La destra senza contratto

Christian Rocca

Apparentemente, soltanto apparentemente, la destra americana gode di ottima salute e di grande vitalità. I sondaggi e le analisi del grande esperto di flussi elettorali Charlie Cook danno il Partito repubblicano in crescita e in buona posizione per vincere con un bel margine le elezioni di metà mandato del prossimo anno. Già tra un mese, il Grand Old Party sembra addirittura pronto a conquistare il governatore della Virginia e, con minore probabilità, anche quello del New Jersey.

    Apparentemente, soltanto apparentemente, la destra americana gode di ottima salute e di grande vitalità. I sondaggi e le analisi del grande esperto di flussi elettorali Charlie Cook danno il Partito repubblicano in crescita e in buona posizione per vincere con un bel margine le elezioni di metà mandato del prossimo anno. Già tra un mese, il Grand Old Party sembra addirittura pronto a conquistare il governatore della Virginia e, con minore probabilità, anche quello del New Jersey.

    Le evidenti difficoltà di Barack Obama, specie sulle questioni di politica interna, ma anche a causa dell'ancora incerta politica estera, assieme ad alcune scelte sulla crisi economica che hanno diviso l'elettorato, sembrano aver posto le basi per un improvviso e inaspettato revival della destra repubblicana. I segnali politici sono rilanciati dai numeri della Gallup, che non soltanto conferma la perdita dello spirito bipartisan del presidente Obama, ormai stabile intorno al cinquanta per cento di gradimento, ma quotidianamente sforna dati che non lasciano dubbi: sono aumentati gli americani che si definiscono repubblicani e sono diminuiti quelli che pensano di votare democratico, in controtendenza rispetto a quello che è successo dal 2005 a oggi; i conservatori sono il doppio dei liberal e mentre è rimasto immutato il numero di chi crede che i repubblicani siano troppo conservatori, è aumentato il gruppo di chi pensa che i democratici siano diventati troppo di sinistra. C'è, inoltre, una grande richiesta affinché lo stato si impegni a promuovere i valori tradizionali; aumenta il numero di persone che vorrebbe meno immigrazione; e per la prima volta nella storia dei sondaggi Gallup è stata riscontrata una maggioranza di antiabortisti, 52 per cento, rispetto ai sostenitori del diritto a interrompere la gravidanza, 42 per cento.
    Qualunque sia il motivo di questo repentino cambiamento di clima, la cosa certa è che la riscossa conservatrice non nasce da una studiata, coordinata e coerente strategia politica dell'opposizione. Non c'è una nuova idea, una nuova leadership, una nuova piattaforma politica. L'opposizione politica è come se non ci fosse e al Congresso non ha i numeri nemmeno per ostacolare i programmi della Casa Bianca e della sua maggioranza.

    C'è però una reazione super conservatrice alla nuova epoca immaginata da Obama, visto che i risultati positivi promessi tardano ad arrivare. Il presidente, per esempio, a inizio anno aveva detto che se il Congresso non avesse approvato subito il pacchetto di stimolo e di aiuto all'economia e al sistema finanziario il tasso di disoccupazione sarebbe potuto arrivare addirittura al nove per cento. Il Congresso e il paese gli hanno dato fiducia e hanno approvato all'istante il piano, ma gli ultimi dati sui posti di lavoro perduti segnalano un tasso di disoccupazione del 9,8 per cento. L'editorialista afroamericano del New York Times, Charles Blow, crede che la rinnovata linfa della destra sia da attribuire all'antica definizione di conservatorismo coniata da Abramo Lincoln circa centocinquanta anni fa: “Il conservatorismo è la fedeltà al vecchio e già provato, rispetto al nuovo e non ancora provato”. Da una parte quindi c'è Obama, la soluzione nuova non ancora sperimentata, dall'altra c'è il rifugio amorevole e sicuro delle vecchie dottrine conservatrici.

