Una strana destra s'aggira…

Paola Peduzzi

Non sono gli editoriali che contano, ma i voti di milioni di inglesi che leggono il Sun. Noi crediamo che loro conoscano bene i vantaggi di cui godono grazie a questo governo. Nel giorno delle elezioni, dimostreranno al Sun che sbaglia”. Era il 1997 e il portavoce dell'ufficio centrale del Partito conservatore inglese commentò così la decisione del più popolare tabloid d'Inghilterra di dare il suo appoggio al New Labour di Tony Blair.

    Non sono gli editoriali che contano, ma i voti di milioni di inglesi che leggono il Sun. Noi crediamo che loro conoscano bene i vantaggi di cui godono grazie a questo governo. Nel giorno delle elezioni, dimostreranno al Sun che sbaglia”. Era il 1997 e il portavoce dell'ufficio centrale del Partito conservatore inglese commentò così la decisione del più popolare tabloid d'Inghilterra di dare il suo appoggio al New Labour di Tony Blair. Dodici anni dopo le parti si sono invertite, il Sun ha abbandonato il New Labour per schierarsi con i conservatori, scatenando goffe reazioni da parte degli “scaricati”. Non che i laburisti fossero sorpresi. I segnali del cambiamento in atto passano più dai soldi investiti dai magnati britannici, dalle preferenze esplicite della City, dai sondaggi insistentemente a favore dei Tory, dall'insofferenza generata dal premier, Gordon Brown, che dallo smacco del Sun. “Party is over”, mormoravano i delegati laburisti abbandonando le sale di Brighton, dove il partito ha appena concluso il suo congresso annuale. Non un fallimento in sé, tutt'altro, ci sono stati momenti emozionanti e persino qualche piccola speranza riaccesa, ma appena fuori dai padiglioni la carrozza è tornata zucca.

    Ora si aspetta Manchester, dove lunedì si apre il congresso dei Tory, e David Cameron promette: dopo Manchester nessuno avrà più dubbi su quel che voglio fare. Era ora, sospirano i conservatori lontani da quel circolo ristretto – e un po' troppo solitario, un po' troppo ansioso, insinuano i commentatori – che detta la linea del partito. Vincere soltanto per incapacità dell'avversario non è un'opzione, non dopo dodici anni che si lavora a un progetto in grado di scalzare la rivoluzione neolaburista. Ma gli inglesi devono ancora essere convinti: hanno di fronte un premier a fine corsa che conoscono (e detestano) fin troppo e un leader ai blocchi di partenza, molto obamiano nel dare voce al cambiamento e alla modernizzazione, ma restio a scendere nei dettagli, a spiegare davvero che cosa vuole fare, come sarà il Regno Unito dopo cinque anni di suo governo. Il congresso di Manchester sarà definitivo, dovrà esserlo, se davvero Cameron vuole che il “Cameronism” diventi un pensiero politico, una dottrina, e non soltanto un fisiologico – e temporaneo – periodo di assestamento dopo la fine di un impero.
    Al momento il leader dei Tory ha fissato le priorità, quattro: “Il deficit, l'Afghanistan, la società ‘broken' (rotta, sfasciata) e la sistemazione del caos della nostra politica”. Quanto a dettagli, ancora poco o niente. Ci lavorano, ormai da anni, i due think tank di riferimento dei Cameroons – il Policy Exchange (noto con l'acronimo “PX”) e il Center for Social Justice – oltre che l'indefesso Tim Montgomerie, un insider imprescindibile, che nei prossimi due mesi pubblicherà sul suo blog “una guida completa alle idee centrali che muovono la leadership di Cameron, i principali personaggi del suo team e le priorità del governo che Cameron spera di guidare dopo le prossime elezioni”.

