Gita nella teocrazia liberale

Antonio Gurrado

“We don't do God”, non trattiamo Dio. Il reporter di Vanity Fair che nel 2003 tentò di interrogare esplicitamente Tony Blair riguardo alla sua fede cristiana assistette all'inedita scena dello spin doctor Alistair Campbell che si frapponeva fisicamente fra intervistatore e intervistato per zittire il primo ministro, in maniera tale da impedirgli di fornire una qualsiasi risposta che secondo lui avrebbe finito per danneggiare l'immagine del Labour indipendentemente dal contenuto.

    “We don't do God”, non trattiamo Dio. Il reporter di Vanity Fair che nel 2003 tentò di interrogare esplicitamente Tony Blair riguardo alla sua fede cristiana assistette all'inedita scena dello spin doctor Alistair Campbell che si frapponeva fisicamente fra intervistatore e intervistato per zittire il primo ministro, in maniera tale da impedirgli di fornire una qualsiasi risposta che secondo lui avrebbe finito per danneggiare l'immagine del Labour indipendentemente dal contenuto. Mentre la domanda sulla fede personale di Blair ha trovato col tempo una risposta chiara – che però è arrivata solo dopo il termine del mandato – lo spettro della risposta “I'm sorry, we don't do God” ha continuato ad aleggiare sulla politica inglese causando reticenze, risposte arzigogolate e non pochi imbarazzi da parte di politici e commentatori posti di fronte alle tante possibili sfaccettature di una domanda ben precisa: l'Inghilterra ha una politica religiosa?

    La prima e più banale risposta arriva dalla storia. Com'è noto l'Inghilterra – ma non l'intera Gran Bretagna – gode di una established Church, ossia di una Chiesa istituzionale il cui governatore supremo coincide con il monarca ma il cui principale ruolo religioso è ricoperto dall'Arcivescovo di Canterbury. In nessun altra grande nazione dell'Occidente l'istituzione politica e l'istituzione religiosa sono così strettamente collegate. Per quanto ampie porzioni di territorio britannico si siano via via distaccate dal primato di Canterbury, l'intreccio fra Stato e Chiesa resiste saldamente da secoli ed è stato storicamente considerato un fondamento della teoria politica inglese. Nel 1736, per esempio, il mordace vescovo di Gloucester William Warburton pubblicava un'Alleanza fra Chiesa e Stato allo scopo di difendere dagli attacchi dei liberi pensatori la test-law, ossia il criterio di attribuzione della cittadinanza in base alla fede religiosa del suddito.

    Per quanto démodé, Warburton è indicativo di come l'intreccio fra Chiesa e Stato in Inghilterra non fosse comunemente inteso quale reciproco asservimento quanto come garanzia dell'indipendenza di entrambi: “Lo Stato, non prendendosi cura delle anime, non ha possibilità di ingerire nel campo della religione e quindi cerca l'aiuto della Chiesa; la Chiesa, non avendo potere coercitivo poiché le sue cure non sono rivolte ai corpi, ha naturale interesse a vagheggiare protezione da parte dello Stato”. Rispetto al 1736 sono cambiate meno cose di quante ci si possa aspettare, se non altro a livello istituzionale.

    Il procedimento che ha portato dall'Alleanza fra Chiesa e Stato di Warburton al “we don't do God” di Alistair Campbell è stato principalmente un mutamento psicologico nella sensibilità collettiva dei sudditi inglesi e ancor più nella percezione dell'elettorato da parte della classe politica.
    L'autorevole columnist del Guardian Polly Toynbee, interrogata dal Foglio, conferma che la brusca risposta di Campbell era in realtà frutto della “lunga tradizione di politici britannici che hanno separato recisamente la fede privata dall'azione pubblica”. Le due cose, spiega, non sono interdipendenti né l'elettorato le percepisce come tali. “Pur evitando di prendere posizione riguardo alla propria fede personale, ad esempio, Blair ha favorito l'incremento del numero delle scuole religiose, aumentate del 30 per cento nel corso del suo governo: e si trattava di scuole che facevano capo tanto alla Chiesa d'Inghilterra quanto alla Chiesa Cattolica, con una significativa percentuale di scuole islamiche”. E' dunque plausibile che l'elettorato approvi una maggiore apertura ai servizi pubblici di natura religiosa ma al contempo sia istintivamente ostile alla manifestazione del credo privato? “Be', basti pensare che le scuole religiose applicano una selezione degli alunni su criteri informali, quindi molte famiglie della middle class si sforzano di frequentare la propria chiesa finché non riescono a ottenere l'ammissione dei propri figli nella scuola. Dopo di che smettono: infatti il tasso di presenza costante dei fedeli britannici in un luogo di culto è in caduta libera, raggiungendo una media del 12 per cento se si considerano tutte le confessioni”.

