Altra nota per il professor Sartori

A New York il conflitto di interessi c'è, ma la democrazia non è in pericolo

Christian Rocca

Tocca scrivere un'altra nota informativa al professor Giovanni Sartori, da estendere per conoscenza a tutti quelli che ripetono senza sapere di che cosa parlano che in America un magnate dei media e della finanza per legge non possa assumere cariche pubbliche. C'è da segnalare, questa volta, un articolo di lunedì del New York Times dal titolo: “Il comitato cittadino che dovrebbe monitorare i comportamenti etici potrebbe avere a sua volta dei conflitti di interessi”.

    Tocca scrivere un'altra nota informativa al professor Giovanni Sartori, da estendere per conoscenza a tutti quelli che ripetono senza sapere di che cosa parlano che in America un magnate dei media e della finanza per legge non possa assumere cariche pubbliche. C'è da segnalare, questa volta, un articolo di lunedì del New York Times dal titolo: “Il comitato cittadino che dovrebbe monitorare i comportamenti etici potrebbe avere a sua volta dei conflitti di interessi”. E' la storia del Comitato sul Conflitto di Interessi, istituito a New York nel 1989, e composto da cinque membri. Il Times ricorda che ciascuno di loro, in carica per sei anni, è stato nominato dal sindaco di New York Mike Bloomberg, ovvero dal multimilionario magnate dell'informazione finanziaria americana con molteplici interessi privati intrecciati all'attività di primo cittadino, nel frattempo diventato “mero proprietario” del suo impero.

    Secondo la ricostruzione del Times, i controllori di Bloomberg nominati da Bloomberg hanno rapporti con l'apparato di finanziamento del comune guidato da Bloomberg e con le donazioni private di un certo multimilionario cittadino che si chiama Bloomberg. Invece che accusare il sindaco di aver instaurato il fascismo, il giornalone newyorchese chiede semplicemente se tutto ciò non possa “sollevare domande sul potenziale conflitto di interessi”. Una dei cinque membri, Monica Blum, è presidente di un gruppo che riceve fondi dal comune. Un'altra, Angela Mariana Freyre, è un'ex lobbista che ha cercato di influenzare l'ufficio del sindaco e il Consiglio comunale. Quasi tutti sono nei consigli di amministrazione di società no profit che hanno contratti col comune o ricevono donazioni benefiche da Mr. Bloomberg. Niente di illegale, ribadisce il Times, ma il conflitto di interessi è palese. I sostenitori del sistema newyorchese spiegano che finché il conflitto resta potenziale e trasparente non c'è problema, anche perché la soluzione alternativa – costringere i membri a liberarsi degli interessi privati – sarebbe miope: “I membri del comitato hanno anche altre vite”, ha detto il presidente del board Steven Rosenfeld.

    C'è da fare un passo indietro e ricordare anche la nota precedente, inviata al professor Sartori a metà agosto. In quell'occasione era stato il settimanale liberal New Yorker a definire “intoccabile” Bloomberg. La rivista, con un garbo assente nel dibattito italiano, ha raccontato che il sindaco miliardario ha comprato la sua carica a suon di milioni, modificato a piacimento le regole, fino a garantirsi un terzo mandato, cancellato la competizione e trasformato New York in una Repubblica delle banane. Senza che il Comitato sui conflitti di interesse, ha aggiunto lunedì il New York Times, abbia nulla da dire.
    Due anni fa, inoltre, Bloomberg è stato a lungo tentato dal candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti ed è stato nella short list dei candidati vicepresidenti sia di Barack Obama sia di John McCain, senza che nessuno gli avesse fatto notare che con un conflitto di interessi così enorme sarebbe stato impossibile, o addirittura illegale, assumere quelle cariche. Questo perché, al contrario di quanto si pensa in Italia, in America non c'è una legge federale sul conflitto di interessi, esiste soltanto un Codice di “leggi etiche” di 90 pagine, disponibile presso l'United States Office of Government Ethics, che però non si occupa dei conflitti potenziali e preventivi, come chiede la sinistra italiana, ma di garantire la trasparenza decisionale e sanzionare i comportamenti privati che effettivamente confliggono con gli interessi pubblici.

    Non c'è l'obbligo di mettere i propri asset in un fondo cieco, meno che mai quello di dismettere i propri beni o partecipazioni, e nemmeno quello di rendere note le dichiarazioni dei redditi. Il Codice prescrive “l'esclusione”, cioè l'astensione dal partecipare a decisioni pubbliche che potrebbero favorire interessi privati, ma – attenzione – solo per gli impiegati pubblici, non per il presidente degli Stati Uniti, non per il vicepresidente, non per i deputati, non per i senatori, non per i giudici federali (articolo 202, comma c del Codice degli Stati Uniti), perché la ricusazione obbligatoria potrebbe, in teoria, interferire con i doveri costituzionali di chi guida l'esecutivo, fa o interpreta le leggi. In una democrazia liberale è più importante l'interesse pubblico che gli eletti sono chiamati a perseguire, piuttosto che il potenziale conflitto con i loro interessi privati.