    Tanto solerte impegno nel fornire delucidazioni sul programma
    dei conservatori genera più di un dubbio: se le idee fossero chiare, ci sarebbe poco da chiarire, no? Ma gli ottimisti sostengono che le rivoluzioni vanno spiegate, altrimenti le persone non sono in grado di valutarle e premiarle, e qui di rivoluzione si tratterà se – come spiega lo stesso Cameron – “quello di cui abbiamo bisogno è un radicalismo meditato. Deve venire da una base forte e solida. C'è un radicalismo facile: prendi l'ultima idea prodotta dall'Institute of Economic Affairs o un altro centro studi e dici: ‘Bene, ecco qui'. Il vero radicalismo è studiare come pensi di andare da A a B a C a D. Ed è questo che noi stiamo facendo”. Cioè non aspettatevi una rivoluzione istantanea, ma un progetto a più fasi, rivoluzionario.
    Il Policy Exchange – “il più grande, ma anche il più influente think tank della destra”, come l'ha definito il Daily Telegraph, con sede a Westminster – è nato nel 2002 per questo. E non è un caso che a fondarlo e a imporlo sulla scena del conservatorismo moderno sia stato Michael Gove, giornalista, intellettuale e politico di cui tutti dicono sempre un gran bene. E' il più citato tra i consiglieri di Cameron, pure se non ama apparire e non ha smanie di leadership: ha soltanto molte idee e il suo progetto di riforma delle scuole (è ministro ombra per Scuole, Famiglie e Bambini) ha già scatenato polemiche, soprattutto tra gli iscritti ai sindacati degli insegnanti. Il Foglio lo aveva incontrato nel 2005, in una terribile giornata elettorale a Guildford prima del voto di maggio che avrebbe riconfermato Blair al suo terzo mandato, e allora Gove, alle prime esperienze da politico, si comportava ancora come un commentatore. Anche se il “canvassing”, il porta a porta, lo emozionava: “La sensazione è un po' quella che provi quando, dopo settimane di lotta con un poppante, tuo figlio finalmente ti fa il suo primo sorriso”.

    Raccontò che i Tory stavano cercando di rinnovarsi,
    di evolvere rispetto alla tradizione thatcheriana senza snaturarne l'eredità, citò più volte il ruolo straordinario che ebbero i think tank dell'era Thatcher – l'Institute of Economic Affairs e il Center for Policy Studies – e spiegò che anche il Policy Exchange era nato con lo stesso progetto: creare una leadership. Gove e Cameron erano già amici allora e avevano stretto il loro sodalizio, ma i tempi non erano ancora maturi, la parabola del neolaburismo non era ancora esaurita, le nuove leve dei Tory s'allenavano in quella che l'allora leader, Michael Howard, chiamava “la palestra”. Anzi, proprio in quel viaggio in auto a Guildford e poi sotto l'ombrello andando di casa in casa a lasciare messaggi e volantini elettorali, Gove parlò dell'unico grande tema che ancora oggi lo divide dall'amico Dave: la guerra in Iraq, la guerra in generale. “Voterei Blair soltanto perché ha fatto la campagna irachena”, ammise Gove con il suo solito sorriso gentile: si sentiva un neoconservatore à l'americana, pensava che la rimozione di Saddam Hussein fosse una gran cosa e che l'esportazione della democrazia fosse la battaglia imperdibile dell'occidente. Nel 2007 il Policy Exchange ingaggiò una guerra di civiltà sulla questione dell'integrazione dei musulmani nella società britannica, cui Gove aveva già dedicato un libro.

    Cofondatore del think tank è Nicholas Boles,
    l'uomo che ha costruito la campagna elettorale di Boris Johnson come sindaco di Londra e che ora guida l'“Implementation Team”, l'ufficio che prepara il Partito conservatore al governo. A dire il vero Boles – che fa parte del circolo ristretto degli amici di Cameron, la cosiddetta “banda di Notting Hill” – era candidato alle primarie per sindaco della capitale inglese, ma poi si ammalò gravemente (una forma di leucemia) e lasciò il passo a Johnson pur restando un suo stretto consigliere. Anche Boles è un neoconservatore, ma come Gove e come George Osborne, il cancelliere dello Scacchiere ombra e braccio destro di Cameron, tende di questi tempi a non parlarne troppo: su questi temi non c'è feeling con il boss, che vira più verso un conservatorismo tradizionale, pure se sulla guerra in Afghanistan non ha dubbi, si vince e basta (anche se ancora non è chiaro se invierà più truppe o no). Dal 2008 il Policy Exchange è guidato dal trentenne Neil O'Brien, noto per aver condotto la campagna contro l'euro (e l'Europa), liberista e soprattutto non appartenente alla cerchia ristretta di Cameron – secondo l'irriverente commentatore Guy Fawkes “un ottimo motivo per ascoltarlo”. Gli ultimi documenti redatti dal PX spiegano come si possa diminuire il ruolo del governo “dopo che la rivoluzione thatcheriana è morta con la crisi”, come ha scritto O'Brien; come rifondare il sistema scolastico (è tutta farina del sacco di Gove); come applicare politiche green che siano allo stesso tempo efficaci ed efficienti.

