Il golf ti fa bestia

Paola Peduzzi

Questo gioco istiga la bestemmia”, disse qualche anno fa un giovane borghese, tutto Bocconi ed erre moscia e villa alle Cinque Terre, mentre cercava di colpire una pallina con la mazza da golf. Nel campo pratica di Opera, alle porte di Milano, il giovane si torceva, si alzava, si riabbassava, ansimava, sudava, si riposizionava, ma non c'era verso.

    “Lo scopo del golf è mettere una palla molto piccola dentro una buca ancora più piccola con armi straordinariamente mal disegnate per lo scopo” (Winston Churchill).

    Questo gioco istiga la bestemmia”, disse qualche anno fa un giovane borghese, tutto Bocconi ed erre moscia e villa alle Cinque Terre, mentre cercava di colpire una pallina con la mazza da golf. Nel campo pratica di Opera, alle porte di Milano, il giovane si torceva, si alzava, si riabbassava, ansimava, sudava, si riposizionava, ma non c'era verso: la palla restava lì, al limite rotolava di qualche centimetro per lo spostamento d'aria causato dai movimenti dinoccolati, ogni tanto fingeva di volare di qualche metro, giusto per arrestare il sacramentare inconsulto del giovane borghese.
    Il presidente venezuelano Chávez dice che il golf è il segno della decadenza del capitalismo, roba da borghesi al capolinea, e ne vieta la pratica in tutto il paese, sia mai che il contagio dell'esclusività distrugga il suo progetto socialista. Non lo sa (perché se non sei mai andato su un campo da golf non puoi immaginare che quelle personcine irreprensibili che trascinano elegantemente sacche costosissime possano trasformarsi in bestie), ma il colonnello non ha molto da temere: i golfisti sono borghesi decadenti, ma fanno male soltanto a loro stessi. Persino i russi e i cinesi l'hanno capito, e di borghesia lor sì che se ne intendono. Bandirono il golf quando il Muro era ancora su, poi i comunisti assaliti dal capitalismo hanno capito che assieme ai campi da golf arrivano orde di golfisti dal soldo facile e così hanno cominciato a costruire campi su campi. Dal 2007 e per i prossimi dieci anni la World Cup – l'unica competizione a squadre, fatta eccezione per la Ryder Cup, il momento in cui il golf sfodera il suo lato rugbista, che si tiene ogni due anni – si svolge sul campo più grande del mondo, un improbabile percorso che comprende una quantità di buche che soltanto i cinesi potevano pensare di mettere assieme (di solito i campi hanno 18 buche, nei complessi grandi si arriva a 36, al massimo 72, ma è roba davvero rara: l'Omega Mission Hills conta 216 buche), con tutte le insidie possibili in fila, dall'acqua ai boschi ai ponticcioli alle strade. Un inferno cinese con un giro di business miliardario.

    La dimostrazione massima del fatto che ormai il golf
    non sia più uno sport da temere è fornita dal dittatore dei dittatori, il sempre più invisibile e atomico padrone della Corea del nord, Kim Jong-Il, “il golfista più bravo del mondo” secondo i media di Pyongyang. C'è un unico campo da golf nel paese, e la prima volta che il caro leader ci ha giocato ha segnato ben cinque “hole in one”, buca in un colpo solo, e ha consegnato uno score (il foglietto su cui si marcano i colpi fatti) eccezionale, tanto basso che neppure Tiger Woods quando ancora era baciato dalla grazia divina avrebbe mai potuto sognare. Gli storici del regime sostengono che ogni volta che Kim scende in campo faccia almeno tre o quattro “hole in one” a giro, ma è evidente che neppure i cultori del mito del dittatore possono credere a una balla così: l'“hole in one” è una chimera per la stragrande maggioranza dei golfisti, se ti capita una volta nella vita sei super fortunato, ci sono professionisti che giocano dodici ore al giorno e che non hanno mai avuto tanta buona sorte, figurarsi Kim Jong-Il. Ma la mania di grandezza è uno dei tratti che i dittatori condividono con i golfisti.

