In attesa della giornata del risparmio

Solo una riforma delle fondazioni salverà le banche dai partiti

Angelo De Mattia

La giornata del risparmio, che sarà celebrata il prossimo 28 ottobre, sarà l'occasione anche per un check-up delle Fondazioni? Sarebbe auspicabile. Le fondazioni – che furono dette troppo precipitosamente ex bancarie – hanno dato un grande contributo al consolidamento del sistema creditizio dopo che, nei primi anni 90 del secolo scorso, quest'ultimo veniva presentato sulla stampa internazionale in una condizione agonica.

    Con questa analisi il commentatore economico Angelo De Mattia inizia la collaborazione con il Foglio. Sul ruolo e sul futuro delle fondazioni bancarie, in vista della Giornata mondiale del risparmio organizzata dall'Acri il 28 ottobre, il Foglio ospiterà gli interventi del presidente della Cdp, Franco Bassanini, del presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi, dell'economista Tito Boeri e dei vertici dell'Acri presieduta da Giuseppe Guzzetti.

    La giornata del risparmio, che sarà celebrata il prossimo 28 ottobre, sarà l'occasione anche per un check-up delle Fondazioni? Sarebbe auspicabile. Le fondazioni – che furono dette troppo precipitosamente ex bancarie – hanno dato un grande contributo al consolidamento del sistema creditizio dopo che, nei primi anni 90 del secolo scorso, quest'ultimo veniva presentato sulla stampa internazionale in una condizione agonica. La riforma della banca pubblica, caratterizzatasi quest'ultima per essere, in un tutt'uno, azienda bancaria e fondazione, aveva avviato il processo di privatizzazione che si affiancava alla deregolamentazione promossa dalla Banca d'Italia. Non si smantellavano le regole, ma si abbatteva l'amministrativizzazione del credito, sopprimendo i rischi di supergestione da parte dell'Organo di Vigilanza.

    La riforma, che reca tuttora il nome Amato-Carli, aveva scisso gli istituti in società per azioni e fondazione scorporante.
    Seguì una riorganizzazione bancaria straordinaria che trova un precedente solo in quella che avvenne negli anni 30, dopo la grande crisi e l'emanazione della legge bancaria del 1936. Per un parallelismo, va ricordato che nei primi anni 90 vi fu la crisi della lira, con la perdita di oltre 30mila miliardi di riserve, la quale rese necessaria una delle più dure leggi finanziarie della storia, quella del governo Amato, di circa 90 mila miliardi. Poi fu adottato il Testo unico bancario del 1993 che adeguò l'ordinamento alla seconda direttiva comunitaria.

    Alla fine degli anni 90 una disciplina articolata promossa dall'allora ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, regolò gli scopi e le attività delle fondazioni che avevano cominciato a uscire dalle proprietà bancarie, con un processo poi intensificatosi, anche se sono rimaste, in diversi casi, partecipazioni minoritarie di rilievo. All'inizio del governo Berlusconi nel 2001, il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, promuove una riforma delle fondazioni che le apre a una soverchiante ingerenza negli organi deliberativi, da parte degli enti territoriali. La Banca d'Italia segnala ripetutamente i rischi di una tale disciplina che potrebbe ledere la natura di “enti privati di utilità sociale” propria delle fondazioni e riverberarsi negativamente sull'autonomia delle banche. Resta inascoltata. Il mondo delle fondazioni reagisce. La normativa finisce davanti alla Corte Costituzionale che la fulmina per incostituzionalità. L'autonomia delle Fondazioni è salva. Tremonti avrà poi l'intelligenza politica di ammettere di aver sbagliato e di instaurare proficui rapporti con l'Associazione delle fondazioni – l'Acri – trovando una convergenza nella lungimiranza del suo presidente, Giuseppe Guzzetti.

    A 20 anni dalla legge Amato-Carli, a 17 dal Testo unico bancario, a dodici anni dalla disciplina Ciampi, con in mezzo una crisi finanziaria globale epocale, si impone una riflessione sul funzionamento del sistema enti territoriali-fondazioni-banche.
    Se ne è convinti proprio perché ci si è spesi nella difesa delle fondazioni e lo si prospetta nel loro interesse, innanzitutto per la salvaguardia della loro autonomia.

    La vicenda Unicredit, provocata da una serie di concause – dunque non è interpretabile con la sola ottica del comportamento delle fondazioni – è tuttavia un campanello d'allarme anche per la fisiologia del suddetto sistema. I problemi della patrimonializzazione degli istituti di credito conseguenti alla crisi, la necessità di assegnare in questa fase quote maggiori degli utili all'irrobustimento patrimoniale, quindi il possibile assottigliarsi delle disponibilità delle fondazioni da destinare agli istituzionali settori di intervento sollevano l'esigenza di una riflessione. La complessità di questa valutazione sta nella nota limitatezza del nostro mercato finanziario, nelle ovvie difficoltà – nelle condizioni dell'oggi – della cessione di diritti proprietari, nella pratica inesistenza di alternative valide ora individuabili in investitori istituzionali, di cui è nota la carenza, mentre le fondazioni proprio questa funzione dovrebbero continuare a svolgere. Il contesto si aggrava per i problemi della spesa pubblica e le difficoltà di sostenere quei settori ai quali è elettivamente diretta l'attività delle fondazioni. Esse, allora, saranno sempre più chiamate a operare – pur con i problemi indicati – in un contesto di sussidiarietà e di responsabilità sociale.

    E tuttavia esiste il rischio oggettivo di una “territorializzazione” delle fondazioni, nel senso che su di esse – come le vicende recenti segnalano – si può protendere la longa manus della politica-partitica territoriale, pretendendo di configurare – come emerge in alcune dichiarazioni leghiste – gli enti di utilità sociale quale cinghia di trasmissione verso le banche delle loro scelte e delle loro designazioni. Sta in ciò il problema dell'autonomia delle fondazioni strettamente correlata all'autonomia delle banche. L'una è condizione dell'altra. La prima è il presidio perché non ritornino, sotto mentite spoglie, i processi lottizzatori delle banche pubbliche o quelli che sarebbero stati consentiti dalla disciplina poi drasticamente bocciata dal Giudice delle leggi. Non è che alle fondazioni siano preclusi i diritti dell'azionista. Ma è sull'accennato cordone ombelicale che occorre riflettere per arrivare a definire criteri di nomina, requisiti professionali e di esperienza, criteri per la gestione delle rappresentanze nelle fondazioni e per le designazioni, da parte di queste ultime, nelle banche. Deve rimanere ferma l'incompatibilità tra membro degli organi della fondazione e membro di quelli della banca. Anzi, dovrebbe espandersi il regime delle incompatibilità.

    Non si tratterebbe di smobilitare un'architettura che ha retto, ma che ora presenta qualche incipiente scricchiolio: “principiis obsta”. Si tratta, invece, di difendere il disegno originario espungendone i rischi ed evitando che dall'accusa (infondata) di autoreferenzialità o di autocefalia delle fondazioni si passi a quella di subalternità a scelte politico-partitiche. E' opportuna, necessaria, una revisione. L'escogitazione istituzionale, frutto di una lunga riflessione, in verità soprattutto della Banca d'Italia e di numerosi e autorevoli giuristi, può reggere ancora, a patto che non si metta la testa sotto la sabbia precludendosi una laica analisi dei rischi e apprestando la necessaria panoplia.