La bolla del salmone e il grande bluff sul Pinot nero fan saltare il banco

Giulia Pompili

E' la bolla del salmone. Le azioni della Marine Harvest norvegese, l'allevatore più grande al mondo di salmoni, sono schizzate in alto del 400 per cento dal gennaio 2009, a memoria di analista una performance mai eguagliata nemmeno dall'oro o dal petrolio. Il prezzo del salmone dall'inizio dell'anno – e siamo soltanto al 19 febbraio – è salito del 21 per cento. E l'anno scorso era già gonfiato del 33 per cento.

    E' la bolla del salmone. Le azioni della Marine Harvest norvegese, l'allevatore più grande al mondo di salmoni, sono schizzate in alto del 400 per cento dal gennaio 2009, a memoria di analista una performance mai eguagliata nemmeno dall'oro o dal petrolio. Il prezzo del salmone dall'inizio dell'anno – e siamo soltanto al 19 febbraio – è salito del 21 per cento. E l'anno scorso era già gonfiato del 33 per cento. Tutta colpa degli allevamenti del Cile, colpiti da una malattia ittica che sta devastando la produzione. Nel 2008 i cileni producevano 403 mila tonnellate di salmoni d'allevamento, ora la loro capacità è crollata a un quarto: quest'anno, scuotono la testa gli analisti di mercato, “saranno fortunati a quota 90 mila tonnellate”.

    Secondo il giornale color salmone della City, il Financial Times, ora alla Norvegia toccherà fornire il 70 per cento di quel milione e mezzo di tonnellate di pesce pregiato richieste dal mercato globale ogni anno. Non ce la può fare, è chiaro sin da ora. Sjur Malm, analista di borsa al Seb Enskilda norvegese, commenta l'incredibile inversione di marcia: “Non si era mai visto al mondo il declino nella produzione di un bene alimentare, e sta succedendo su un mercato dove la gente è disposta a spendere di più e ancora di più per acquistare – dice Malm – ci aspettiamo una diminuzione di disponibilità del sei per cento l'anno nei prossimi anni”.

    Con il tonno il mercato internazionale cade anche peggio. Su Foreign Policy gli esperti parlano di “peak tuna”, espressione modellata sul concetto catastrofista di “peak oil”: come con il petrolio, la capacità massima di estrarre tonno dai mari è alle nostre spalle, ora non resterebbe che il declino. Colpa dei giapponesi, che ingoiano l'ottanta per cento della produzione mondiale sotto forma di sushi. Un boccone di pinnablu nigiri ricavato dal ventre tenero del tonno, ricco di grassi e capace di lasciare un delicato retrogusto dopo essersi sciolto in bocca, a Tokyo si vende a venti dollari. Il prezzo è abbastanza alto da comandare in tutto il mondo a flottiglie di pescherecci e a un esercito di pescatori di rastrellare pinnablu nei mari fino al Mediteraneo. Ma la corsa sta finendo. Il mese prossimo a Doha, nel Qatar, la comunità internazionale si riunisce per la Conferenza sul commercio di specie a rischio e il principato di Monaco è deciso a provare il blitz e a dichiarare il tonno pinnablu specie in via di estinzione e quindi da proteggere con un divieto di commercio.

    Ci avevano già provato la Svezia nel 1992 – tentativo fallito per l'opposizione di Canada e Stati Uniti, che con le loro navi forniscono le tavole giapponesi – e il Kenya nel 1994, costretto a ritirarsi perché il Giappone è anche un gran donatore di aiuti al paese africano e che volete, dicevano, pure toglierci il sushi di bocca come ringraziamento? Quest'anno Francia e Italia, nazioni pescherecce, sono d'accordo con il divieto (gli Stati Uniti non si sa, non hanno ancora capito esattamente quale dipartimento interno deve occuparsi del problema). Conseguenza ovvia: ciascuno dovrà mangiare il pinnablu che pesca da sé. Male per i grandi consumatori, malissimo per il Giappone.

    Sentore di truffa, retrogusto amaro
    Alla scarsità dei pesci s'accompagna – e sì che è un vecchio problema – anche la carenza di vini. Ieri a Carcassonne un tribunale francese ha condannato dodici  persone colpevoli di avere guadagnato sette milioni di euro con uno schema semplice: tra il 2006 e il 2008 hanno venduto agli americani un vino da 45 dollari spacciandolo per Pinot Noir da 90 dollari. Tredici milioni e mezzo di litri, diciotto milioni di bottiglie ma “nessuno s'è mai lamentato, c'erano comunque proprietà simili al Pinot Noir”, hanno provato a difendersi, e il vino spedito in America era “irreprensibile”. “Un sentore di frode, con un retrogusto amaro”, ironizzavano ieri i commentatori, che però poi si sono fatti seri: “Una delle più grandi truffe della storia del vino”. Gli ispettori di stato hanno capito che qualcosa non quadrava: quelli esportavano oltremare più Pinot Noir di quanto se ne produca ogni anno nel Languedoc, la regione del vitigno. Il gigante del vino californiano, E.&J. Gallo, è tra i grossisti truffati: ora è delusissimo e ha già sospeso le vendite. L'orgoglio nazionale francese, caduto poi su un prodotto così di classe ed “europeo”, è devastato. Ma anche l'idea di mercato illimitato ne esce malconcia.

    • Giulia Pompili
    • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.