"Con Casini, ma non subito e non solo"

Perché un vero democratico, in fondo, dovrebbe essere rutelliano

Christian Rocca

C'è qualcosa di imperscrutabile nell'odio belluino di certi elettori e sostenitori del centrosinistra (sì, ce ne sono ancora) nei confronti di Francesco Rutelli, già deputato radicale, già fondatore dei Verdi, già giubilante sindaco di Roma, già ministro e vicepresidente del Consiglio, già candidato premier dell'Ulivo e forse prossimo transfuga del Pd e possibile cospiratore di varie trame di Palazzo per il dopo Berlusconi.

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    C'è qualcosa di imperscrutabile nell'odio belluino di certi elettori e sostenitori del centrosinistra (sì, ce ne sono ancora) nei confronti di Francesco Rutelli, già deputato radicale, già fondatore dei Verdi, già giubilante sindaco di Roma, già ministro e vicepresidente del Consiglio, già candidato premier dell'Ulivo e forse prossimo transfuga del Pd e possibile cospiratore di varie trame di Palazzo per il dopo Berlusconi. La sua più che vivace biografia politica, e qualche caduta di stile ai tempi delle monetine pidiessine contro Bettino Craxi, non bastano a spiegare un'acredine che, con tutta evidenza, razionale non è, al punto da non aver fermato i falsi pettegolezzi su sua moglie Barbara Palombelli, comicamente accusata di essere proprietaria delle strisce blu dei parcheggi a pagamento di Roma, malgrado le strisce blu siano di proprietà pubblica.

    Che a odiare Rutelli sia la sinistra estrema e comunista, oltre che la destra, è perfettamente comprensibile, anzi in un mondo normale l'antipatia riscossa da quelle parti dovrebbe allungare la colonna dei “pro” invece che quella dei “contro” di un leader del Pd. Ma che a detestarlo siano anche gli interpreti dello spirito-innovativo-del-Partito-democratico, cioè tutti gli esseri umani il cui cognome non cominci per “D'A” e non finisca per “lema”, è davvero un mistero.
    A me pare evidente che se l'idea del Pd non piace, allora Rutelli non lo vuoi vedere né da vicino né da lontano. Ma se si è affascinati dall'idea di un partito nuovo, riformista, sufficientemente liberale, lontano dalle vecchie tradizioni comuniste, socialiste, socialdemocratiche e pure democristiane, allora la persona che passa il convento è proprio Rutelli. Tanto più che a differenza dell'unico altro leader possibile, Walter Veltroni, oggi non farebbe un'alleanza con i reazionari di Tonino Di Pietro e con il manipolo di cronisti di quel nuovo giornale diretto di fatto da Giorgio Bracardi al grido di “In galera!”.

    Rutelli è l'unico dirigente del Pd che non è stato comunista. Che non è stato socialista. Che non è stato democristiano. E' stato radicale, e non se ne vergogna. Nel suo libro-manifesto, appena pubblicato da Marsilio col titolo “La svolta – Lettera a un partito mai nato”, rivendica di essere stato tra i promotori, assieme alla comunità transessuale, della legge che consente il cambiamento di sesso. Com'è possibile che i giovani della generazione Pd, quelli che il-Pd-è-un-partito-nuovo-e-non-l'unione-della-tradizione-comunista-e-democristiana, non si schierino con lui?
    Per i contenuti, direte: per la sudditanza nei confronti della chiesa, per la fecondazione assistita, per il testamento biologico e l'arco di posizioni che nel libro sono definite di “umanesimo laico”. Rutelli è convinto che il fondamentalismo laicista sia parente stretto del giustizialismo, ovvero un'altra pesante zavorra della cultura di sinistra, ma anche una deviazione dalla tradizione politica comunista. Continuare a dividersi tra clericali e anticlericali, sostiene Rutelli, è una battaglia di retroguardia, vecchia perlomeno un quarto di secolo. Rutelli spiega che una cosa è essere laici, un'altra laicisti. Una cosa è non credere, un'altra è disprezzare “il significato popolare della presenza religiosa nello spazio pubblico”. E se non si capisce la differenza, bisognerebbe chiedere a Barack Obama.

    A Rutelli può essere imputato di aver ecceduto in passato in opportunismi che gli hanno aperto il salotto buono degli ex comunisti e l'investitura a sindaco di Roma, ma oggi è l'unico del centrosinistra a dire chiaramente che il giustizialismo è un pericolo per la democrazia. E' tra i pochi a non odiare il mercato, nemmeno sotto i baffi, a non guardare con sospetto i piccoli imprenditori, a non andare in brodo di giuggiole all'idea di aumentare le tasse. Rutelli non è antiamericano, non è antioccidentale, non è anti israeliano e già solo questo lo qualifica non poco rispetto ad altri. Ha rapporti seri e consolidati con il Partito democratico americano, quello vero, e con i centri studi di Washington che contano grazie a Gianni Vernetti. Nel saggio scrive qualche banalità di troppo sugli anni di Bush e sarebbe il caso che in una eventuale ristampa si facesse aiutare da Vernetti, ma resta il fatto che se in Italia c'è qualcuno anche solo lontanamente (lontanamente) paragonabile a un gigante del riformismo europeo come Tony Blair, conversione al cattolicesimo compresa, o all'esperienza di governo dei democratici Usa, questo è Rutelli.

    Il curriculum è perfetto, ma nel Pd non rappresenta nessuno. Sarà costretto a uscirne e immagina un “governo del presidente”, magari con Luca Cordero di Montezemolo. La colpa del fallimento può essere certamente sua. Oppure è vero che il Pd è “un partito mai nato”.

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