Finalmente domani finisce il periodo di sbandamento del Pd (forse)

Lodovico Festa

E così domani – magari anche grazie al lodo Scalfari – dovremmo sapere se il nuovo segretario del Pd sarà quella persona di buon senso che è Pier Luigi Bersani, però attestato su una linea sfibrata e nostalgica, o se sarà quella sorta di maionese impazzita di Dario Franceschini, però ispirato da un bipolarismo condivisibile. Alla fine non conterà molto chi vince quanto che finisca questa lunga fase di sbandamento che ha caratterizzato l'opposizione, provocata innanzi tutto dalla solita fuga di “vigliacchetto” Walter Veltroni.

    E così domani – magari anche grazie al lodo Scalfari – dovremmo sapere se il nuovo segretario del Pd sarà quella persona di buon senso che è Pier Luigi Bersani, però attestato su una linea sfibrata e nostalgica, o se sarà quella sorta di maionese impazzita di Dario Franceschini, però ispirato da un bipolarismo condivisibile. Alla fine non conterà molto chi vince quanto che finisca questa lunga fase di sbandamento che ha caratterizzato l'opposizione, provocata innanzi tutto dalla solita fuga di “vigliacchetto” Walter Veltroni, con un indebolimento di tutto il quadro politico. Non c'è un'idea che provenga dal Pd negli ultimi mesi. L'unico obiettivo su cui si sono concentrati i “democratici” è Bianca Berlinguer direttore del Tg3. Alla memoria.

    Quella che ha caratterizzato l'opposizione di sinistra è stata una sorta di balbettio: meno tasse, più tasse, W il Papa, abbasso il Papa, W la Cgil ma W anche le imprese, non si parli più di Berlusconi si parli solo di Berlusconi, alleiamoci con l'Udc anzi alleiamoci con Di Pietro. Quando si sono messi a denunciare la complicità del centrodestra con gli evasori fiscali, sono finiti per trovarsi fianco a fianco, come compagni di lotta, le banche svizzere.

    Sui temi più all'attenzione della società italiana il dibattito non ha riguardato il Pd. Non sull'immigrazione, dove qualche idea – più o meno elaborata e argomentata – in contrasto con quelle leghiste, la propone la fondazione di Gianfranco Fini. Non sulla giustizia, dove il dibattito è tra Giulia Bongiorno e Niccolò Ghedini. Non sul rapporto tra valori e scelte politiche, dove la discussione più interessante è tra l'ala valorista del Pdl (Maurizio Sacconi, Eugenia Roccella, Alfredo Mantovano) e il laicismo finiano. Non sulle questioni sindacali ed economiche dove si confrontano i ministri Giulio Tremonti e Renato Brunetta.

    Le uniche reazioni che hanno avuto, lì a sinistra, sono state propagandistiche: ora sulle stupidaggini di Canale 5 riguardo ai calzini turchesi di un magistrato ora in solidarietà, obiettivamente giustificata, a Rosy Bindi. Ma su qualsiasi evento di grande rilevanza – dalla chiusura del contratto separato dei metalmeccanici alla scoperta di una solida infiltrazione camorrista nel Pd di Castellammare di Stabia – non solo non c'è stata un'analisi argomentata ma neppure una traccia di vera riflessione.
    L'idea più brillante che ha circolato fra questi nipotini di Enrico Mattei e Palmiro Togliatti è stata di accusare Silvio Berlusconi di essere un uomo di Mosca. La sensazione di fondo è di trovarsi di fronte a politici tirati per un anello messo al naso dalla Repubblica, salvo accorgersi che un lavorìo lungo un anno di Ezio Mauro e Giuseppe D'Avanzo aveva come meta essenziale un malloppo – il lodo Mondadori – che ben poco interessa “strategicamente” la sinistra.

    Per comprendere un processo storico come quello che caratterizza lo sbandamento della sinistra italiana bisogna risalire alla sua origine e ai fatti strutturali che lo hanno determinato. Nel nostro caso ci troviamo di fronte a resti di formazioni politiche che avevano un rapporto intimo con la storia della Prima Repubblica e ne interpretavano profondamente ceti sociali e dinamiche culturali. Queste forze trovatesi di fronte alla cesura che la fine della Guerra fredda imponeva, invece di governare la nuova fase della vita nazionale, si sono ritirate, lasciando che i nodi della vita politica italiana fossero risolti da magistrati, ambienti internazionali, parte dell'establishment. Così una classe dirigente, legata al suo popolo, è diventata una nomenklatura senza radici. Per ricomporre questa storia, bisognerebbe riassumere un ruolo dirigente, rimandare nelle caserme magistrati, banchieri, quotidiani-partito e riprendere una dialettica politica reale fondata sulla società. Non semplicissimo in un contesto in cui la magistratura più militante e corporativa mostra l'intenzione di incendiare il paese piuttosto che cedere sul suo strabordante potere (non d'indipendenza qui si tratta ma d'irresponsabilità derivata innanzi tutto dall'unificazione delle funzioni giudicanti e  inquirenti). Politici spaventati dalle proprie ombre, trattati da Largo Fochetti come un gruppo di mocciosi incompetenti, terrorizzati da un'inchiesta del Fatto o di Annozero, non hanno molto spazio per riprendere l'iniziativa. Forse potrebbero cercare di farlo ripartendo dalle radici popolari che esistono ancora: studiando e valorizzando due sindaci vincenti come Sergio Chiamparino e Massimo Cacciari, ragionando su Sondrio, Trento, Vicenza, Padova, Udine dove hanno prevalso in aree di berlusconismo trionfante.

    Analizzando le primarie di Bologna, Firenze e Reggio Emilia che hanno ridato vita ad amministrazioni di sinistra mortalmente stanche. Ascoltando  Giuliano Poletti, presidente della Lega delle cooperative che sostiene l'iniziativa di una Banca del Sud pensata per lo sviluppo. Magari rileggendosi i dibattiti tra Giorgio Amendola e Pasquale Saraceno per il rilancio del Mezzogiorno. Fare lunghi seminari con i cislini, gli uillini, gli alimentaristi e gli edili della Cgil che aderiscono al Pd per capire la nuova realtà di enti bilaterali che sta crescendo e che dà alla società più chance degli schemetti astratti di un Tito Boeri. Dovrebbero fare un lungo incontro con i dirigenti pieddini di Cna, Confesercenti e altre organizzazioni del ceto medio per avanzare proposte un po' più decenti della pura richiesta di perdono recitata da Franceschini.