Quel dinamitardo di Dio

Edoardo Rialti

"Anche Dio fu un uomo della caverna”: questo, per Chesterton, costituiva il segreto e la sintesi del Natale, la sua sconvolgente rivoluzione. Chesterton amava tutto del Natale, a partire dagli aspetti più semplici come i cenoni familiari, i regali, i giochi, i festoni e i cappellini di carta che anche gli adulti inglesi indossano. Li amava proprio perché ridicoli, capaci di “scuoterci dalle nostre rigide abitudini”.

    Il Foglio sta pubblicando una "Chestertoniana" a puntate. Pubblichiamo la settima puntata dedicata al Natale. Le prime sei sono disponibili per gli abbonati nell'archivio pdf. Le prossime uscirano nel Foglio in edicola una volta alla settimana.

    “Se vale la pena fare una cosa, vale la pena farla male”.
        Gilbert K. Chesterton

    "Anche Dio fu un uomo della caverna”: questo, per Chesterton, costituiva il segreto e la sintesi del Natale, la sua sconvolgente rivoluzione. La storia umana era cominciata in delle caverne dipinte come quelle di Lascaux, che la vulgata vorrebbe piene di irsuti scimmioni intenti a picchiare le femmine con le clave, e che invece dimostrano solo che questo bizzarro “semidio o demone del mondo visibile” chiamato homo sapiens è sempre stato un artista? Ebbene anche Dio ha voluto cominciare la Sua storia su questa terra allo stesso modo della sua creatura: “La seconda metà della storia umana, che fu come una nuova creazione del mondo, comincia pure da una caverna”, e non era affatto un caso che “anche qui gli animali erano presenti”, perché a ben pensarci anche Dio da sempre, proprio come quei primi antichissimi artisti, “aveva tracciato strane forme di creature, colorate curiosamente, sulle pareti del mondo; ma alle sue figure aveva infuso la vita”, e ora almeno un paio di queste sue stesse invenzioni, con una prodigiosa inversione, lo scaldavano col loro fiato. Chesterton amava tutto del Natale, a partire dagli aspetti più semplici come i cenoni familiari, i regali, i giochi, i festoni e i cappellini di carta che anche gli adulti inglesi indossano. Li amava proprio perché ridicoli, capaci di “scuoterci dalle nostre rigide abitudini”, dal momento che, come scrisse in un articolo sul Natale del 1910, “la cosa importante nella vita non è mantenere un rigido sistema di piacere e compostezza (che si può facilmente ottenere indurendo il cuore o la testa) ma mantenere vivo in sé l'immortale potere dello stupore e del riso, e una sorta di giovane reverenza”.

    Ma quel che più lo affascinava era che il Natale è tanto familiare quanto rivoluzionario, anzi, rivoluzionario proprio perché familiare: vi si festeggia un imprevedibile e rivoluzionario “incastro”, per dirla con le parole del suo contemporaneo Charles Péguy, tra realtà, esperienze e immagini che la cultura occidentale dà per scontate proprio e solo perché dopo duemila anni, “siamo cristiani psicologi, anche se non siamo teologi”, e che proprio perché non scontate potrebbero scomparire, una volta smarrita la sorgente. Attorno alla grotta di Betlemme egli vedeva radunate tutte le forze, positive e negative, al centro della storia umana, che dal quel momento sarebbero state cambiate per sempre.

    Anzitutto il bambino nella mangiatoia. Egli sosteneva che “c'è differenza tra l'esser tirato su come cristiano ovvero come ebreo o musulmano o ateo. La differenza è che ogni fanciullo cattolico ha appreso dalle immagini questa incredibile coincidenza di idee contrastanti, come una delle prime impressioni della sua mente. Non è soltanto una differenza teologica. E' una differenza psicologica che può andare aldilà di ogni teologia”. Persino “ogni ateo o agnostico, che nella sua infanzia abbia veramente conosciuto il Natale, avrà poi sempre nella sua mente, voglia o non voglia, un'associazione di due idee che moltissima gente deve considerare come remote l'una all'altra: l'idea di un bambino e l'dea di una forza sconosciuta che regge le stelle”. Quindi “per lui avrà sempre un vago sentore religioso la semplice pittura di una madre con un bambino”. Per Chesterton “il bimbo è il simbolo e il sacramento per eccellenza della libertà personale”: è inerme, ma è una novità assoluta e irripetibile, che sfonda e sfida quanto lo precede, che chiede un'accoglienza che spesso disturba”, perché non c'è posto nell'albergo”. “La gente che preferisce i piaceri meccanici a quel miracolo, è rozza e schiavizzata”.

    Chesterton, che soffrì l'impossibilità di avere dei bambini, non ha mai nascosto il suo disprezzo e la sua rabbia per coloro che nella civiltà contemporanea preferiscono una vita di piaceri disimpegnati “a quella realtà che è l'unica fonte di ringiovanimento per una qualsiasi civiltà. Sono loro che si compiacciono delle catene della loro antica schiavitù; è il bimbo colui che è pronto per il nuovo mondo”. Costoro continuano magari senza saperlo la politica di Erode, “il re che guerreggiava contro i bambini”.
    Commentando la battuta di Scrooge in “Canto di Natale” di Dickens, in cui il vecchio avaro dà già voce a quella che sarebbe stata l'opinione corrente di tanti moderni, per cui la morte degli inermi può contenere l'eccesso di popolazione, Chesterton ribatteva che “quando un gruppo di sprezzantemente benevoli economisti guarda giù nell'abisso della popolazione in eccesso, c'è una sola risposta assicurata che bisognerebbe dare loro, ed è che se c'è un eccesso, quell'eccesso siete proprio voi”. E si trattava del ritorno sotto nuova forma di visioni antiche, perché il disprezzo e la violenza contro i bambini e gli inermi erano uno dei tratti più comuni di tante civiltà precristiane, magari molto civilizzate, contro cui secondo Chesterton i tratti migliori della civiltà greco romana e il giudaismo avevano già combattuto. Non è un caso che in tutte le fiabe e le leggende europee sia sempre presente “l'idea che le forze del male minaccino soprattutto l'infanzia”, e tuttavia non bisogna dimenticare che “nel mondo antico spesso i demoni vagarono liberamente, simili a draghi”.

    Basti pensare ai cartaginesi, che “appartenevano a una razza matura e perfetta, abbondante di lussi e di raffinatezza”. Eppure tale “popolo ultracivile si adunava effettivamente insieme per invocare sull'Impero la benedizione celeste gettando centinaia di bambini nella bocca di una fornace. Per avere un'idea approssimativa di questo fatto, si pensi a un gruppo di mercanti di Manchester, in cappello e cilindro e con le fedine a braciola, che vadano in chiesa ogni domenica alle 11 per vedere mettere arrosto un bambino”. Se una simile immagine ripugna, per Chesterton è soprattutto per quel che è accaduto una notte di 2010 anni fa. Con un Dio che si fa appunto bambino “è profondamente vero affermare che da quel momento non potevano esserci più schiavi” perché “gli individui acquistavano un'importanza che nessuno strumento poteva acquistare”. 

    Non ci sarebbe mai più potuto essere un potere che cancellasse il valore della persona, da quando l'ultimo dei nati sotto il grande censimento voluto dall'imperatore si rivelava essere Dio stesso: “Coloro che accusarono il cristianesimo di aver dato fuoco a Roma con delle torce erano assassini; ma erano assai più vicini alla vera natura del cristianesimo che non certi moderni i quali ci dicono che i cristiani erano una specie di società etica”. Queste parole di Chesterton saranno particolarmente amate da Hannah Arendt, che le riprenderà affermando da laica che “la fede e la speranza nel mondo trova la sua più efficace espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la lieta novella: ‘Un Bambino è nato fra noi'!”. Eppure questo divino valore della presenza di un bambino non era e non è scontata affatto: “Non è naturale mettere in relazione Dio con un infante più di quel che sia naturale rapportare la gravitazione a un gattino”. Tuttavia questa inaspettata relazione compiva uno dei più antichi aneliti dell'umanità, testimoniato da tutti i racconti mitologici sulle unioni tra gli dei e i mortali, o le leggende sui luoghi sacri abitati dal soprannaturale. Gli uomini antichi, come tutti i popoli con le loro tradizioni, “avevano capito meglio di tutti che l'anima di un paesaggio è una leggenda, e l'anima di una leggenda è una persona”. I pastori di Betlemme si trovavano a fronteggiare la realizzazione inaspettata di questa costante e confusa intuizione.