    E' interessante notare come alla stessa domanda arrivi una risposta opposta – perfino in termini numerici – da Andy Flannagan: “Le ultime rilevazioni testimoniano che il 71% degli Inglesi si definisce Cristiano, quindi non è plausibile che una larga parte dell'elettorato respinga automaticamente la mera menzione della fede in politica”. La vita pubblica di Flannagan, personaggio affascinante, ruota tutta intorno a questa convinzione. Medico, cantante e laburista, Flannagan dirige il Christian Socialist Movement (www.csm.org.uk), un think-tank affiliato al Labour che si propone di costituire “una coscienza profetica nel partito e una voce profetica nelle chiese” traducendo in impegno politico un mandato religioso che si fonda sulla consapevolezza che “siamo chiamati a seguire Dio amando i poveri, proteggendo le vedove, i rifugiati, gli orfani e opponendoci fieramente a ogni tipo di ingiustizia, piccola o grande”.

    La grande sfida di Flannagan consiste nel conquistare la fiducia di un elettorato sospettoso che “in politica la religione possa essere strumentale a far leva sul credo individuale”. Se Toynbee punta il dito sul calo di presenze nei luoghi di culto, Flannagan sottolinea invece che le giovani generazioni tendono a non iscriversi più a nessun partito a causa di un deficit motivazionale che dipende anche dalla “capacità di distinguere chiaramente la fede ipocrita di alcuni politici da una fede saldamente fondata su valori concreti”. Parrebbe quasi che Flannagan si proponga di controbilanciare la reticenza di Campbell. Il CSM tratta Dio, e come: il suo sito fiorisce di riferimenti alla Bibbia e cita a piene mani non solo Gesù Cristo ma anche figure di secondo piano come Mica e Amos. “Tuttavia quello che cerchiamo di fare”, spiega Flannagan al Foglio, “è di non tirare in ballo Dio a ogni occasione possibile; vogliamo solo patrocinare una politica che corrisponda ai valori diffusi del Regno Unito dicendo però chiaramente da dove derivano, in contrasto con lo sproposito di presunti valori contemporanei dalle origini decisamente non chiare”.

    Non deve sorprendere che un movimento interno a un partito di sinistra proclami di perseguire una politica sociale fondata su principii religiosi. Polly Toynbee, che della sinistra è spesso giudice più che severa, ricorda che “i socialisti cristiani hanno una notevole tradizione in quanto il Labour è originariamente figlio del metodismo”. Ciò nondimeno, tranquillizza, “si tratta di un'innocua minoranza senza alcun peso”. E' dunque il caso di cercare di stabilire dove finisca l'effettiva ostilità dell'elettorato nei confronti di un politico troppo caratterizzato religiosamente e dove invece inizi il timore ingiustificato del politico stesso. Un recente articolo dell'Economist (“Missionary positions”, 27/11/09) citava oltre al CSM ben due think-tank conservatori che testimonierebbero il crescente influsso della sfera religiosa nella politica inglese. Il più rinomato è il Centre for Social Justice presieduto da Iain Duncan Smith, leader dei Tory dal 2001 al 2003 e, come messo in risalto dallo stesso Economist, “fervente cattolico”.

    Lo scorso 20 novembre Duncan Smith ha pubblicamente definito il CSJ non tanto un “think-tank” quanto un “do-tank”, poiché piuttosto che di produrre teorie politiche si vanta di coordinare oltre 150 associazioni benefiche in uno sforzo sociale senza precedenti (va però specificato che il sito del CSJ riporta altrettanto orgogliosamente il titolo di “think-tank of the year” insignito dal mensile Prospect). Il più recente è invece Res Publica, che è stato inaugurato lo scorso 26 novembre e che pur dichiarandosi tecnicamente apartitico ha già incassato l'esplicito interesse di David Cameron. Il suo fondatore Philip Blond, teologo di formazione e teorico del new conservatism, mira piuttosto ambiziosamente a “un capitalismo fondato sulla reciprocità e su uno scambio libero, aperto e onesto” che sia frutto di un complessivo ripensamento della politica britannica – tanto che lo slogan di Res Publica è “cambiare i termini del dibattito”. Un cattolico e un teologo, secondo l'Economist, dovrebbero garantire un chiaro afflato religioso all'impegno sociale patrocinato dai due think-tank e una maggiore differenziazione della fede fra i Tory, così che, come ci conferma Polly Toynbee, “la Chiesa d'Inghilterra non sia più il partito Conservatore inginocchiato a pregare”. Dovrebbero insomma, estremizzando, “do God”. Resta però paradossalmente proprio fra i conservatori una maggiore reticenza al riguardo.

    Philippa Stroud, direttrice del CSJ, con estrema gentilezza ma altrettanta fermezza preferisce non esprimersi sull'eventuale afflato religioso sottostante all'impegno di Duncan Smith per una “reazione decisa alla progressiva e inveterata degenerazione sociale della Gran Bretagna” né sull'eventualità che un politico dichiaratamente cattolico possa venire ritenuto da molti conservatori orgogliosamente membri della Chiesa d'Inghilterra un valido garante del peso della fede, sia pure differente, nell'azione politica. Leggendo e rileggendo l'unico ma densissimo discorso di Philip Blond, allo stesso modo, è chiaro che la sua strenua tensione verso “uno stato finalmente civile, un mercato finalmente morale e una società finalmente comunitaria” giace su un sostrato di pensiero religioso colto e ben ancorato alla realtà concreta. Pare tuttavia che il teologo abbia convogliato ogni suo sforzo su uno slalom arditissimo per evitare di citare Dio o qualsiasi altro tema religioso anche una sola volta, ascrivendo il proprio impegno per “il bene comune” a una “radicale trasformazione” del partito che tenga conto non di fondamenti morali o tradizioni religiose ma esclusivamente della propria stessa storia politica: “nel suo passato più nobile il conservatorismo si è preso cura del mondo e di chi lo abita”.

    Non è da escludersi dunque che la reticenza dei politici rispetto alla religione vada ascritta soprattutto a un eccesso di prudenza culturale. Parrebbe testimoniarlo anche un recente editoriale dell'Observer (“A subtle champion of the faith”, il 22 novembre scorso) che elogia la “cauta diplomazia” dell'arcivescovo di Canterbury in contrasto con lo stile di Benedetto XVI, colmo invece di scelte nette che dividono anziché unire. Proprio in quanto esponente di una chiesa istituzionale e come tale necessariamente politica, argomenta l'Observer, Rowan Williams ha il compito di essere un'autorità morale riconoscibile da tutta la nazione e non solo dai membri della sua Chiesa, facendo sì che il suo atteggiamento venga “apprezzato da chi ha una fede differente o da chi non appartiene a nessuna confessione”. Il paradosso di un arcivescovo che di fronte all'opinione pubblica deve ergersi a garante (anche) degli atei può essere ritenuto il correlativo oggettivo della crescente timidezza politica in materia di fede. È come se l'ateismo inglese oggettivamente dilagante – talmente dilagante da pretendere uno spazio apposito in “Thought for the day”, trasmissione religiosa di BBC4 – avesse via via sottratto istituzionalità alla Chiesa d'Inghilterra ergendosi a interlocutore sotterraneo delle autorità politiche.

    Una controprova deriva proprio dai contenuti della politica religiosa inglese così come la si può evincere dai programmi del CSJ, di Res Publica e del CSM. Contrariamente a quanto accade in altre nazioni – come gli Usa o l'Italia – in cui la religione viene citata soprattutto in menzione della politica su nascite, famiglie e morti, in Inghilterra l'impegno religioso più o meno esplicito verte quasi esclusivamente sul comportamento verso i meno abbienti. Il CSJ si caratterizza anzitutto come coordinamento di associazioni benefiche; Res Publica delinea il new conservatism sul dovere di “prendersi cura della collettività”; solo il CSM rivendica un “impegno radicale per appianare ogni ingiustizia sociale” che si esplicita tanto nel “dettare un'agenda politica” quanto nell'“incontrarsi con regolarità per pregare”.

    Ora, per venire incontro ai bisogni del prossimo è necessaria la fede? Polly Toynbee si dice certa di no e sciorina statistiche che dimostrano come “le associazioni di volontari siano spesso composte soprattutto da gente che non va in chiesa”. Lo stesso Andy Flannagan ammette di buon grado di conoscere molti “atei compassionevoli” – usando forse maliziosamente lo stesso aggettivo spesso associato al new conservatism di David Cameron, mai così attento alle classi più deboli. Allora cos'è che distingue la sua visione da qualsiasi altra solida politica sociale? “L'assoluta certezza che la Gran Bretagna avrebbe una società migliore se ogni individuo lasciasse dentro di sé un po' più di spazio per Dio. Senza il senso di una grande storia, senza lo sforzo di perseguire il bene comune, tendiamo tutti a un individualismo i cui effetti sono divenuti chiari nel corso degli ultimi trent'anni. In tutto il mondo, delle comunità si impegnano per il mutuo sostegno sociale; ma queste idee riescono a fiorire solo e soltanto quando hanno per pietra di paragone la grande storia della speranza apportata dal Cristianesimo, l'unica benzina capace di far percorrere – come dice il poeta – the road less travelled, la strada meno battuta. La degenerazione consumistica ed egoistica è così forte che la si può combattere solo con principi comuni basati su valori profondi ed eterni.” Flannagan è un professionista e un artista che si proclama prestato alla politica per mero altruismo, quindi si permette termini così espliciti perché non ha un bacino elettorale al quale renderne conto. Nella sua risposta brilla il valore aggiunto del laburismo cristiano del CSM, un po' ingenuo e un po' visionario ma sicuramente più entusiasmante di mezze parole e imbarazzati silenzi: Andy Flannagan does God.