I padri del Novecento non hanno saputo educare i figli al desiderio, tranne qualche singolare testimone.

Redazione

Si può usare il caso Polanski – e insomma la cronaca – per parlare di paideia, come suggerisce Giuliano Ferrara? Certo che sì, e anzi un modo per rivitalizzare la tradizione culturale è quello di metterla a contatto, financo ruvidamente, con le nevrosi e i dilemmi della contemporaneità.

di Filippo La Porta

    Si può usare il caso Polanski – e insomma la cronaca – per parlare di paideia, come suggerisce Giuliano Ferrara? Certo che sì, e anzi un modo per rivitalizzare la tradizione culturale è quello di metterla a contatto, financo ruvidamente, con le nevrosi e i dilemmi della contemporaneità. A patto però di estrarre il caso Polanski dallo specifico della pedofilia o del reato sessuale e di collegarlo al più ampio tema della crisi di civiltà. Da cosa si origina questa crisi? Esiste una sterminata bibliografia in proposito ma sarei tentato di sintetizzare così la risposta: dal fatto che l'uomo contemporaneo è incapace di “fermarsi”, e anzi non vede perché dovrebbe farlo (si tratti della soddisfazione immediata di un istinto o della sperimentazione sull'embrione), e in nome di cosa (di Dio? di un ordine metafisico? dell'utilità collettiva? della felicità del maggior numero?).

    A questo punto visto che si cita Platone anch'io userò un classico,
    un po' più recente, e spero in modo non del tutto abusivo. In Dante il peccato nasce proprio dal non sapersi fermare, dall'indiscrezione e dall'esibizione, dall'oltrepassare un limite, dal giustificare ogni impulso: la prima anima dannata che incontra nell'inferno è quella di Semiramìs, “ché libido fé licito in sua legge” (Inferno, canto V), che cioè trasformò il proprio desiderio incestuoso in legge dello stato. Mentre nella terza cantica Sardanapalo non rinuncia a “a mostrar ciò che 'n camera si puote” (Paradiso, canto XV), a esibire con jattanza quello che il pudore suggerisce di nascondere. Ora, qualcuno potrebbe obiettare che Dante era un “reazionario”, che sognava la restaurazione del potere imperiale, uno spirito mistico interamente immerso nel medioevo, con il suo sistema metafisico di certezze granitiche, ben lontane dalla sensibilità moderna. Eppure un grande teologo come Romano Guardini ci invita a considerare che la “Divina Commedia” non assomiglia propriamente a un poema religioso. Di Dio vi si parla con molto riserbo e soprattutto al suo centro troviamo non tanto una esperienza religiosa quanto – lucidamente – “fatti” e “conseguenze”.

    Lo stesso aldilà, lungi dall'essere orrorifico come nel mondo pagano, si presenta come il luogo dove appare ciò che l'uomo è diventato (attraverso le sue decisioni). E' infatti qui, sulla terra, che si decide della nostra esistenza eterna! Nell'oltretomba è contenuto il mondo terreno, benché in una sua forma perfetta e definitiva, come sottolineò il più grande esegeta dantesco, Erich Auerbach. Aggiungo che Dante concede pochissimo all'idea di pulsioni cieche e irresistibili. In questo è razionalista: dipenderà sempre da noi, dalla nostra volontà razionale, consentire o no all'impulso (“di ritenerlo è in noi potestate”).

    Bene, torniamo a Polanski. Perché avrebbe dovuto “fermarsi” quella notte, di fronte a una ragazzina di tredici anni, nella fiabesca villa di Jack Nicholson? La lussuria in sé non c'entra nulla ed è – come ho già accennato – solo maschera di una questione che riguarda la nostra epoca. Oggi l'intera cultura di massa ci spinge continuamente a non trattenerci mai, ad appagare tutti i desideri, a riconoscere qualsiasi limite come intollerabile censura: “Do it” (“Fallo”), recita la Nike, mentre lo slogan dell'Ikea è “Vivere a modo tuo!”. Perché, ad esempio, dovrebbero “fermarsi” i genitori dei bambini di Rignano Flaminio che interrogano i loro figli ad oltranza, per strappargli qualche morboso segreto sulla loro intimità ferita? Perché dovrebbe “fermarsi” chi abusa del potere che gli dà il suo ruolo professionale (sia egli un medico o un politico)? Dante può aiutarci a trovare una risposta e a tentare di fondare la morale in un modo non moralistico.

    Ci si dovrebbe “fermare” non per un imperativo categorico della coscienza
    o per obbedire a un qualche principio (e neanche solo perché lo vietano le leggi) ma perché altrimenti sentiremmo di entrare nella irrealtà; per restare al nostro caso, irrealtà del rapporto con una minorenne (viziato da macroscopica asimmetria) o, in generale, irrealtà della gestione di un potere che almeno per un attimo ci inebria con un senso ingannevole di immortalità. Nel purgatorio dantesco i sette peccati capitali nascono tutti dalla irrealtà e generano poi altra irrealtà (solitudine estrema, desolazione): il superbo si crede illusoriamente superiore a tutti gli altri, l'invidioso si inventa una felicità altrui del tutto immaginaria, l'avaro ritiene che possa davvero “possedere” qualcosa…

    Agire bene significa qui dare realtà al mondo, agire male sottrargliela. Credo – posso sbagliarmi – che Polanski nel suo viaggio al termine di quella notte hollywoodiana fosse sempre più solo e abitasse un mondo sempre più irreale, fantasmatico.
    No so se l'ideale della paideia, su cui si edificò la società ateniese e poi l'intero Occidente si sia esaurito (forse la paideia si è fatalmente dispersa nell'ambiente: come genitore constato che i miei figli sono “formati” quotidianamente da molteplici agenti educativi, e che la mia voce risulta sempre più flebile…). Certo uno dei suoi compiti primari consiste nel trasmettere, soprattutto attraverso l'esempio, non tanto dei “valori” quanto – sulla scia di un insegnamento che ritrovo in Dante – una nozione sufficientemente chiara di ciò che è reale e ciò che non lo è.

    di Filippo La Porta
    Saggista e critico letterario, ultimo libro “E' un problema tuo” (Gaffi Editore, 2009).