Guerra globale commerciale

Macché allarme clima, a Copenhagen si decide chi guiderà l'economia

David Carretta

Dietro alla guerra di cifre e procedure da inserire nell'accordo globale sul cambiamento climatico a Copenaghen, si nasconde una battaglia che ha poco a che vedere con il clima, ma dal cui esito dipende chi comanderà l'economia mondiale del Ventunesimo secolo. Da un lato, la Cina si tiene le mani libere sulle emissioni e manovra i paesi dell'Africa, per svincolarsi da potenziali obblighi che minerebbero la sua crescita. Dall'altra gli Stati Uniti non intendono concedere a Pechino un irragionevole vantaggio competitivo.

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    Dietro alla guerra di cifre e procedure da inserire nell'accordo globale sul cambiamento climatico a Copenaghen, si nasconde una battaglia che ha poco a che vedere con il clima, ma dal cui esito dipende chi comanderà l'economia mondiale del Ventunesimo secolo. Da un lato, la Cina si tiene le mani libere sulle emissioni e manovra i paesi dell'Africa, per svincolarsi da potenziali obblighi che minerebbero la sua crescita. Dall'altra gli Stati Uniti non intendono concedere a Pechino un irragionevole vantaggio competitivo. In mezzo, l'Europa paga già un prezzo costoso, nell'illusione di far sopravvivere la sua economia con il business della tecnologia pulita. Intanto, i paesi poveri si fregano le mani sognando centinaia di miliardi di aiuti, mentre Brasile, Russia e Congo vogliono capitalizzare i polmoni del pianeta che sono le loro foreste.

    Ma, alla fine, è tra Cina e America che si gioca la partita economica di Copenhagen, come dimostra lo stallo di queste ore. Pechino dice “no” alla richiesta di Washington di monitoraggio internazionale delle emissioni cinesi. “E' una questione di principio”, ha detto il negoziatore He Yafei. Eppure il monitoraggio è una delle condizioni del Congresso per dare il via libera a un nuovo trattato: l'America non accetterà un accordo che non protegga l'industria americana da concorrenti stranieri non obbligati a rispettare norme globali sulle emissioni, hanno avvertito dieci senatori democratici. Così, per i due più grandi inquinatori al mondo, il dopo-Kyoto potrebbe essere vuoto come il Protocollo di Kyoto. L'ultima bozza di accordo messa sul tavolo ieri dalla Danimarca non contiene alcun obiettivo in cifre: nulla sulla riduzione delle emissioni, né sui finanziamenti ai paesi in via di sviluppo.

    Oltre ai miliardi di dollari, in ballo ci sono punti di pil. I cinesi “sono i migliori negoziatori al mondo”, dice al New York Times Barbara Finamore, direttrice del Natural Resources Defense Council. Pechino, con la sua offerta di ridurre l'aumento del CO2 del 40-45 per cento per unità produttiva entro il 2020, si garantisce un ampio margine per far crescere la sua economia senza il problema emissioni. Nel frattempo, manovra l'Africa: la minaccia africana di abbandonare Copenhagen se non verrà preservato il Protocollo di Kyoto serve a sancire il principio che i paesi in via di sviluppo – Cina inclusa – non siano vincolati sul clima e siano risarciti finanziariamente per i danni passati delle nazioni industrializzate. Washington però, lavora a una norma per imporre tariffe contro chi non ha gli stessi standard ambientali americani.

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