Caduta di un borghese incanaglito

Lanfranco Pace

Fosse ancora viva, lo direbbe Marguerite Duras, con quell'inconfondibile voce arrochita dalle troppe Gitanes, che la verità è crudele. Che in questo affare Clearstream “le coupable absolu”, il colpevole assoluto, è lui, “forcement lui”, Dominique de Villepin. Colpevole di dabbenaggine, di insulto alla sua stessa vivida intelligenza, alle tante buone letture e persino ai saggi e romanzi con cui ha punteggiato la rapida, luminosa carriera come consigliere del re.

    Fosse ancora viva, lo direbbe Marguerite Duras, con quell'inconfondibile voce arrochita dalle troppe Gitanes, che la verità è crudele. Che in questo affare Clearstream “le coupable absolu”, il colpevole assoluto, è lui, “forcement lui”, Dominique de Villepin. Colpevole di dabbenaggine, di insulto alla sua stessa vivida intelligenza, alle tante buone letture e persino ai saggi e romanzi con cui ha punteggiato la rapida, luminosa carriera come consigliere del re. Colpevole di eccessiva vanità, di scarsa lucidità, di aver scambiato i propri desideri per realtà, di essersi lasciato accecare dall'odio nei confronti dell'avversario.

    Crimini, peggio, errori per un uomo politico convinto del suo alto destino, sicuro che un giorno il suo nome sarà scritto nel pantheon della République, culturalmente così attrezzato da dire che la legittimità non viene né dal popolo né dalla storia, ma solo dalla missione che ciascuno si dà. Crimini, peggio, errori che finiscono per pesare ancora di più su spalle tanto possenti, su un uomo di così elevata statura. Al confronto il reato di concorso in calunnia per omissione di cui il fascinoso ex primo ministro risponde da un mese davanti al tribunale di Parigi fa sorridere. Persino l'eventualità di una sua condanna sarebbe una sine cura di fronte all'immagine che il passato gli ha cucito addosso.
    In fondo il processo è solo l'epilogo, l'ultimo atto scritto dalla legge, e perciò asettico e banale, di un intreccio di odi inauditi, di atti di guerra senza esclusione di colpi. Solo la legge con il suo formalismo e al tempo stesso con la doverosa attenzione a ogni dettaglio, con la necessità di scomporre in minuzie ogni singolo fatto, poteva ridurre a complotto sgangherato quello che è stato in realtà un grumo di inaudita violenza nel cuore dello stato, la vicenda eterna di un re Lear che si sottrae alla natura e da padre, benché padre, si mette contro il figlio, pronto a ucciderlo pur di non farlo salire sul trono.

    Sindrome di Laio, così uno psicanalista ha definito la feroce attitudine che alberga sotto i cieli della Quinta Repubblica fin dalla fondazione. Lo stesso male oscuro che spinge De Gaulle a odiare Georges Pompidou, reo di aver manifestato troppo presto e in modo irriguardoso la sua alta ambizione. E poi Georges Pompidou a far fuori Jacques Chaban-Delmas, erede diretto, favorendo l'ascesa di un cugino nemmeno di primo grado, Giscard d'Estaing. Giscard a combattere con ogni mezzo il rivale-alleato Chirac, a vantaggio addirittura di un avversario come François Mitterrand. E Mitterrand a opporsi con ogni mezzo a Michel Rocard, favorendo così il ritorno di Jacques Chirac. Infine Chirac a volere pervicacemente la messa a morte del figlio che tradì e tornò alla casa del padre: Nicolas Sarkozy.

