ripulsa da un capo all'altro dello spettro politico e sociale. Giampaolo Galli, direttore generale della Confindustria, gli preferisce il Modell Deutschland. Mentre il sociologo Luciano Gallino lo dipinge con tratti conradiani. “L'orrore, l'orrore”, nemmeno fosse il rantolo di Kurtz in “Cuore di tenebra”. Quel che suscita disgusto è l'aziendalismo e lo scambio, in pieno spirito mercantil-capitalistico, tra salario, occupazione e diritti.

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    Il modello americano che Sergio Marchionne vuol portare a Torino provoca irritazione e ripulsa da un capo all'altro dello spettro politico e sociale. Giampaolo Galli, direttore generale della Confindustria, gli preferisce il Modell Deutschland. Mentre il sociologo Luciano Gallino lo dipinge con tratti conradiani. “L'orrore, l'orrore”, nemmeno fosse il rantolo di Kurtz in “Cuore di tenebra”. Quel che suscita disgusto è l'aziendalismo e lo scambio, in pieno spirito mercantil-capitalistico, tra salario, occupazione e diritti. Insomma, il ciclo economico viene accettato, inevitabile come il destino. Ma siamo sicuri che il sistema americano sia tanto diabolico?

    Qualche fatto prima di trarre le conclusioni. L'ultimo, è proprio di questi giorni. Alla vigilia di Natale, Bob King, presidente di United Auto Workers, il sindacato dell'auto, ha lanciato la nuova campagna per il 2011. Fin da gennaio, partirà un'iniziativa su scala nazionale per portare il sindacato anche nelle fabbriche dove non è presente, in particolare negli stabilimenti giapponesi e tedeschi (Toyota, Honda, Nissan, Hyundai, Kia, Bmw, Mercedes, Volkswagen) ubicati per lo più negli stati del sud. King non lo farà da solo, né come pura iniziativa settoriale e corporativa: infatti, sta muovendo mari e monti per raccogliere consensi trasversali e politici. Ha aderito l'eterno reverendo Jesse Jackson con la sua Rainbow Coalition (King è un attivista democrat di lunga data), ma danno già il loro sostegno anche il sindacato dei braccianti, che organizza i lavoratori migranti, e quello del tabacco dato che King lo ha aiutato a penetrare alla Reynolds, in North Carolina.

    Tutto questo, perché sono in ballo non solo i contratti, ma i diritti dei lavoratori. Diritti? Non erano stati svenduti per un pugno di dollari? Forse, certo non lo saranno ancora per molto, sperano le union americane. Ma la Uaw non è l'archetipo del sindacato giallo e Bob King il suo profeta? Così, in Italia, ci era stata venduta la storia. Appena nominato, del resto, aveva sposato la cooperazione e non il conflitto. Educato dai gesuiti, tiene sempre in mente la dottrina sociale della chiesa. Figlio di un ex direttore delle relazioni industriali alla Ford, e laureato in legge, tende a considerare il punto di vista e gli interessi della controparte. Ma nel suo discorso di investitura ha detto chiaramente che la collaborazione è possibile solo con quelle aziende che consentono la rappresentanza sindacale e rispettano i diritti. Il referendum, spiega il sindacalista, è il momento della verità, per la base e per le imprese che tendono a manipolare le scelte dei lavoratori.

    Del resto, Bob King non è un mediatore di professione: nel 1996-97, durante gli scioperi dei giornali a Detroit è finito tre volte in galera per disobbedienza civile. E' stato accolto alla Uaw come un soffio di rinnovamento e spirito giovanile, nonostante abbia ormai i suoi 64 anni. Il predecessore, Ron Gettelfinger, ha pagato duramente la crisi e le concessioni alle quali è stato costretto per evitare il fallimento di Gm e Chrysler. Non a caso, scrive Steve Rattner, il salvatore dell'auto americana, Gettelfinger rifiutò di stringere le mani al rappresentante Fiat nella fase finale del negoziato. Un accordo doloroso, inevitabile, ma anche positivo. Lo ricorda King che si è fatto le ossa alla Ford e nel 2006 ha ingoiato il taglio di 40 mila dipendenti. Modello americano. Oggi Ford è la regina dell'auto, non ha chiesto soldi ai contribuenti, è tornata ad assumere e ad aumentare i salari. Che c'è di male? Magari accadesse anche alla Fiat, dove i livelli di occupazione sono crollati e con essi le buste paga, nonostante gli aiuti pubblici elargiti da tutti i governi. Modello italiano.

    E quello tedesco? E' per tutti sinonimo di cogestione, che però ha come pendant il bancocentrismo (Deutsche bank controlla Daimler), il potere delle autorità locali (la Bassa Sassonia è azionista Volkswagen), governi di coalizione i quali portano l'età pensionabile a 67 anni e aumentano la flessibilità del mercato del lavoro, ben prima della crisi. C'è un sistema industriale che aborre la microconflittualità tanto quanto il sistema economico respinge l'inflazione e quello politico impedisce crisi di governo “al buio”. Esiste qualcosa del genere in Italia?

    Sia il sindacalismo made in Usa sia quello made in Germany hanno nell'egoismo dei garantiti il loro lato oscuro. Gli accordi alla Volkswagen riguardano solo gli operai tedeschi (alla faccia dell'internazionalismo proletario). Alla Chrysler e alla Gm, gli americani hanno tagliato benefici (in particolare sanità e previdenza) e paghe agli ultimi arrivati. Ma l'Italia non può certo scagliare la prima pietra: le rigidità del posto fisso sono state pagate dal lavoro precario. Non esiste un sindacato che persegua davvero gli interessi generali. Meglio, dunque, se s'accontenta di far bene il proprio mestiere.

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