Fini tra Salandra e Fanfani

Angiolo Bandinelli

"E' bello essere italiani", "la nostra patria", "le istituzioni politiche devono essere autorevoli", occorre "senso dello Stato", c'è bisogno di "servitori dello Stato" dediti al "bene comune" con "autorevolezza e buon senso delle istituzioni", "… il merito e le capacità…". Così, Fini in tv. Sì, forse un fantasma si aggira nei meandri di Montecitorio e della politica italiana; ha ancora un volto indefinito, ma a chi avesse il gusto del déjà vu potrebbe rivelare il profilo di Antonio Salandra.

    "E' bello essere italiani", "la nostra patria", "le istituzioni politiche devono essere autorevoli", occorre "senso dello Stato", c'è bisogno di "servitori dello Stato" dediti al "bene comune" con "autorevolezza e buon senso delle istituzioni", "… il merito e le capacità…". Così, Fini in tv. Sì, forse un fantasma si aggira nei meandri di Montecitorio e della politica italiana; ha ancora un volto indefinito, ma a chi avesse il gusto del déjà vu potrebbe rivelare il profilo di Antonio Salandra. Salandra è il politico che nel 1914 successe a Giovanni Giolitti come capo del governo e fece entrare in guerra l'Italia cogliendo il pretesto, o l'occasione, di quelle radiose giornate del maggio 1915 da cui fu sbaragliata la maggioranza parlamentare, giolittiana e attendista. Salandra fu poi sostenitore dell'ascesa al potere di Mussolini. Dovesse reincarnarsi, di quale figura politica di oggi prenderebbe le sembianze? Risposta possibile: proprio di Gianfranco Fini.

    Si tratta, ovviamente,
    più di una evocazione che di un punto di riferimento. Fini non è certo ansioso di gettare il paese in nuove guerre, ma certamente sta da tempo lavorando per apparire come l'erede naturale di quella destra di cui Salandra fu efficace esponente: conservatore ma non reazionario, liberale ma con prudenza. E non è questione di baffi o di solino: è questione di immagine, l'immagine dello statista (formato Salandra, più o meno). Senza perdere una occasione, una battuta, Fini lavora a costruirsela. Oggi, per dire, evoca “il senso della dignità e dell'onore” che dovrebbe informare di sé la classe dirigente di un paese, la “disciplina” e “l'onore” di cui parla un poco citato e conosciuto articolo della Costituzione, “dal sapore antico ma sempre straordinariamente attuale”, che dovrebbe essere il “presupposto etico prima ancora che politico” del buon governo. Espressioni che non sarebbero spiaciute ad uomo della destra storica: Salandra, appunto, per fare un nome.

    Il “Torniamo allo Statuto” di Sidney Sonnino voleva far regredire il paese a quando la Carta statutaria esprimeva il primato del re anche sul governo, prima che la prassi ne stravolgesse la configurazione introducendo in Italia, di fatto, il sistema parlamentare. E accanto all'estremista Sonnino ecco appunto Salandra, e poi Vittorio Emanuele Orlando. Sono i liberali che avalleranno o trasmigreranno nelle liste fasciste. Con mille riserve mentali, si capisce, però valide a suffragare la convinzione che, pur ricchi di dottrina, quegli eminenti personaggi mancassero di fiducia, o di fede, nella coscienza liberale dispiegata nelle istituzioni. Oggi, Fini compie il loro percorso all'inverso, dal fascismo a una stagione liberale, o liberalconservatrice, che coltiva e rilancia con cura ad ogni occasione: dal referendum sulla legge 40, quando annunciò che avrebbe votato “sì” su tre dei quattro quesiti, al testamento biologico, quando arrivò a definire quella approvata dal Senato e difesa dal trio Sacconi-Roccella-Quagliariello una legge “da Stato etico” (figurarsi, detto da lui…), oppure dando via libera ad un riconoscimento delle coppie di fatto o anche ricevendo alla Camera il Dalai Lama. La stampa berlusconiana parla di lui come un traditore, ormai acquisito alla sinistra. E certo c'è un terreno di transizione tra il moderato liberalismo di Fini e certe ambiguità di un Pd erede del togliattiano Pci.

    Però non esageriamo: al momento decisivo, quando si tratta di scegliere una combinazione elettorale che gli offra qualche chances, Fini fa capire di puntare (almeno fino ad ora) ad un troika assieme a Casini e a Rutelli: due cattolici che stritoleranno presto le velleità desanctisiane del presidente della Camera. L'errore, il difetto strategico di Fini è tuttavia più a monte: è pensare di poter incanalare certe sollecitazioni liberalconservatrici nell'alveo di un processo parlamentare attento e ossequiente alle ragioni e alle stagioni elettorali. Il suo liberalismo è destinato a restar prigioniero di un meccanismo sistemico che non gli permetterà di dispiegare la sua possibile potenza innovatrice. Tutto resta chiuso lì dentro, quando occorrerebbe un colpo d'ala sovvertitore e insieme ricostruttore. Se si vuole innovare dando vita a una stagione in qualche modo liberale occorre ripensare la storia degli ultimi sessanta anni con occhio ben altrimenti critico, poi agire in conseguenza. In un “Libro giallo” del 2008, i Radicali hanno riletto quella storia e vi hanno individuato il punto di rottura della ipotesi liberale, il punto d'avvio del sistema partitico italiano. Fin dal gennaio 1948, nel momento stesso della sua entrata in vigore, immediatamente inizia il processo di snaturamento e svuotamento della Carta costituzionale.

    I partiti cominciano ad impadronirsi del sistema politico e a cancellare lo Stato di diritto, con la negazione di fondamentali diritti civili e politici dei cittadini italiani. La nascente partitocrazia liquida l'afflato radicalmente riformatore, democratico, scaturito dalla sconfitta del neonazismo. Ne assume il lessico, ma ne svuota le strutture. Per quasi un quarto di secolo, gli italiani sono privati di due dei tre principali strumenti istituzionali previsti dalla Costituzione. Questa assegna ai cittadini il potere di partecipare all'attività legislativa attraverso tre tipi di voto: quello elettorale nazionale per le due Camere, quello elettorale regionale per le venti assemblee legislative previste dalla nuova suddivisione territoriale dello Stato, e infine quello referendario per vagliare ed eventualmente correggere, mediante l'abrogazione totale o parziale, leggi votate in Parlamento. L'attuazione delle regioni verrà approvata ventidue anni dopo, svuotandole di ogni significato innovativo. Il referendum venne concesso solo per consentire a Fanfani e al mondo clericale di sfidare il paese sul tema del divorzio. E sarà poi fatto funzionare dai radicali fin quando la Corte, nel '78, introdurrà regole interpretative che ne impediranno la corretta tenuta. Se si vuole innestare nel tronco della cultura politica italiana la “rivoluzione liberale” evocata da Benedetto Della Vedova, occorre farsi carico del superamento di questi ostacoli: una “rivoluzione liberale” o è strutturale o non lo è.