Elogio e difesa del manifesto ottobrista dalle accuse degli incontentabili

Angelo Mellone

Scusate ma non capisco questa diffidente alzata di spalle che qualcuno, parlo di quelli in buona fede ché degli altri chissenefrega, sta riservandoo al cosiddetto “manifesto di ottobre” che guarda con favore al varco aperto dal gesto di rottura politica di Gianfranco Fini. Rottura che, politicamente parlando, sta tutta dentro e non fuori il centrodestra ma che, ragionando in termini di cultura politica, può, potrebbe attivare processi – come si dice – inediti.

    Scusate ma non capisco questa diffidente alzata di spalle che qualcuno, parlo di quelli in buona fede ché degli altri chissenefrega, sta riservandoo al cosiddetto “manifesto di ottobre” che guarda con favore al varco aperto dal gesto di rottura politica di Gianfranco Fini. Rottura che, politicamente parlando, sta tutta dentro e non fuori il centrodestra ma che, ragionando in termini di cultura politica, può, potrebbe attivare processi – come si dice – inediti. Un manifesto politico che bussa ed entra nel dibattito pubblico, che costringe a farsi leggere senza effetti speciali e rodomontate mediatiche: questa è già una notizia. Ma la seconda notizia è ancora più eclatante, dal mio punto di vista: questo manifesto non è stato pensato su Repubblica o in qualcuno dei consessi intellectual as usual, ma in un altrove, un fuori onda, un nucleo di persone interessate al percorso politico-culturale della cosiddetta area finiana.

    Ovvero, ragionando con la cautela semantica del caso, è un manifesto che parte da destra e chiede a chi ci si vuole riconoscere: la res publica è a pezzi, ricostruiamo la res publica, riconnettiamo politica, etica e pensiero al di fuori delle banalità populistiche, chi ci sta è benvenuto. Banale? Tutt'il contrario: forse troppo impegnativo, considerato che il passaggio della classe intellettuale italiana dal protagonismo narcisistico alla perifericità odierna fa male alla politica stessa, sempre a rischio di ridursi a baruffa su quante tasse o quanti cassonetti.

    Che su un'esigenza e un'urgenza di questo tipo convergano personalità varie e variegate, fino all'altrieri almeno simbolicamente appartenenti a universi paralleli, bisognerebbe salutarlo come un evento benedetto e non, come pure qualcuno ha fatto, come una sorta di inciucio sui generis, indifferenzialista e vago al punto che “questo manifesto non si può non firmare tanto è generico”. Ogni tanto, anche l'atto in sé, il fare qualcosa, produce effetti e significati, e che esistano persone con storie, culture e probabilmente percorsi futuri molto differenti, ma uniti al momento dalla voglia di dire che lo stato del dibattito pubblico italiano è penoso, che non si può continuare a tirarsi in faccia palle di fango incartate con l'inchiostro e che, prima di fare conflitto, bisogna stabilire il perimetro della tenzone e soprattutto le regole, insomma, non è roba di poco conto.
    Probabilmente – probabilmente – tanti di coloro che hanno firmato pensano che l'attuale bipolarismo tra questa destra e questa sinistra malfunziona e ha generato poco dall'enorme carico di aspettative che accompagnava la “rivoluzione pacifica” del 1994. Probabilmente – probabilmente – tanti pensano, così come il nostro direttore nell'articolo di ieri, che “destra-sinistra è una nomenclatura estenuata e forse obsoleta, ma tuttora orientativa”, e che al momento non c'è nulla di meglio per collocare laicamente su una mappa gli assi e le coordinate del conflitto politico.

    E' ovvio che se uno vuole leggere con una dose eccessiva di malizia e un surplus politicista o addirittura partitico il contenuto del manifesto e le firme, le tante firme che lo hanno sottoscritto, è facile il giochino di chiedersi se si tratta degli “intellettuali di Fini”, o magari quanti di questi faranno squadra di candidati quando si andrà a votare. Prendiamo invece il buono di ciò che già esiste: la richiesta alla politica di deporre armi spuntate ma chiassose (comprese le armi di distrazione di massa talvolta assegnate in dotazione ai falchi del newsmaking), la proposta di un movimento collettivo di ri-produzione di un'etica comune. Considerati i tempi, già basta per essere contenti.