Tra pensioni e Irap

Lodovico Festa

Non vanno sottovalutate le acute osservazioni di Guido Tabellini sul Sole 24 Ore e di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera riguardo la proposta di abolizione dell'Irap. O le considerazioni di Mario Draghi su un'ulteriore riforma delle pensioni. Anche se per alcuni versi verrebbe da commentare: meglio tardi che mai. Quando i governi Berlusconi 1 e 2 tentarono nel '94 e riuscirono tra il 2001 e il 2006 a modificare le pensioni si trovarono isolati nel fronteggiare la Cgil.

    Non vanno sottovalutate le acute osservazioni di Guido Tabellini sul Sole 24 Ore e di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera riguardo la proposta di abolizione dell'Irap. O le considerazioni di Mario Draghi su un'ulteriore riforma delle pensioni. Anche se per alcuni versi verrebbe da commentare: meglio tardi che mai. Quando i governi Berlusconi 1 e 2 tentarono nel '94 e riuscirono tra il 2001 e il 2006 a modificare le pensioni si trovarono isolati – persino dalla Confindustria prima abetiana poi montezemoliana – nel fronteggiare la Cgil. Il governo Prodi che pasticciò tra il 2006 e il 2008 alla grande sulla riforma Maroni delle pensioni aveva potuto vincere le elezioni con qualche migliaio di voti grazie all'appoggio decisivo di un Corriere della Sera arricchito dall'editorialista principe Giavazzi, allora più impegnato nella liberalizzazione dell'aspirina che nell'abolizione dell'Irap: un appoggio peraltro proprio all'uomo di governo che non solo non aveva alcun proposito di togliere ma al contrario l'Irap aveva contribuito a inventarla assieme a Vincenzo Visco.

    Naturalmente è cosa buona e giusta cambiare se non idee (non è questo il caso degli illustri opinionisti), almeno atteggiamenti (innanzi tutto per quel che riguarda la scala delle priorità). Va considerato peraltro che tra le opinioni giornalistiche e quelle tecniche, e la politica c'è una differenza. La seconda richiede da una parte consenso e dall'altra visione, mentre alle opinioni per penetrare nel dibattito basta essere frizzanti. Si prenda la riforma delle pensioni: a parte le scelte che sistematicamente sta compiendo il governo per collegare retribuzioni previdenziali e aspettative di vita, il problema è che l'attuale fase di pace sociale regge sull'asse della responsabilizzazione che collega governo, Confindustria e Cisl. Proporre uno scambio innalzamento dell'età pensionabile per un nuovo welfare significa destabilizzare questo asse e determinare una situazione politico-sociale meno governabile. La prospettiva a medio termine su cui lavorare è sì alzare l'età pensionabile ma difficilmente spostando risorse da un settore all'altro. Anche per rimediare ai limiti della riforma Dini e per consolidare le condizioni di pensionati che dovranno affrontare una vita assai più lunga (grazie a Dio) dei genitori, si tratta di tenere sotto controllo questa voce di spesa pubblica che ormai nel giro di pochi anni si assesterà sul livello del resto del continente, non di usarla in scambi di difficile gestione. Qualificare gli ammortizzatori sociali è possibile con un lavoro di fino, incrementando gli enti bilaterali, lavorando sulle risorse che si determinano nella collaborazione tra capitale e lavoro, e che iniziano a emergere dai primi “nuovi contratti”.

    D'altro canto all'“odiosa Irap” va messo subito mano ma senza perdere la “visione” dell'azione politica. L'obiettivo strategico in campo oggi è quello di collegare un solido ridimensionamento del livello di pressione fiscale alla costruzione di un sistema federalista: si tratta di tagliare la spesa pubblica, di far fruttare (magari vendendolo o usandolo per “garanzie”: e abbassare così i tassi alle piccole e medie imprese) parte dell'enorme patrimonio degli enti territoriali e di costruire le condizioni per superare le diffuse elusioni ed evasioni fiscali oggi praticate (obiettivo raggiungibile solo se si tagliano le tasse) grazie alla pressione di comunità che si riappropriano dei loro destini a lungo sottratti da stati centralizzati e da ceti politici autoreferenziali. L'emergenza è l'emergenza ma buttare via un'occasione per trasformare radicalmente il sistema è un delitto. Tanto più se tutto ciò viene fatto, come traspare dall'articolo di Giavazzi, per difendere il bancocentrismo del nostro paese. Nel cuore di certi commentatori c'è la sfida tra Giulio Tremonti e le grandi banche sugli orientamenti del credito alla produzione. Da una parte si sostiene che si vuole interferire nella vita di imprese private, dall'altra si ricorda che queste imprese private vennero salvate dalla spirale del crollo dei loro titoli azionari solo grazie al deposito di 12 miliardi come garanzia della loro impossibilità di fallire. 12 miliardi che – come disse la Cgil che ora flirta con il bancocentrismo – avrebbero potuto essere assegnati agli ammortizzatori sociali.

    Fu una scelta saggia nel merito, politicamente però ingenua perché non siglata da un chiaro patto per il dopo, cioè un vero accordo sull'orientamento al credito della produzione e la trasparenza dei bilanci. In tutto il mondo, persino nella Goldman Sachs, dopo la tempesta del 2008 i manager bancari hanno accettato una collaborazione più stretta con gli esecutivi. In Italia si conta su un certo peso editorial-politico, sulla possibilità di disarticolare la maggioranza del centrodestra (questo è uno sport pericoloso per un governo che deve mantenere un'iniziativa ferma a tutti i costi, ed è uno sport a cui si dedicano in tanti e in tanti modi, e che ogni tanto trova interlocutori “interni” più o meno ingenui) per evitare impegni più cogenti. Con una strana logica per cui quando c'è la crisi la banca è bene pubblico, quando si tratta di ridefinirne il rilancio, liberi tutti. Forse lo stesso Draghi potrebbe fare qualcosina in più di quello che fa, magari approfondendo quel che avvenne tra certe grandi banche e grandi immobiliaristi, naturalmente se il dibattito sulle pensioni gli lascia tempo per intervenire in queste faccende.