    Sembra proprio che l'Eliseo dia alla testa, che il suo potere ubriachi. Come tutti i predecessori, anche Chirac non accetta la discesa inesorabile verso il baratro, la normalità del tempo in cui il telefono non suona più, dopo aver vissuto i fasti, gli stucchi della monarchia repubblicana. Come tutti i suoi predecessori anche Chirac non può ammettere che un suo simile, uno dello stesso sangue e della stessa dinastia, qualcuno di cui conosce le pieghe dell'anima, le ambizioni, i vizi più segreti possa occupare il suo trono. Ma a differenza dei suoi predecessori, l'odio di Chirac è tanto più feroce, tanto più radicato e convulso che si sente un re zoppo, responsabile di una serie impressionante di sconfitte e di false vittorie, che ha capito solo al tramonto della vita che è mal amato, che non trasmette emozioni, non suscita commozione. E che non lascerà rimpianti.

    Il seme dell'affaire Clearstream, della sua abbagliante stupidità e della sua crudeltà,
    viene piantato e cresce in questa atmosfera cupa di fallimento, di finis regni, che incombe sull'Eliseo e sugli uomini del presidente, dal 2002 al 2005. Jacques Chirac e Dominique de Villepin, capo della guardia pretoriana, dell'odio nei confronti di Sarkozy si nutrono, a quella fonte si abbeverano ogni giorno. La polemica contro l'America arrogante, contro le guerre unilaterali di George W. è un palliativo che li occupa di giorno, il prestigio internazionale per le prese di posizione al Consiglio di sicurezza dell'Onu, la popolarità insperata presso i movimenti pacifisti di mezzo mondo placano in parte il loro ego, ma il sollievo è solo momentaneo. La notte è sempre lì, e puntuale nelle riunioni a porte chiuse del Castello si aggira un fantasma, il cui nome è ripetuto come un mantra, come un rito di esorcismo: la paura di Sarkozy, giovane rampante e famelico, deciso ad andare per la sua strada, li conduce ormai all'ossessione. In Chirac è la paura dell'umiliazione a renderlo così rabbioso da voler riaffermare in ogni circostanza, anche la più inopportuna, la preminenza che la Costituzione gli assegna. In de Villepin, erede di una grande famiglia che ha dato alla Francia generali, diplomatici e grand commis, c'è l'ambizione personale, ma anche una regale indifferenza per il suffragio universale e un vero disprezzo per la vita di partito.

    L'influente consigliere del presidente si è convinto che l'immagine e la leadership
    discendano direttamente dai lombi, per grazia divina, magari dalla gravità di una situazione che richieda il sacrificio di uomini eccezionali,  non da decenni di duro, oscuro, poco esaltante lavoro, in seno al popolo e per il popolo.
    Nel 2002 Chirac è stato appena rieletto presidente: a sorpresa al secondo turno ha avuto come avversario non il socialista Lionel Jospin, come tutti prevedevano, ma Jean-Marie Le Pen, il candidato dell'estrema destra. La sinistra pavida pensa che la democrazia sia davvero in pericolo e fa campagna a fondo per Chirac, che vince con più dell'ottanta per cento dei voti. Sembra un plebiscito, è un errore di parallasse, fuorviante per gli uni e per l'altro, che perderà tutte le elezioni successive, europee, regionali: fino al referendum sulla Costituzione europea in cui perderanno la faccia entrambi, i socialisti e Chirac. Per il presidente sarà addirittura la sconfitta personale più cocente, il colpo di grazia. Di fronte a una serie tanto lunga di eventi così negativi, la preparazione della successione diventa il tarlo principale, la deformazione che scava l'intelletto del presidente e dei suoi uomini.