    Questo vuol dire che, malgrado le prospettive di successo elettorale, la traiettoria politica e intellettuale del mondo conservatore americano non è mai stata così minoritaria e tendente al ribasso, non solo se paragonata ai fasti del recente passato quando era proprio la Right Nation a sfornare a getto continuo idee, libri e politiche innovative con cui guidare paese, Congresso e Casa Bianca, ma soprattutto se la si equipara al percorso delle nuove destre europee, a cominciare da quella inglese fino a quella francese, senza dimenticare quella liberale tedesca, per comprendere anche le critiche al mercatismo liberista di Giulio Tremonti e l'ancora tiepido tentativo di Gianfranco Fini di trovare una sintesi tra antiche tradizioni e nuove esigenze della società.

    In Europa la destra ricomincia a guidare i governi grazie a grandi operazioni di restyling politico-culturale che l'hanno liberata da zavorre ideologiche e da figure ingombranti del passato, ma che soprattutto le hanno consentito di accogliere nelle piattaforme programmatiche temi, suggestioni e sensibilità tradizionalmente estranee al mondo conservatore, senza per questo fare a meno delle parole d'ordine irrinunciabili come libertà, famiglia e sicurezza. Il presidente Nicolas Sarkozy è tutto tranne che timido nell'esercitare una rinnovata leadership francese nel mondo che, dall'etica nella finanza fino al pericolo atomico iraniano, sembra ancora più americana di quella di Washington. Ma l'esempio più significativo è quello della Gran Bretagna, dove il giovane leader dei Tory, David Cameron, non invoca la tradizione di Margaret Thatcher per rilanciare il suo partito, cosa che semmai aveva fatto surrettiziamente nel 1997 il laburista Tony Blair all'inizio dell'epoca del New Labour, piuttosto apre all'ambientalismo, alla sicurezza sociale e a temi libertari un tempo considerati tabù dalle sue parti.
    In America succede esattamente l'opposto. Fuori dalla Casa Bianca dopo gli otto anni di George W. Bush, senza una leadership congressuale riconoscibile e con una serie di figure minori già più o meno pronte a cominciare l'apertissima battaglia per le primarie del 2012, il mondo conservatore statunitense è mosso da una nuova ondata populista, liberista e antistatalista che ha scompaginato le vecchie gerarchie del Partito repubblicano.

    L'antica coalizione reaganiana formata dall'unione (e c'era chi addirittura parlava di “fusione”) dei conservatori sociali, dei falchi neoconservatori e dei libertari antistatalisti non esiste più. La destra religiosa non è più quella forza esplosiva di un tempo, ammesso che il suo peso specifico non sia stato sopravvalutato. I neoconservatori non sono mai stati un movimento coeso e popolare e i suoi esponenti continuano a fare quello che hanno sempre fatto, cioè azione di lobbying dalle colonne dei giornali, ma senza un punto di riferimento al governo, se non quello costituito dai generali David Petraeus e Stanley McChrystal.
    A farsi sentire sono soprattutto gli antistatalisti e i liberisti, ovvero quelli che secondo il lessico politico americano vengono chiamati “libertarians”, mobilitati dal mega intervento pubblico deciso da Obama, e in precedenza da Bush, per affrontare la crisi economica e finanziaria, disgustati dagli aiuti statali ad aziende decotte e a manager fallimentari, ma anche dalla contrarietà alla riforma sanitaria che il presidente vorrebbe mettere a carico dei contribuenti e del settore pubblico. I libertari di destra sono stati i più pronti a reagire alle politiche obamiane, anche perché erano già in fibrillazione negli anni di Bush, il presidente repubblicano che ha tentato, con un successo limitato alle sue due elezioni, di cambiare la filosofia del suo partito e di renderlo al passo con i tempi.

