Freddie, il mattoide che ha inventato la vuvuzela e la chiama “il bambino”

Francesco Viola

L'uomo che sta facendo impazzire le nostre orecchie con le famigerate vuvuzelas vive in una villetta cinquanta chilometri a est di Johannesburg. Il posto si chiama Tembisa e quando si entra a casa di Freddie Maake istintivamente verrebbe voglia di strangolare questo signore di 55 anni, uno stambecco nero che di mestiere fa in pratica il tifoso di calcio, rivendica di aver inventato lui l'orrenda trombetta, nel lontano 1965, e di essere disposto anche a farsi arrestare se a qualcuno venisse in mente di proibirla.

    L'uomo che sta facendo impazzire le nostre orecchie con le famigerate vuvuzelas vive in una villetta cinquanta chilometri a est di Johannesburg. Il posto si chiama Tembisa e quando si entra a casa di Freddie Maake istintivamente verrebbe voglia di strangolare questo signore di 55 anni, uno stambecco nero che di mestiere fa in pratica il tifoso di calcio, rivendica di aver inventato lui l'orrenda trombetta, nel lontano 1965, e di essere disposto anche a farsi arrestare se a qualcuno venisse in mente di proibirla. La prova dell'invenzione sarebbe un clacson in alluminio per biciclette che Maake mostra orgoglioso. “Ecco – dice – questa è la prima vuvuzela che è stata creata nel mondo. Conservo ancora l'originale. Avevo dieci anni, mio fratello più grande mi aveva comprato una bici e insieme questo, che non è il solito campanello. Io lo staccavo quando andavo a giocare a calcio con i miei amici per strada ”.

    Sarebbe iniziato tutto così. In un villaggio del Limpopo, una zona nel nord del Sudafrica al confine con lo Zimbabwe. Quando Freddie si trasferisce a Johannesburg porta con sé il clacson staccando però la pompetta. “Andavo a vedere le partite del campionato nazionale – racconta – mettendo in tasca questo attrezzo; poi lo tiravo fuori, lo mettevo in bocca e cominciavo a suonare. Gli spettatori intorno a me impazzivano, già all'inizio degli anni Settanta era un successo”. Maake segue ogni partita dei Kaiser Chiefs, una squadra di Johannesburg, ma alla fine degli anni Ottanta le autorità gli proibiscono di portare dentro gli stadi quello che definisce il suo “bambino”. Così convince un amico, Peter Rice, figlio di un imprenditore, a creare una tromba di plastica.

    Oggi la sua casa, dove vivono ancora quattro dei nove figli,
    è una specie di museo di storia della vuvuzela: c'è quella che ha portato in Zimbabwe per la prima partita del Sudafrica dopo l'apartheid (la polizia, sostiene, non voleva farlo partire con quello strano oggetto in mano) e anche quella che gli è servita al Mondiale in Francia dove l'hanno spedito quelli della Federazione come simbolo dei supporter sudafricani. Per gli scettici sono pronte le foto sul tavolo. Ne ha inventate decine, dalla terrificante vuvuzela lunga un metro e mezzo che, dice, arriva dentro le orecchie del giocatore (“così in campo si scatena”) a quella baby, che emette un suono simile al pianto di un neonato. Una perversione. L'uomo sostiene di aver insegnato persino ai rivali storici degli Orlando Pirates come si usa: “Bisogna fare come una pernacchia prolungata, se si soffia non esce niente”.
    Ma essendo il personaggio un po' mattoide, l'affare della vita gli è sfuggito. Oggi oltre quaranta aziende sudafricane sfornano decine di migliaia di vuvuzelas al giorno. Poco fuori Jo'burg una fabbrica di lavorazione della plastica guidata da Leonard Roletti, un sudafricano di origine italiana, si è rapidamente convertita nella produzione delle trombette. E così tante altre. Il leader è un signore di Città del Capo, un certo Van Schalkwyk, che da ottobre ne ha vendute quasi cinque milioni e per il quale Maake prova una particolare antipatia. “Vorrei portarlo in tribunale – dice – perché sulle trombette ha messo il marchio Vuvuzela Originale. Lo trovo insopportabile. Quella vera si trova qui”.

    Freddie (detto anche Saddam proprio dal nome dell'ex dittatore iracheno per cui prova un'inquietante e inspiegabile simpatia) da anni vende pure un'altra diavoleria, che è un cd musicale in cui il barrito della vuvuzela fa da sottofondo all'inno nazionale e altre canzoni dedicate ai giocatori. Quando fa partire lo stereo sembra di essere in tribuna. Per lui è un flauto dolce e delicato. “Basta non metterla accanto all'orecchio – consiglia – e non usarla quando ci sono gli inni nazionali, nessuno è mai andato in ospedale”. Nella stanza da letto c'è la trombetta che sta usando per i Bafana, una missione. “Ho avuto tre donne. E tutte le volte abbiamo divorziato. Nessuna di loro sopportava la mia malattia per il calcio e soprattutto il suono delle vuvuzelas dentro casa. Sono scappate”. Quando ricorda le litigate gesticola, sbuffa, fa gestacci. Cosa volete che gli importi adesso delle ex mogli? Per un mese intero il suo bambino tiene in scacco il mondo.