    Del governo del 2002 de Villepin vorrebbe tanto essere il ministro dell'Interno. Chirac invece sceglie Sarkozy, per tenerlo a fuoco lento sulla poltrona che più scotta, ma commette un nuovo grave errore di giudizio: il “nano malefico” dimostrerà di essere innovatore nella comunicazione e coraggioso ancorché brutale nelle decisioni, saprà stabilire un rapporto particolare con i francesi attanagliati dall'insicurezza, mettendosi così sulla rampa di lancio per le elezioni presidenziali del 2007. A de Villepin va il ministero degli Esteri: con in più la responsabilità sui Servizi segreti, un regalo personale del presidente che gli mette così il piede alla staffa del dominio riservato. Come negare all'uomo che custodisce i tanti segreti inconfessabili di Chirac la possibilità e il piacere di scoprire quelli degli altri? In de Villepin vive una doppia natura, squalo e gabbiano, proprio come il poema di René Char a cui si è ispirato per dare il titolo a un suo libro: ama lo stato ma anche i complotti, sogna l'alta diplomazia ma non disdegna affatto le basse opere di polizia, come ogni grande borghese a cui non dispiace affatto incanaglirsi. I primi passi non promettono nulla di buono. Mette su un'azione di commando della Dgse, la Direction général de la Sécurité exterieure, per liberare Ingrid Betancourt dalle mani delle Farc colombiane, ma siccome dimentica di avvertire il Brasile che l'operazione si sarebbe svolta anche sul suo territorio, tutto finisce in vacca.

    E' dunque un uomo in cerca di riscatto quello che il primo gennaio 2004
    riceve nel suo imponente ufficio al Quai d'Orsay un vecchio amico. Jean-Louis Gergorin è un puro prodotto delle grandi scuole francesi, bardato di titoli, per anni uomo di fiducia e amico fedele di Jean-Luc Lagardère, patron del gruppo Matra, responsabile  della strategia del consorzio franco-tedesco Eads, il costruttore dell'Airbus: è anche un maniaco dell'intelligence, ossessionato dai problemi di riciclaggio e dei fondi neri. All'amico e ministro dice di aver individuato nella lussemburghese Clearstream la società dove sarebbero transitate tangenti per miliardi di euro a margine dei contratti militari firmati negli anni Novanta con l'Arabia Saudita e con Taiwan, sotto l'impulso del governo socialista e poi del governo di quei “traditori” di Edouard Balladur e Nicolas Sarkozy. Aggiunge di poter produrre come prova una lista di più di ottocento conti detenuti illegalmente in Lussemburgo, nomi di industriali, alti funzionari e ovviamente uomini politici. Gergorin dice anche di aver informato della clamorosa scoperta un comune amico, il generale Philippe Rondot, ex agente segreto nominato consigliere speciale al ministero della Difesa, il quale però si sarebbe mostrato alquanto scettico: solo un opportuno intervento dell'amico e ministro avrebbe dunque potuto imprimere lo slancio investigativo che un tale caso richiede.

    Il 9 gennaio 2004, ovvero otto giorni dopo, si riuniscono tutti e tre nell'ufficio di de Villepin.
    Quello stesso pomeriggio il Monde esce in edicola con in prima pagina un articolo dal titolo “Chirac-Sarkozy, i risvolti di una guerra senza pietà”, in cui è citata una frase di Sarkozy riferita dal suo entourage: “Chirac non mi odia, peggio, mi teme”. Comincia così, in questo clima, l'affare Clearstream. E comincia anche la corsa verso il precipizio di de Villepin: non sa che il generale Rondot, militare con assoluto spirito di sacrificio e senso del dovere, ha una dannata abitudine. Trascrive con la sua calligrafia minuta, su cartoncini Bristol, tutto quello che giorno dopo giorno gli accade. In una perquisizione al suo domicilio, nel 2006, ne troveranno migliaia in cassaforte. Sulla scheda del 9 gennaio, come racconta Hervé Gattegno in “L'irresponsable, une présidence française 1995-2007, si legge: “Posta in gioco politica (freccia) Nicolas Sarkozy”. Un rigo più sotto “Fissazione su Nicolas Sarkozy, riferimento conflitto Chirac-Sarko”. Più sotto ancora l'ordine esplicito ricevuto da de Villepin, presentato come direttiva dell'Eliseo: “Verificare la validità della lista per sapere se sì o no le personalità citate possiedono un conto. Istruzione del PR (presidente della Repubblica) a cui D. de V. ha fatto rendiconto: trattamento affare in filo diretto con PR”. Infine si legge: “Prudenza, quadro da mantenere segreto, tenere conto delle manipolazioni politiche”. Rondot diffida di Gergorin, delle sue costruzioni intellettuali che ritiene alquanto fantasiose, sa che l'alto dirigente è rimasto sconvolto dalla morte dell'adorato Lagardère, fino a convincersi che sia stato ucciso, vede anzi sente intorno a sé complotti di ogni genere, a cominciare proprio dal gruppo in cui ha servito per tanti anni e in cui c'è effettivamente un aspro scontro per il potere tra le diverse cordate.