    Il paradosso è che è stata proprio la destra bushiana, quella accusata da amici e avversari di aver distrutto il Partito repubblicano, ad aver anticipato di otto o nove anni la nuova ondata centrista e moderata di moda in Europa con l'idea di un conservatorismo compassionevole, cioè solidaristico, capace di sfruttare – anziché rifiutare – le grandi possibilità offerte dall'intervento statale. Bush ha tagliato le tasse, concedendo non poca cosa all'ala liberista, ma ha governato col deficit pubblico, non badando a spese, rompendo uno dei capisaldi della filosofia conservatrice e della recente politica americana al punto da aver fatto proseliti anche a sinistra, a cominciare da Bill Clinton. Bush, inoltre, ha ampliato l'intervento dello stato nel settore dell'istruzione scolastica e ha allargato la copertura sanitaria per gli anziani con la più grande espansione del Medicare degli ultimi 40 anni. L'ex presidente, infine, si è impegnato in una politica estera dispendiosa non solo in termini di vite umane, ma anche per i bilanci dello stato, perché centrata sull'idea di ricostruire da capo a fondo i paesi liberati dai regimi dittatoriali (nation building). Anche la sua proposta di sanare lo status di illegalità di circa quindici milioni di lavoratori clandestini ha fatto storcere il naso all'ala populista della coalizione conservatrice.

    Per queste ragioni Bush è considerato un “traditore” della filosofia di governo conservatrice e i saggi su questo tema si contano a dozzine nelle librerie americane. Ora, in piena era Obama, è proprio la sintesi politica tra l'ala antistatalista e quella populista e isolazionista del mondo conservatore ad aver preso il sopravvento, almeno nell'attenzione mediatica.I nuovi capipopolo sono i conduttori radiofonici e televisivi come Rush Limbaugh e Glenn Beck, il primo un conservatore populista tradizionale, il secondo un libertario di destra. Gli eroi politici della nuova ondata conservatrice sono i rumorosi deputati del sud, a cominciare da chi ha avuto il coraggio di dare di “bugiardo” al presidente durante il suo più recente discorso alla Camera, ma anche aspiranti candidati alla presidenza come Sarah Palin, la regina della rivolta antielitaria di questi mesi il cui libro, “Going Rogue”, è già in testa alle classifiche di vendita, malgrado non sia ancora uscito.

    A farsi sentire, non solo nelle grandi manifestazioni a Washington, ma in tutto il paese, sono le numerose proteste popolari contro le tasse e l'ingerenza statale organizzate dai cosiddetti “tea party”, il cui nome rimanda alla patriottica rivolta anticoloniale di Boston del 1773 contro le tasse sul tè imposte dal Parlamento britannico. Il senso politico di questa protesta anti Obama, che scade fino a mettere in dubbio la legittimità della sua nascita in territorio americano, è reso ancora più chiaro dall'acronimo “tea”, “taxed enough already”, “già tassati a sufficienza”, scandito senza sosta dai contestatori delle politiche di Obama.

    Non è così certo, però, che sia tutta la destra americana ad aver scelto la strada della ribellione, come Sarah Palin. L'editorialista David Brooks ha scritto un editoriale sul New York Times per avvertire che la storia recente del mondo conservatore dimostra che i Limbaugh, i Beck e i tea party sono certamente pittoreschi e fanno senza dubbio molto rumore, ma sono anche molto più deboli di quanto si pensi: “Sono campioni mediatici che dichiarano di rappresentare una maggioranza nascosta, ma che in realtà rappresentano soltanto una piccola nicchia” che ha già ridotto ai minimi termini il Grand Old Party e finirà per distruggerlo se il partito continuerà a seguirli. “Il Partito repubblicano – ha scritto Brooks in una column che ha scatenato il dibattito nel mondo conservatore e gli ha fatto guadagnare una buona dose di insulti – oggi è così impopolare perché è interessato ad accontentare i fantasmi di Limbaugh più che le persone vere”. Brooks diceva le stesse cose quando l'intellighenzia liberal denunciava l'imminente avvento della teocrazia cristiana a causa della tonitruante presenza mediatica della destra religiosa, oggi abbastanza silenziosa e senza sbocchi politici di grande impatto. Alle ultime primarie del Partito repubblicano, infatti, malgrado l'attenzione e l'entusiasmo dei populisti, dei libertari e della destra religiosa non hanno vinto né Fred Thompson, né Ron Paul, né Mitt Romney, né Mike Huckabee. Il vincitore è stato John McCain, il candidato conservatore meno ortodosso e il più estraneo a spinte populiste, religiose e libertarie.