    “La mitologia è una ricerca – afferma Chesterton – e aveva molti peccati, ma non aveva avuto torto nell'essere carnale come l'Incarnazione”. Il grido di Enea, che nel poema di Virgilio lamenta di non poter “unir destra a destra e dire e unire vere parole” con gli dèi trova risposta nell'annuncio che “il Creatore fosse presente a scene alquanto posteriori ai conviti di Orazio, e parlasse cogli esattori delle tasse e cogli ufficiali del governo, nella vita quotidiana dell'impero romano”. Tale intuizione sarà la freccia che farà breccia nel cuore di un convinto “pagano moderno” come il giovane C. S. Lewis, che lesse queste riflessioni di Chesterton nel libro “L'uomo eterno” (siamo nel 1925) mentre si riprendeva dalla febbre di trincea della Prima guerra mondiale: a chi obietta con un sorrisetto che Cristo non sia altro che l'ennesimo mito, come Mitra o Dioniso, Chesterton ribatteva che “il popolino aveva sbagliato in tanti casi, ma non aveva sbagliato nel credere che le cose sacre possono avere un ricettacolo e che la divinità non disdegna i limiti del tempo e dello spazio”. Quando Lewis si convertirà al cristianesimo, attribuirà molto della sua decisione anche a quelle parole, perché “Cristo è un mito, con la tremenda differenza che è davvero accaduto”. E questa lettura della storia umana è ripresa oggi da un pulpito che a Chesterton avrebbe fatto immenso onore, quello di Benedetto XVI stesso: “Gesù non è un mito, è un uomo di carne e sangue […] e i miti hanno aspettato Lui, in cui il desiderio è diventato realtà”. I ricercatori di un Dio visibile se lo erano trovato davanti piccino e piangente, come nella più inattesa e bella delle fiabe, e Chesterton sorrideva al pensiero che fu così che “i pastori avevano trovato il loro Pastore”.

    Eppoi i tre re magi, a rappresentare l'altra grande spinta ricercatrice dell'umanità, assieme all'immaginazione mitico-poetica: la filosofia e la scienza. “La filosofia, come la mitologia, aveva l'aria di essere alla ricerca di qualcosa. E' la percezione di questa verità, che dà la sua tradizionale e misteriosa maestà alle figure dei tre re” ai quali la tradizione ha dato certi nomi, ma che “starebbero a rappresentare lo stesso ideale umano, se i loro nomi fossero realmente quelli di Confucio o di Pitagora o di Platone”. Quei tre re coronano di gloria ogni sincera ricerca umana. Anche in questo caso l'inaspettato capovolgimento dei ruoli – dei vecchi venerabili che adorano un bambino – mostra visibilmente e sensibilmente l'inaspettato compimento di quanto fosse più vero e nobile negli interrogativi umani. Il cristianesimo può rispondere all'umana sete di conoscenza di tutte le filosofie proprio perché propone “una filosofia più larga delle altre filosofie”. Salva la ragione proprio perché le offre quel “qualcosa” che essa stessa non poteva darsi, la “allarga” per usare un'espressione cara a Benedetto XVI. Ecco come mai secondo Chesterton il cristianesimo sarebbe sommamente ragionevole, perché “contiene ciò che il mondo non contiene. La vita stessa non provvede, come provvede la chiesa, per tutti i lati della vita.