    Rondot è uno 007, in fondo è lui che ha catturato Carlos in Sudan
    e sa come si fabbrica una manipolazione. Quando finalmente legge il famoso listing non ha nemmeno bisogno di fare troppe verifiche. Quale uomo politico sarebbe così fesso da trascinarsi appresso conti esteri a proprio nome, Jean-Pierre Chevènement, Dominique Strauss-Kahn o Alain Madelin, oppure si sentirebbe al sicuro con un semplice ritocco, come nei due conti intestati a Paul de Nagy e Stéphane de Bocsa, che insieme formano proprio il patronimico completo dell'aborrito nemico?
    Potrebbe già chiudersi qui, alle soglie dell'estate 2004, il cosiddetto affare Clearstream, consegnando alla spicciola cronaca nera il nome e le motivazioni di Imad Lahoud, geniale hacker capace di penetrare nel sistema informatico della Clearstream ma che per entrare nel mondo reale, fra la gente che conta, deve trasformarsi in falsario, dando libero sfogo alla sua mitomania e diventando la chiave della manipolazione. Potrebbe già chiudersi qui, lasciando alla psicoanalisi il compito di sciogliere il rapporto perverso tra un Lahoud che vende tarocchi e un Gergorin che lo ascolta fiducioso perché ha disperato bisogno di dare carne alle sue fantasie.

    Potrebbe chiudersi qui, solo se de Villepin volesse,
    riconoscendo umilmente di essersi sbagliato, di aver fiutato una pista inesistente. Invece no, l'umiltà non è nella sua natura, non riesce proprio a cancellare il sorriso carnivoro, predatorio, da squalo appunto, che gli si è fissato sul volto da quel giorno di Capodanno in cui ebbe dall'amico la presunta buona novella. Il comportamento ambiguo del ministro lascia altri liberi di sparare le loro cartucce bagnate e di rilanciare l'affare che langue: Gergorin manda due lettere anonime al giudice Van Ruymbeke, in una si parla sommariamente del ballo “des crapules”, dei farabutti, la seconda ha allegato un cd-rom con la lista dei nomi. Ma il giudice non ci casca, la lista finisce sulle pagine del settimanale Le Point, la taroccata cambia pelle e riesplode per quello che è, un regolamento di conti violento al vertice dello stato. Talmente violento che nell'ottobre del 2004 de Villepin, da poco nominato da Chirac al ministero dell'Interno, riceve un Sarkozy fuori di sé che esige spiegazioni: de Villepin ha in mano le conclusioni dell'inchiesta che scagionano il suo rivale ma dice che ancora non c'è nulla di probante. Fa esattamente quello che Talleyrand rimproverava a Fouché, quando diceva: “Un ministro dell'Interno si occupa di quello che lo riguarda e molto più spesso di quello che non lo riguarda”. E' questa la marca dell'odio, la forza oscura che ha annientato de Villepin. Sul banco degli accusati non è comparso Chirac, protetto oltre che dalla funzione dall'antico vezzo di scaricare tutti i collaboratori che si sono immolati per lui. Ma nemmeno questo sapeva, Dominique Marie François René Galouzeau de Villepin.

    • Lanfranco Pace
    • Giornalista da tempo e per caso, crede che gli animali abbiano un'anima. Per proteggere i suoi, potrebbe anche chiedere un'ordinanza restrittiva contro Camillo Langone.