    Se il Policy Exchange si occupa per lo più di economia,
    il Center for Social Justice, diretto dall'ex leader dei Tory Iain Duncan Smith, ha a cuore le questioni sociali. Nel 2006 pubblicò uno dei testi di riferimento dei Cameroons sulla società inglese, “Breakdown Britain”, centonovantadue pagine che indagano le radici della povertà nel paese e le conseguenze su scuole, famiglie e bambini. Il già citato Tim Montgomerie, che era stato segretario politico di Duncan Smith quando era leader del partito, nel 2004 pubblicò un altro saggio molto letto e citato tra i Cameroons: “Whatever Happened to Compassionate Conservatism?”. Due settimane fa il centro studi ha presentato il suo ultimo lavoro (i maligni dicono che Cameron l'abbia letto e accantonato, impossibile applicarlo): un programma per rimuovere gli incentivi fiscali ai disoccupati che li inducono a non cercarsi un altro lavoro. La proposta – fatta personalmente da Duncan Smith – farebbe risparmiare allo stato 700 milioni di sterline l'anno e introdurrebbe un elemento di mobilità “alla staticità del welfare britannico”, ha spiegato l'ex leader conservatore. Questo, che è un  pezzetto dell'intero pacchetto di riforme che il centro studi presenterà nei prossimi mesi, permetterebbe di “aggiustare la ‘broken society'”, che è anche l'obiettivo cui lavora il Center for Social Justice per conto di Cameron.

    Che cosa resta di tanto pensare nel leader dei Tory che si appresta ad annunciare la sua rivoluzione a Manchester? Intervistato da Fraser Nelson sullo Spectator, Cameron dice: “Sono un Lawsoniano”, cioè un seguace di Nigel Lawson, cancelliere dello Scacchiere dal 1982 al 1989 che abbassò l'ultimo scaglione dell'aliquota di imposta aumentando così il gettito dai ceti più abbienti. Quindi Cameron non alzerà le tasse ai ricchi come vuole fare il governo Brown? Non proprio. “Sono un Lawsoniano ma credo che la responsabilità fiscale debba venire per prima, abbiamo questo enorme problema con il deficit, dobbiamo affrontarlo e dimostrare che lo sappiamo gestire bene”. Quindi la proposta Brown non sarà accantonata pure se l'Institute of Fiscal Studies dimostra, dati alla mano, che la maggiore pressione fiscale sulle fasce più abbienti farà perdere allo stato 800 milioni di sterline l'anno, dal momento che i più ricchi se ne andranno (o manderanno i loro soldi) altrove. Se non c'è da aspettarsi un taglio delle tasse immediato, il piatto forte è l'istruzione e questo era già apparso chiaro, dal momento che Gove è da tempo prodigo di dettagli e si è già esposto con la sua riforma “alla svedese” del sistema scolastico inglese. Infatti, quando Fraser chiede a Cameron in che cosa sarà diversa l'Inghilterra dopo cinque anni di governo conservatore, lui risponde: “Nell'istruzione, assolutamente”. E l'Europa? Chissà.

    L'euroscetticismo sta definendo i Tory di Cameron
    , che vuole un referendum sul Trattato di Lisbona pure se molti – ieri anche l'ex direttore dell'Economist Bill Emmott, in un editoriale sul Times – gli dicono che staccarsi dall'Ue sarebbe un grave errore: l'europeista Chris Patten, a Roma per il Convegno di Pontignano due settimane fa, aveva detto al Foglio che contava ancora in un cambio di rotta su Lisbona, “un elemento importante per la modernizzazione dell'Ue”. 
    Alla vigilia di Manchester, un verdetto sulla rivoluzione di Cameron non è ancora possibile. Le aspettative sul suo discorso sono molto, troppo alte. Nonostante sia leader ormai da quattro anni, il Cameronism è ancora una scommessa. Julian Glover, in un lungo articolo su Prospect, la riassume così: “Nel cuore del progetto Cameron c'è un piccolo gruppo di persone che dice le stesse cose, crede nelle stesse cose e vuole ottenere le stesse cose. Nessuno di loro sa se funzionerà. Tutti ammettono di essere pieni di tristezza e ottimismo”.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi