La lotta continua di Sergio

I veri obiettivi e i molti limiti della ruvida strategia di Marchionne

Ugo Bertone

Sergio Marchionne, come può testimoniare Sergio Chiamparino, suo avversario al tavolo da gioco, è un ottimo giocatore di scopone scientifico. Il suo affondo in tv, ospite di Fabio Fazio, sarebbe perciò un esempio di quello che Riccardo Ruggeri, l'ex manager del Lingotto che ha dedicato un saggio ai metodi bruschi dell'ad di Fiat, ha definito l'arte dello “spariglio Marchionne”: nel febbraio del 2009, quando il Lingotto sembrava destinato ad affogare nel mare della crisi, inventò l'operazione Chrysler.

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    Sergio Marchionne, come può testimoniare Sergio Chiamparino, suo avversario al tavolo da gioco, è un ottimo giocatore di scopone scientifico. Il suo affondo in tv, ospite di Fabio Fazio, sarebbe perciò un esempio di quello che Riccardo Ruggeri, l'ex manager del Lingotto che ha dedicato un saggio ai metodi bruschi dell'ad di Fiat, ha definito l'arte dello “spariglio Marchionne”: nel febbraio del 2009, quando il Lingotto sembrava destinato ad affogare nel mare della crisi, inventò l'operazione Chrysler. Oggi, alle prese con i problemi del mercato europeo, sposta il terreno del confronto sui “buchi” degli impianti italiani, non da ieri avari di profitti. Marchionne non è Machiavelli, replica chi lo conosce. Uno che – parola di Steven Rattner, luogotenente di Washington per l'auto – affronta il presidente Barack Obama, che gli chiede di investire anche quattrini oltre che tecnologia in Chrysler, gridandogli: “Ma mi prendi per un imbecille?”, non è capace di calcoli politici. Marchionne, insomma, è sincero sia quando promette di investire 20 miliardi in Fabbrica Italia, sia quando spiega che, se non si fa come vuole lui, Fiat se ne andrà. Comunque sia, un fatto è certo: Marchionne, che non è un ingenuo, era consapevole delle reazioni che avrebbero sollevato le sue parole in una trasmissione tv ad alta audience, che è cosa ben diversa da un convegno o un'assemblea di bilancio.

    La sua sortita ha un motivo:
    sbloccare la situazione, imponendo il caso Fiat, a pochi giorni dal contatto con il ministro Paolo Romani, al centro dell'attenzione generale, politici compresi. Meglio, insomma, la bocciatura del presidente della Camera, Gianfranco Fini (“Marchionne ha dimostrato di essere più canadese che italiano”) e i rilievi del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi (“Denuncia ruvida, non la condivido”) che il silenzio immobilista. Nessuna critica da Confindustria, anzi: “Marchionne non vuole lasciare l'Italia – dice il vicepresidente Alberto Bombassei – c'è qualcosa che nel paese va modificato”.
    Ma perché incalzare proprio adesso? Perché, per paradosso, i ritardi finora hanno fatto comodo ai conti Fiat, come dimostra la trimestrale.

    Il rinvio degli investimenti già previsti per il 2010  si è tradotto in minori spese per un miliardo di euro abbondanti, con effetti positivi sul debito del gruppo (meno di 4 miliardi contro i 5 previsti), a tutto vantaggio dell'operazione di spin off tra l'auto e le altre attività. Ma il quadro è destinato a cambiare presto: dal prossimo gennaio la Fiat sarà sola, senza poter più contare sulla stampella di Iveco (camion) e Cnh (trattori). Non solo. L'auto Fiat non può presentarsi all'appuntamento delle nozze con Chrysler, forse già entro la fine del 2011, senza poter garantire ai partner americani (il sindacato dell'auto, in primis) di disporre di nuovi prodotti e di nuove condizioni in fabbrica, che rendano possibile la “missione impossibile”, eppur prevista dal piano industriale presentato nello scorso aprile, di produrre (e soprattutto vendere) 1,4 milioni di veicoli sfornati dalle cinque fabbriche italiane.

    Per questo, meglio il sarcasmo di Fini (“ha detto una cosa naturale per un manager canadese, ma paradossale per l'amministratore delegato della Fiat che sta per  Fabbrica Italiana Automobili Torino”) o le bacchettate del ministro degli Esteri Franco Frattini (“non dovrebbe dimenticare che la Fiat è nata in Italia”) piuttosto che il silenzio, dicono al Lingotto. Certo, in questo modo non solo Marchionne si consegna alle bordate dell'opposizione che pure, a suo tempo, lo aveva incoronato a interlocutore principale dei progressisti, ma rischia di mettere in difficoltà i sindacati che più si sono spesi per il successo di Fabbrica Italia. A partire da Raffaele Bonanni che concorda con lui: Marchionne “ha irritato sia la maggioranza sia l'opposizione, vuol dire che ha colto nel segno”, ha detto il leader della Cisl. Bonanni sa però che, per contrastare l'offensiva degli irriducibili della Fiom (“l'amministratore della Fiat è sprezzante e arrogante” ha tuonato il segretario Maurizio Landini), è necessario che Marchionne riempia al più presto di contenuti concreti le sue promesse sugli stabilimenti e sui possibili aumenti in busta paga a fronte del recupero di produttività: non c'è partita se i sindacati non pregiudizialmente ostili si sentono “umiliati”.

    Facile prevedere, però, che già nei prossimi giorni la squadra Fiat presenti una tabella di marcia precisa, che coinvolga i vari impianti. Ma, al di là delle scelte tattiche, resta la logica dei numeri: il gruppo Fiat conta 250 mila dipendenti nel mondo, di cui poco più di un terzo in Italia. Oggi vende in Brasile lo stesso numero di auto che piazza in tutta Europa. E a Tychy, in Polonia (dove la fabbrica è cresciuta con gli stessi criteri che si vogliono importare in Italia), produce con 6.500 dipendenti lo stesso numero di vetture che fabbrica nei cinque stabilimenti italiani. Qualcosa, insomma, va cambiata. Il guaio, come sottolinea Ruggeri, è che le macchine non basta produrle: bisogna trovare chi le compra.

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