    E' vero, però, che il conservatorismo muscolare e moderatamente liberal di McCain è detestato dalla base del partito, al punto che se alle scorse elezioni il senatore dell'Arizona non avesse scelto come sua vice una forza della natura come Sarah Palin – seconda soltanto a Obama per capacità di entusiasmare e mobilitare gli elettori della propria parte, ma anche dell'altra – è molto probabile che il risultato finale sarebbe stato ancora più pesante per i repubblicani. Nonostante ciò, il settantatreenne McCain si sta impegnando in modo serio per consolidare la sempre più sparuta area moderata del partito, finanziando direttamente o mettendo in contatto i suoi sponsor con i tanti candidati repubblicani che affrontano le primarie locali contro avversari populisti, libertari e iper conservatori.

    Il campione dell'ala libertaria potrebbe essere lo stimato deputato del Rhode Island Mike Pence, un liberista con buoni rapporti con il Cato Institute e convinto che l'America sia “sull'orlo di un nuovo e grande risveglio”. Palin potrebbe rappresentare l'ala populista e religiosa, assieme al senatore Jim DeMint e al governatore dell'Indiana Mitch Daniels. Il trentanovenne governatore della Louisiana Bobby Jindal, dopo alcuni mesi di ribalta nazionale gettati al vento con una fiacca risposta pubblica al primo discorso di Obama, sembra intenzionato a intraprendere la strada del candidato riformatore, quella di chi è interessato alla battaglia delle idee e delle soluzioni politiche, anche sulla riforma sanitaria, piuttosto che a inseguire il caravanserraglio dettato dal populismo dei conduttori radiofonici, della Fox News e anche della Cnn.
    E' molto probabile che ritenterà la fortuna Mitt Romney, l'ex governatore moderato del liberal Massachusetts che alle scorse primarie si era trasformato con scarso successo da riformatore progressista in paladino della destra religiosa. Una buona sintesi delle anime del partito, compresa quella moderata, potrebbe essere quella rappresentata dal governatore del Minnesota Tim Pawlenty. C'è chi sostiene sia troppo grigio, noioso e moderato per essere eletto alle primarie repubblicane dominate dall'ala estrema, ma di nuovo va ricordato che l'anno scorso gli stessi elettori repubblicani hanno premiato McCain.Sulla carta, Pawlenty sembra il più attrezzato a contenere le varie anime del partito e uno dei pochi capaci di evitare la fuga degli indipendenti.

    Ciò che manca è il progetto, qualcosa che vada oltre il semplice “no” a Obama. Le prospettive elettorali potranno anche essere rosee, ma prima di parlare di “nuovo 1994”, cioè della possibilità che i repubblicani riescano a ripetere il successo della rivoluzione conservatrice di Newt Gingrich che fu capace di sbaragliare i new Democrats di Clinton, il mondo conservatore dovrebbe avere una visione, una strategia, un'idea alternativa al programma di Obama. Nel 1994, Gingrich si è inventato il “Contratto con l'America”, poi diventato il modello di un equivalente impegno del centrodestra berlusconiano con gli elettori italiani. La nuova visione da offrire agli americani, questa volta, non c'è. (nella foto Reuters: un “tea party”, una protesta contro le tasse e l'ingerenza dello stato, in Arizona)