    Che ogni altro sistema è angusto e insufficiente comparato a questo e che questa non è una vanteria retorica: ecco un fatto vero e un vero dilemma”. Chesterton sfidava a fare il raffronto: “Dov' è il santo bambino fra gli stoici e gli adoratori degli avi? Dov'è la Madonna dei musulmani, una donna non fatta per nessun uomo e posta al di sopra degli angeli? Dov'è il san Michele dei monaci di Budda?”. Il cristianesimo supera e vince “tutti i moderni tentativi di sincretismo. Essi non sono capaci di fare qualche cosa di più largo del credo senza lasciarne fuori qualche cosa. Non voglio dire qualcosa di divino, ma qualche cosa di umano”. Insomma, quando doveva sintetizzare perché valesse la pena che i rappresentanti di tutta l'umana saggezza si dovessero inchinare alla proposta che aveva i tratti di quel bimbo sconosciuto, Chesterton si limitava a dire che “in una parola, in essa c'è più roba”.

    Ma c'è ancora altro da festeggiare: “Cristo non soltanto era nato allo stesso livello dell'umanità, ma più in basso”, non solo socialmente, ma fisicamente, e in questa immagine “c'è un tratto di spirito rivoluzionario, come di un mondo capovolto” che non poteva affascinare la sua innata simpatia per tutti gli anarchici e i rivoluzionari. Altro che festa dei buoni sentimenti e del pacifismo: nella notte di Natale “c'era anche una sfida; qualche cosa che fa suonare bruscamente le campane a mezzanotte come i cannoni di una battaglia appena vinta”. Si trattava dell'inizio del “più grande disordine che ci sia stato al mondo”, per dirla sempre con i versi del contemporaneo Péguy. Anche Benedetto XVI ha parlato spesso della “rivoluzione di Dio”: per Chesterton questo voleva anzitutto dire che “la gioia della caverna era simile all'allegria di una fortezza o di una tana di briganti; intesa nel suo vero significato, non sarebbe impertinente dire che era l'allegria di una trincea” perché il segreto che si celebrava con quella nascita era “la rivolta – e una così oscura rivolta – contro un'enorme e inconscia usurpazione”, quella di tutti i poteri – di qualsiasi colore o casacca, ma sempre più o meno chiaramente ispirati dallo stesso tentatore – che a questo mondo ambiscono a prendere il posto di Dio nella vita dell'uomo.

    “Nel mistero di Betlemme era il cielo che stava sotto la terra” e da quel momento nessun dominio o sistema puramente terreno potrà mai più ambire a spacciarsi per celeste. Anche questa immagine si imprimerà nella coscienza e nel pensiero di Lewis, che a sua volta ribadirà nelle sue conferenze alla radio durante la Seconda guerra mondiale che “territorio occupato dal nemico: ecco cos'è questo mondo. Il cristianesimo è la storia di come il re legittimo è sbarcato – sbarcato, potremmo dire, in incognito – e ci chiama tutti a una grande campagna di sabotaggio”. Ecco la vera buona novella, il D-Day della più grande operazione di riscatto della storia umana. Sono le parole di Chesterton: nella nascita in quella grotta segreta, “c'è anche l'idea di un postazione avanzata, di una feritoia nella roccia, di un'apertura sul territorio nemico. C'è in questa divinità sotterranea come un'idea di minare il mondo”. Cos'altro poteva conquistare un uomo che, ne “L'uomo che fu Giovedì” aveva già scritto un intero romanzo sulla bizzarra scoperta che il misterioso capo di tutti gli anarchici fosse anche il capo di tutti i veri poliziotti? Un Dio non solo bambino, ma anche dinamitardo di tutti gli schemi e i sistemi che umiliano e imprigionano quanto l'uomo abbia già di prezioso, come la propria famiglia, i propri sogni, la propria sete di verità , e soprattutto “l'umana aspirazione a un cielo che sia letterale e locale come una casa”: per Chesterton valeva davvero la pena di festeggiare la più radicale delle rivoluzioni, “qualcosa che è troppo bella per essere vera, ma che è vera”. (7. continua)