    In quello che dovrebbe essere l'olimpo verde della borghesia
    le persone assumono atteggiamenti molto poco borghesi. Se Chávez avesse mai seguito una gara di golf da vicino, lo saprebbe. E' uno sport formalmente borghese, certo, borghesissimo: costa tanto, è praticato in luoghi molto chic, ha regole di etichetta che neanche a Buckingham Palace, piace solitamente a gente snob e parecchio antipatica. I golfisti sono una specie rara e in gran parte evitata, un po' perché non fanno che parlare di golf – una noia micidiale, quasi quanto il golf guardato in tv, metodo clinicamente testato per combattere l'insonnia – e un po' perché sono inevitabilmente altezzosi. Eppure non c'è sport che renda tutti tanto volgarmente umani.
    Un vecchio maestro italiano ripeteva sempre: “Stai attento, sul campo da golf si vede quel che sei veramente”. Lo diceva ai ragazzini che sarebbero poi diventati la leva golfistica dell'Italia, e molti lo vivevano come il monito di un rimbambito, salvo poi ritrovarsi a piedi nudi, ricoperti di terra, in un fosso a cercare di tirare fuori una pallina saldamente conficcata nel fango, spaccando ferri e appellandosi – tendenzialmente in modo blasfemo – a tutti i santi del paradiso, in un'età in cui i ragazzi aiutano la perpetua a sistemare le torte per la festa dell'oratorio.
    Il golf tira fuori il peggio delle persone, l'animo umano brutto e cattivo, è la rappresentazione continua del “Signore delle mosche”, ambientato su prati curati invece che sull'isola deserta. Pure se dai mirabolanti racconti che i golfisti fanno delle loro performance (possono mettersi lì a raccontare colpo per colpo, buca per buca, con ampia e precisa descrizione degli alberi e dell'erba e della sabbia, senza badare se l'interlocutore nel frattempo stia dormendo o tentando di darsi fuoco) vengono sempre tralasciati, come dire, i dettagli. Sul campo da golf succede di tutto, e gran parte di quel tutto è irriferibile. Signori eleganti con la pipa e il cappellino à la Ben Hogan si trasformano in ladruncoli di periferia e, stremati dall'ennesima palla persa, si fanno prendere dalla tentazione, ne buttano giù un'altra e gridano: “Trovata!”. Nessuno oserebbe mettere in discussione la parola di un tenero vecchietto mezzo ricoperto di foglie, così il baro passa inosservato e nell'attimo successivo la compiacenza è già diventata abitudine. Recita un adagio golfistico: “Il golf è il secondo gioco al mondo in cui è più facile barare”: il primo è il solitario. La tentazione è forte a ogni colpo: la palla messa male che basterebbe un zic per sistemarla su un ciuffetto comodissimo; la palla nel bosco che non è tua ma è messa così bene, c'è giusto un'apertura per uscire senza problemi, in fondo che male c'è; il colpetto involontario che andrebbe contato, ma in fondo non se n'è accorto nessuno, erano tutti voltati da un'altra parte. La bestia ci mette poco a emergere, è sempre lì che blatera nella testa del golfista, assieme all'ira contro quella palla che non vola mai dove dovrebbe. A volte, alla fine delle 18 buche, quando si ricontano i colpi insieme ai compagni di gioco si può assistere a scene spassose in cui i borghesissimi giocatori finiscono per insultarsi su quel colpo perso o rubato o inventato o chissà cosa alla buca 15 (sono falliti matrimoni, sul green della diciottesima buca, sono saltate amicizie, unioni, passioni).

