Il global warming è una grande fonte di rendite economiche

Carlo Stagnaro

Ci sarà un economista a Copenaghen? Se ci fosse, probabilmente non sarebbe a proprio agio, di fronte ai toni ora apocalittici, ora messianici di questi giorni. Non sarebbe colpito favorevolmente dallo spot con la bambina che sogna un mondo a metà strada tra il pianeta Tatooine e l'era post atomica di Mad Max. Preferirebbe le vecchie, noiose, rassicuranti cifre: i numeri che alimentano i suoi modelli e che dai suoi modelli sono prodotti. Quando si parla di clima, gli economisti ci tengono a precisare che di scienza non si occupano.

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    Ci sarà un economista a Copenaghen? Se ci fosse, probabilmente non sarebbe a proprio agio, di fronte ai toni ora apocalittici, ora messianici di questi giorni. Non sarebbe colpito favorevolmente dallo spot con la bambina che sogna un mondo a metà strada tra il pianeta Tatooine e l'era post atomica di Mad Max. Preferirebbe le vecchie, noiose, rassicuranti cifre: i numeri che alimentano i suoi modelli e che dai suoi modelli sono prodotti. Quando si parla di clima, gli economisti ci tengono a precisare che di scienza non si occupano. Prendono per buone le previsioni degli scienziati, e nel dubbio fanno i pessimisti. Non sempre, per la verità: sul blog Noisefromamerika.org, Aldo Rustichini (University of Minnesota) ha passato al setaccio le evidenze sul riscaldamento. L'ex capo economista dell'Ocse, David Henderson, ha sostenuto su “World Economics” che è sbagliato ignorare il dibattito scientifico, perché si finisce per sottovalutare le incertezze: un tema sottolineato anche da Vaclav Klaus, economista più che  politico (“Pianeta blu, non verde”, IBL Libri). E ieri, sul Messaggero, Alberto Clò ha invitato a non considerare l'ambiente una “variabile indipendente”, come si faceva una volta per i salari.

    Queste possono apparire posizioni estreme. Estreme sono pure le tesi di George Reisman: poiché il riscaldamento globale è (al massimo) una colpa collettiva dell'umanità, va considerato alla stregua di “un atto della natura” (“Perché l'ambientalismo fa male all'ambiente”, Rubbettino). All'opposto, stanno quelli per cui l'anidride carbonica è un gas satanico. Ma è nel mezzo che bisogna guardare. La maggior parte degli studiosi sono convinti che esista un problema climatico e che si possa fare qualcosa per affrontarlo. Solo che il “consenso” guarda con rassegnata disapprovazione ai negoziati internazionali. Su una cosa tutti concordano: tagliare le emissioni coi vecchi criteri del “command and control”, come vorrebbe fare in America l'Environmental Protection Agency, non è un'opzione, in punto di efficienza.
    Quanto al resto, il partito degli economisti studia tre variabili: i costi del riscaldamento globale, e i benefici presunti di un minore riscaldamento; i costi dell'abbattimento della CO2; gli effetti di equità ed efficienza.

    E' opinione diffusa che la soluzione migliore, per ridurre le emissioni senza danneggiare la crescita economica, sia una carbon tax il cui gettito sia utilizzato per ridurre altre imposte più distorsive, in modo da contenere la pressione fiscale. Lo statistico canadese Ross McKitrick propone di agganciare la carbon tax alle temperature misurate, in modo da agganciare il clima reale agli sforzi per salvarlo. I politici, invece, preferiscono gli schemi di “cap and trade”, nei quali viene fissato un tetto alle emissioni, lasciando alle imprese la possibilità di scambiare dei permessi e allocare le riduzioni dove costa di meno. Sistemi più facilmente orientabili. Il problema del cap and trade è duplice: da un lato la scarsa trasparenza, che finisce per drenare risorse dall'economia reale verso intermediari finanziari resi necessari da un'architettura tutta politica. Dall'altro, la volatilità dei prezzi della CO2 (in Europa, da quasi zero fino a 30 euro e ritorno) disincentiva gli investimenti. Per questo, fin dal seminale lavoro di Martin Weitzman del 1974, è accettato che, in un contesto di incertezza sui costi marginali, uno strumento di prezzo (la carbon tax) viene preferito a uno strumento di quantità (il cap and trade) se la curva dei costi marginali è relativamente più ripida di quella dei benefici marginali. E' il caso del global warming: limitare le emissioni costa molto, ma ha un beneficio minimo, perché il riscaldamento dipende dallo stock di CO2 accumulato in atmosfera, non dal flusso annuale.

    Ugualmente importante è stabilire gli obiettivi corretti: fissare l'asticella troppo in basso può essere insufficiente, ma fissarla troppo in alto è peggio. William Nordhaus, il “decano” tra gli economisti del clima, suggerisce di cominciare con una blanda carbon tax (7 dollari per tonnellata di CO2) e farla crescere gradualmente. Sarebbe così possibile raggiungere il miglior equilibrio tra i costi del riscaldamento globale (inevitabili) e quelli delle politiche per contrastarlo. Al contrario, politiche troppo ambiziose – come quella che Nordhaus definisce “politica Gore” – potrebbero avere impatti devastanti: il costo netto cumulato potrebbe arrivare a ventunomila miliardi di dollari  (“A Question of Balance”, Yale University Press). Viceversa, il “business as usual” (cioè “non far nulla”) ha un costo ambientale superiore, ma non di molto, rispetto all'impatto economico della “politica ottima”: con la differenza che l'uno è incerto, l'altra ha costi economici certi nell'immediato e benefici ambientali incerti nel futuro. Fare di più non è la stessa cosa che fare meglio.

    Del resto, i difensori del cap and trade privilegiano gli argomenti politici. Contro la carbon tax, Paul Krugman ha scritto che “è distruttivo denunciare un programma che possiamo avere [il cap and trade]… a favore di qualcosa che forse non può materializzarsi in tempo per evitare il disastro”. Una sorta di elogio della ragion politica a scapito della purezza intellettuale. Eppure, la maggior parte degli economisti resta convinta del contrario, come dimostra l'impressionante lista raccolta da Greg Mankiw di Harvard sul suo blog sotto l'ironico ombrello del “Pigou Club” (dal nome dell'economista che per primo ha proposto le tasse ambientali per internalizzare i costi esterni). E pesa l'ammonimento di Dieter Helm, voce molto ascoltata a Bruxelles e aperto sostenitore dell'urgenza di “fare qualcosa”, che ha avvertito, dall'autorevole pulpito della Oxford Review of Economic Policy: il riscaldamento globale “sarà probabilmente una delle più grandi fonti di rendite economiche” della storia. Se un economista fosse a Copenaghen, direbbe queste cose. Ma non lo ascolterebbe nessuno.

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