A. A. alla zagarella

Nicoletta Tiliacos

Quella famosa “gita a Chiasso”, metafora arbasiniana del necessario rimedio a certi ritardi di una cultura italiana riottosa a guardare al di là del proprio tinello, finì per prendere le decisive mosse da Palermo. Lì, dal 3 al 5 ottobre del 1963, all'Hotel Zagarella – che subì cattiva fama più tardi, per via della foto dei cugini Salvo con Andreotti  – nacque il Gruppo 63: “Una piattaforma o confederazione generazionale”, racconta lo stesso Arbasino nella Cronologia del suo Meridiano Mondadori.

    Quella famosa “gita a Chiasso”, metafora arbasiniana del necessario rimedio a certi ritardi di una cultura italiana riottosa a guardare al di là del proprio tinello, finì per prendere le decisive mosse da Palermo. Lì, dal 3 al 5 ottobre del 1963, all'Hotel Zagarella – che subì cattiva fama più tardi, per via della foto dei cugini Salvo con Andreotti  – nacque il Gruppo 63: “Una piattaforma o confederazione generazionale”, racconta lo stesso Arbasino nella Cronologia del suo Meridiano Mondadori, composta da “trentenni già con buone posizioni professionali ma decisi ad approfittare del primo ‘boom' italiano dopo secoli per le ricerche sperimentali di qualità, e non per sfruttamenti di mercato o bottega”.
    Tra quei trentenni c'era il critico letterario Angelo Guglielmi, che più tardi avrebbe diretto la terza rete televisiva. Al Foglio, Guglielmi dice di considerare Arbasino “il maggiore scrittore italiano della seconda metà del Novecento e unico italiano, con Carlo Emilio Gadda, ad avere connotati europei. Cosa davvero rarissima, nella nostra Italia provinciale e domestica. Eppure è meno tradotto di tanti altri, per esempio di Moravia, perché Arbasino è l'inventore di uno straordinario linguaggio che per la sua forte ricchezza sintattico-lessicale risulta intraducibile. Un po' come capita a Gadda e a Céline. Nella lingua di Arbasino confluiscono la parola colta e quella dialettale, gerghi e modi di dire, neologismi e arcaismi, tanto da costituire un continuum sonoro assolutamente sorprendente. E' una lingua limpida e sporca, nemica del bello scrivere dei rondisti, così pulito e senza suono!

    E' che Arbasino opera dentro una tensione culturale
    che si nutre di conoscenze rimaste a lungo iniziatiche, in Italia, e che anche grazie agli Arbasino sono arrivate fino a noi”. Per questo, continua Gugliemi, “l'intera cultura italiana gli deve molto. Arbasino contribuisce in maniera determinante a avvicinare la cultura italiana a tematiche e strumenti – penso alla linguistica, allo strutturalismo, al formalismo di Sklovskij – che nel resto d'Europa erano frequentati e maneggiati fin dai primi anni del secolo”. E' questo che rimprovera Arbasino alla cultura italiana? “Sì. Le rimprovera di essere una cultura ritardata e attardata, cresciuta lateralmente, all'oscuro e estranea a quel clima di novità ideologiche e culturali, a quella spregiudicatezza del sentire che aveva già prodotto Proust, Joyce e Musil. Qui da noi si trascinava ancora la tradizione miserella dell'Ottocento, tra intimismo e ritrattismo, e si trascurava il grande Leopardi che, nello ‘Zibaldone', scriveva che l'importante della poesia non è quel che dice ma nell'energia che ti dà (divenne poi il motto del Gruppo 63). E' qui, in questa sua insufficienza e distrazione, che si riassume il deficit della cultura italiana. Che poi, quando sembra riuscire a fare propri i temi della modernità, non tarda a volgerli in caricatura”.

    In quella che Guglielmi definisce “la povertà italiana” c'erano però alcune punte: “Gadda e, prima di lui, Svevo e Pirandello. Scrittori di assoluto livello, che avevano non solo partecipato ma dato un contributo essenziale al rinnovamento stilistico-strutturale della letteratura europea del Novecento. A secolo avanzato, oltre la sua metà, quando quegli scrittori erano dimenticati o comunque vittime di letture sbagliate, nasce il Gruppo 63”. Erano ancora anni, racconta Guglielmi, “di neorealismo piangente e tronfio, mediocre e domestico; si imponeva la necessità di pensare a una nuova idea di letteratura”.
    Di pensare a una nuova idea di romanzo, innanzitutto: “Il romanzo con un inizio, una coda e uno svolgimento nel mezzo, dicevamo tutti (Arbasino per primo), era ormai un ferrovecchio. La realtà aveva bisogno di essere affrontata con altri strumenti. Con l'apriscatole del realismo passepartout di Moravia, si chiedeva Arbasino, o non piuttosto mimando, come Musil o Broch, la crisi e le contraddizioni del nostro tempo?”.

    Arbasino torna sulla questione nel capitolo dedicato a Stravinskij in “Marescialle e libertini” (Adelphi). Del compositore russo scrive: “Come Proust, è stato fra i primi a capire che in un'epoca come il Novecento si costruisce comunque con materiali sintetici, inautentici; e il solo corridoio di salvataggio passa per il pastiche, in quanto atto creativo-critico originale di invenzione ‘sopra' e ‘meta'”.
    Indicare “corridoi di salvataggio” fu quindi la funzione del Gruppo 63, che “secondo Italo Calvino – ricorda Guglielmi – è l'ultima novità che la letteratura italiana abbia proposto nel secolo passato. Un secolo che non è affatto finito e continua la sua corsa ormai stanca fino agli anni presenti”. Da lettore e da critico, Guglielmi concorda sul fatto che sia “Fratelli d'Italia” “la grande opera di Arbasino, più volte riscritta e arricchita. Ma non è ‘la sola' opera, come qualcuno intende. Altre, numerose altre, altrettanto geniali, abbiamo letto e goduto. Semplificando, direi che l'attività di Arbasino comprende almeno tre fasi. Il primo Arbasino, quello delle ‘Piccole vacanze', aveva come punto di riferimento e di fuga il neorealismo italiano”. La prova letteraria d'esordio di Arbasino “è un libro straordinario, in cui per la prima volta viene portato alla letteratura (e lo sarà ancora di più in seguito) il mondo della borghesia ricca e snob.

    Ma non è in questo che risiede il suo maggiore significato e il suo valore. ‘Le piccole vacanze', più che i fatti, raccontano tutto ciò che è dietro a quei fatti. Ricorda il bellissimo ‘Racconto di capodanno', che chiude la raccolta? Lì non si arriva mai a parlare di capodanno, ma di dove passarlo. Se a Roma, come raggiungerla? In treno o in macchina? E se in treno, un primo appuntamento potrebbe essere a Firenze, magari ci si potrebbe incontrare in stazione, ma c'è chi insiste per la macchina: l'ha appena comprata, non sa guidarla ma vuole provarla, che sciocchezza! Non è meglio per quest'anno che ognuno lo passi nella propria città? Telefonate da Ginevra e Parigi, contrarietà, pareri opposti, orari di treni e aerei, appuntamenti, luoghi in cui incontrarsi ecc. ecc.: è un'altra realtà, non è la finta realtà all'ingrosso su cui lavoravano i neorealisti”.

    Poi, dice ancora Guglielmi, “arriva il grande periodo creativo: l'‘Anonimo lombardo', ‘Fratelli d'Italia', ‘Super-Eliogabalo', uscito nel 1969, ‘La bella di Lodi'”, pubblicato a puntate sul Mondo nel 1960 ma uscito in volume nel '72. Il mondo che quei romanzi riflettono, dice Guglielmi, “è ancora quello della media o buona borghesia. Ma a essere festeggiato è sempre e solo il linguaggio. L'‘Anonimo lombardo', per esempio, è un romanzo epistolare marcato da un'invenzione linguistica spettacolare: è come se le parole si accorgessero di essere insufficienti, di non bastare. E allora si fanno duplicare da un corteo senza fine di citazioni (da testi i più imprevedibili) in funzione di rinforzo e potenziamento ma anche di contestazione e beffa. L'effetto è gagliardo, di gioco persecutorio senza condono”.

    Con “Fratelli d'Italia”, spiega Guglielmi, “nasce il romanzo conversazione
    , in cui spunta l'uso del parlato, grande invenzione arbasiniana poi rimbalzata al centro della narrativa di Tondelli e di tanti altri scrittori, fino a oggi. Si tratta però di ricreare, non di riprodurre passivamente il suono della lingua parlata, scrive Arbasino. Di inventare sulla pagina il sound del linguaggio parlato che riporta al grande blocco della letteratura emotiva di Céline”. I personaggi del romanzo “agiscono in uno scenario italiano già in dissoluzione: quanto più si agitano, tanto più promuovono la loro fragilità. Sono personaggi che nascondono la disperazione dietro la frivolezza. Colti e attivi: lavorano alla Scala o in altre imprese culturali, ma la loro attività si sviluppa in una prospettiva di pura ‘consumazione'. Si consumano per intero dentro le pagine e per sempre. Sono personaggi violentemente tragici, e se una evidente ironia circola per tutto il romanzo, attenzione: Arbasino non ironizza su di loro ma sul linguaggio con cui li rappresenta”.
    Quell'ironia poi “incattivisce e trapassa nel duro grottesco di ‘Super-Eliogabalo'. Grande baraccone che ricorda il kolossal in costume hollywoodiano, un grandioso cabaret di cartapesta, tra circo e luna park, in cui si ammucchiano tutti i titoli e le modalità del Kitsch, scatenando una tempesta di parodia che travolge tutti e tutto. E poi c'è ‘La bella di Lodi. Ovvero – sono parole di Arbasino – la metafora della nuova Italia opulenta e cafona, nella quale la borghesia ricca ‘si scopa il proletariato sull'autostrada del Sole appena aperta e poi se lo sposa per non doverlo pagare'. Dopo – prosegue Guglielmi – c'è la terza fase del lavoro di Alberto. Quello di ‘Fratelli d'Italia' era già un paese detestabile e pronto a diventare inaccettabile. Ma contava ancora personaggi straordinari (Gadda, Longhi, Contini, Palazzeschi – gli amati – insieme a pochi altri), e vantava punti di ricerca culturale di forte pregio (Arbasino cita il Mondo di Pannunzio, la rivista Paragone, il Gruppo 63), un grande teatro (Strehler) e un grande cinema (Antonioni). Poi, in poco più di un decennio, tutto crolla e si spegne. Più nessun personaggio straordinario, niente più cinema e teatro, in letteratura si torna al romanzo ‘ben fatto' d'antan”. E' a quel punto, dice Guglielmi, che “Arbasino perde ogni stimolo, ogni giustificazione a continuare a scrivere romanzi, a attivare la visionarietà (che è alla base del narrare). Si fa quindi testimone critico e severo del tempo immiserito che scopre tutt'intorno, raccogliendosi per intero nell'attività saggistica, pur praticata con gli strumenti e la scioltezza del narratore”.

    Non che Arbasino non scriva più romanzi (nel 1974 esce “Specchio delle mie brame”), ma “si impegna più a riscrivere. Lo fa perché, lo dice lui stesso, nessuna opera è mai finita. Le parole sono segreti e riscrivere serve a scoprire ancora un po' di quel che nascondono (tanto più questo vale per ‘Fratelli d'Italia', dove la misura è sempre in bilico, affidata a effetti pericolosi). Come non sentire il bisogno di continuare a controllare e a ritarare l'‘effetto torta', con le pagine che crescono come un dolce costruito a strati e sempre sul punto di tracimare oltre l'orlo? E come non tornare a sincerarsi degli equilibri dell'‘effetto elenco' (per mezze pagine, e alle volte pagine intere, si inseguono e si accumulano decine e decine di nomi di oggetti, di persone e d'altro) di cui il romanzo fa grande uso e che si prestano a malintendimenti e equivoci? Concepiti come strumenti per ‘ricaricare' il linguaggio e adattarlo a una nuova musicalità, vengono intesi come superfluità esibizionistiche”.

    Di “diciotto chili di panna” sulla torta parlò il direttore di Studi cattolici,
    Cesare Cavalleri, nella sua stroncatura della riscrittura di “Fratelli d'Italia”, nel 1993. “E lo stessso Pampaloni – aggiunge Guglielmi – pur rispettabilissimo critico, non amava gli eccessi di Arbasino e definiva le sue opere ‘performance da notte brava', alludendo in particolare ai ‘Fratelli' e ancor più indispettito dal non amore di Arbasino per gli scrittori italiani degli anni Trenta”. Più ancora che alla riscrittura, “questa terza fase del lavoro di Arbasino è però dedicata alla saggistica, ai suoi tanti ‘Paese senza', lucide e impietose radiografie dell'anima del Bel Paese, delle sue ipocrisie, della sua indifferenza, della sua viltà, della sua mediocrità. Ecco, forse soprattutto della sua mediocrità e della sua dabbenaggine”. E' l'Arbasino moralista? “Sì, ma certo non nel senso di un fastidioso rompiscatole. Il suo moralismo è il rispetto di se stesso e il senso della regola cui intona la sua vita”. E poi ci sono i viaggi di conoscenza: “Alberto non manca mai a nessuna grande prima teatrale e di musica, in qualunque parte del mondo si svolga. E di lì dottissime corrispondenze. A leggerle, confesso, a volte mi capita di provare un senso di stanchezza, perché fanno riferimento a cose di cui non ho conoscenza ed esperienza, e mi sfuggono i nessi. Ma quando quegli articoli tornano raccolti in un libro, allora tutto mi diventa chiaro, perché riflettono e scoprono il contesto generale in cui si inseriscono, dal quale prendono luce e chiarezza”.

    Se dovesse concentrare in una battuta l'intero percorso di Arbasino
    , il critico – e amico – Angelo Guglielmi direbbe che “fino a un certo punto, a fronte dell'impoverimento progressivo della realtà (forse non solo italiana), Arbasino ha opposto l'ottimismo della creatività. Poi, a disgrazia definitivamente avvenuta, la responsabilità della denuncia”. Oppure, “appropriandomi di un'affermazione di Paolo Milano, direi: il demone insidioso del dottissimo Arbasino è la frivolezza. Torna alla memoria la splendida definizione di Proust: la frivolezza è uno stato violento”.