    Rubare a volte diventa una cosa tanto meccanica che gli amici non ci badano più. Bill Clinton, notoriamente uomo probo, trasparente e sincero (“mai fatto sesso con quella donna”, ricordate?), è noto come Mr. Mulligan. I golfisti tirano la “mulligan” quando hanno fatto un brutto colpo, cioè di fatto mettono giù un'altra palla e fanno come se la prima non fosse mai stata tirata: di solito ci si mette d'accordo con i compagni di gioco (nelle gare è naturalmente vietata) e si ha a disposizione una o al massimo due “mulligan” su 18 buche. Pare invece che Clinton ci abbia preso gusto con la storia delle “mulligan” e che tiri regolarmente un'altra palla ogni volta che fa un brutto colpo, accompagnandola con una buona dose di imprecazioni, ciancicando il sigaro e accanendosi fino a che non gli viene il colpo giusto. In un'intervista a Golf Today, l'ex presidente ha smentito tutto, ha detto che la storia delle “mulligan” è stata montata e ha aggiunto: “Non è detto che la ‘mulligan' ti permetta alla fine di fare un risultato migliore”, che come giustificazione ricorda un po' quelle date sui suoi rapporti con la stagista Monica. Nonostante la pericolosa tendenza alla truffa, Clinton ha però capito lo spirito del gioco, in fondo è sempre stato un uomo saggio, lui: “Il golf è come la vita – ha spiegato – La competizione più grande è quella contro te stesso. Tutte le ferite più profonde sono quelle che ti infliggi da solo. E capita spesso di prendere batoste non meritate. Per questo è importante non arrabbiarsi troppo quando stai avendo una brutta giornata”.
    Consiglio prezioso quanto inascoltato. I golfisti si incazzano come bestie, altroché. L'etichetta impone il divieto assoluto a ogni genere di gesto di stizza – il buon golfista soffre in silenzio – ma sul campo è piuttosto consueto vedere volare ferri (è quanto di peggio si possa fare, si rischia l'eliminazione immediata) per non parlare dei bastoni spezzati per la rabbia e della quantità di neologismi inventati lì sul momento, perché nemmeno tutte le parolacce di un ricco vocabolario possono esprimere quel che sente uno a litigare come un cretino con una pallina.

    Persino quel mostro di Tiger Woods, l'uomo bionico del golf
    , lo swing perfetto, il campione più campione che ci sia mai stato, col passare del tempo, l'aumento degli acciacchi e la perdita di lucidità, ha iniziato a sfogare la sua rabbia sotto gli occhi di tutti (e non c'è niente di più divertente di vedere l'uomo perfetto comportarsi come il più sgarrupato dei golfisti, quello che riconosci a prima vista, con la maglietta fuori dai pantaloni, i rametti rimasti impigliati nella sacca dopo un'escursione nel bosco e un qualche ferro spezzato contro un albero brandito come trofeo). Domenica scorsa, all'ultimo giorno del Pga, uno dei quattro tornei più importanti del mondo, Tiger era in testa alla classifica. Non è mai successo nella storia del genio del golf che partisse per l'ultimo giro di un torneo con due colpi di vantaggio e poi non vincesse. A seguirlo c'era la solita calca, il campo era difficilissimo, ma Tiger manteneva il vantaggio rispetto agli avversari. Fino a che non ha cominciato a insidiarlo un signor Nessuno, uno che neanche i più accaniti possono ricordare (soltanto Tiger se lo ricordava, gli aveva già giocato uno scherzetto in passato), un sudcoreano di 37 anni, uno da metà classifica e pure un po' più giù: Y. E. Yang. Piano piano, Tiger ha cominciato a perdere colpi, sui green ha dato il peggio di sé, ha messo il broncio che di solito si trasforma in feroce rimonta, ma il gioco non è riuscito e lui mormorava arcigno chissà cosa – parolacce di sicuro – e si rabbuiava e mormorava e si dava il putt sul piede – con stizza – e rimormorava. Yang intanto, con il coraggio di chi non ha mai vinto nulla e quindi nulla ha da perdere, diventava più preciso, fino all'ultima buca, quando ha definitivamente urlato tutta la sua gioia: “Forse non vincerò mai più niente, ma oggi è davvero un gran giorno”. Di fianco a lui Tiger non aveva ancora smesso di flagellarsi: quest'anno è andata proprio male per il principino, neanche un torneo vinto tra quelli che contano, se va avanti così finisce che un bastone lo fa volare pure lui.

    Persino il presidente del sogno, quello bello con la voce bella e la famiglia bella e le idee belle e il progetto bello e vivremo tutti felici e contenti, persino lui, Mr. Obama, sui campi da golf si trasforma. Diventa un uomo. Ma non l'uomo che vuole venderci sua moglie Michelle, quello che butta la pattumiera e fa fare la pipì in giardino al cagnolino. No, l'uomo bestia. Il golfista tout-court, insomma (la trasformazione diabolica vale anche per le donne, naturalmente, le quali di solito diventano erinni isteriche e scoppiano a piangere per un drive sbagliato e tirano rumorosamente su col naso almeno per le successive quattro buche, tanto per distrarre chi c'è di fianco: se gioco male io, devono giocare male tutti). In un articolo su Time sono stati svelati tutti i difetti del “Golfer in Chief”. Non mancano gli elogi: Obama non fa mai “mulligan” e non si concede mai il colpo, nemmeno quando è attaccato alla bandiera, è noiosamente ligio alle regole. Però gioca sulla psicologia, inziga l'avversario – che spesso è il suo portavoce, Robert Gibbs, che tutto pare tranne un avversario temibile – e cerca di fare con la parlantina quel che non riesce a fare con le mazze. Ti frega con la testa perché non è forte abbastanza per fregarti con il gioco, sta ancora abituandosi al nuovo drive e ha un problemuccio sui tiri lunghi. La verità è che sul campo da golf Obama si vergogna. Il suo swing è poco meno di un segreto di stato: è chiaro che non si piace. Anche gli ego più ingombranti di fronte all'ansia di mandare una palla in buca diventano fragili e paurosi. Tanto che, in un meraviglioso lapsus golfista, Obama è andato fino a Mosca per sfogarsi. Nella sua prima intervista con una televisione russa, al presidente è stato chiesto che cosa non ama di se stesso, e lui: “Il mio swing” (immaginatevi la faccia dell'intervistatore russo, mentre tutti parlavano del G8, della Guerra fredda che ritorna e di come si guarderanno negli occhi Putin e il presidente e lo scudo missilistico e il nucleare iraniano) e poi ha aggiunto ridendo: “Forse voi non avete qui in Russia il clima giusto per giocare a golf, ma è un gioco in cui davvero vorrei essere bravo, eppure, non so come, ma la palla va di qui e poi va di là e non va mai dritta”.

    Il tallone d'Achille del presidente d'America è il golf, Chávez dovrebbe segnarselo quando disegna i suoi scenari geopolitici. Pure se, mentre toglie il velo alla borghesia e alle sue perversioni, il caudillo venezuelano farebbe bene a non dimenticare che mettere a tacere la bestia golfista non è, nel lungo periodo, azione di buon auspicio. Nel 1475, James II, re di Scozia, vietò il golf proprio nelle terre in cui era stato inventato, su quei poggi e in mezzo a quei buchi di sabbia per proteggere le pecore che poi sarebbero diventati il prototipo dei famigerati bunker. Diceva, il re, che quello sport al limite dell'ossessione minava la sicurezza nazionale, perché i soldati si mettevano a tirar palline invece che allenarsi con l'arco. Quando poi la minaccia di guerra scomparve, il nipote James IV, golfista appassionato, tolse il divieto. Era il 1502. Undici anni dopo, nella battaglia di Flodden contro gli inglesi, la Scozia subì una delle sconfitte più terribili della sua storia. Lo stesso re fu ammazzato sul campo assieme a tanti altri nobili golfisti scozzesi. Gli inglesi vinsero perché erano fortissimi con l'arco.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi