Le ragioni del Cav.

Lodovico Festa

Non vi è grande politica – ricordano alcuni sapienti interventi “estivi” – senza visione della storia nazionale e del ruolo che in questa si vuole esercitare. D'altro verso però non c'è comprensione della storia nazionale senza analisi critica degli accadimenti reali. E, in tanti richiami retorici all'Italia, pare cogliersi un'attenuata coscienza delle tendenze concrete in atto.

    Non vi è grande politica – ricordano alcuni sapienti interventi “estivi” – senza visione della storia nazionale e del ruolo che in questa si vuole esercitare. D'altro verso però non c'è comprensione della storia nazionale senza analisi critica degli accadimenti reali. E, in tanti richiami retorici all'Italia, pare cogliersi un'attenuata coscienza delle tendenze concrete in atto. Lasciamo perdere le vicende della formazione dello stato unitario. Le diatribe su “conquista regia” o “riscatto nazionale”. Comunque, al di là di come la si pensi sul risorgimento, fascismo, Seconda guerra mondiale e fuga dei Savoia l'8 settembre rappresentano una radicale cesura nella storia patria. A questa si rimediò cercando nuovi elementi fondativi per lo stato nazionale. Da una parte il richiamo a una resistenza (che peraltro pur se gloriosa ha avuto basi di massa limitate) e dall'altro l'appello a una costituzione (che rappresenterebbe la perfezione in terra dei migliori ideali possibili, mentre in realtà è frutto di un, certamente eroico, compromesso tra partiti schierati sui due lati della guerra civile europea che, seppur fredda, continuava dopo il 1945).
    I De Gasperi, i Croce, i Saragat, i Nenni, i Dossetti, i Calamandrei, i La Malfa, i Togliatti realizzarono nel secondo Dopoguerra un capolavoro trovando il contesto possibile per far rivivere il paese sia pure con meccanismi assembleari enfatici, in un confuso regime di una magistratura intesa come corporazione non come funzione civile responsabilizzata, coprendo l'assetto oligarchico dei poteri fondamentali dell'economia e implicitamente consentendo una diffusa illegalità (dall'evasione fiscale al finanziamento dei partiti). In questo quadro la Fiat di Valletta, la Confindustria di Costa e la Mediobanca di Cuccia, la splendida generazione di cattolici impegnati in economia (da Saraceno a Mattei, da Vanoni a Dell'Amore fino al Pastore della Cisl) ma anche la Cgil produttivistica di Di Vittorio e Novella fecero il miracolo. Che si poggiava, però, su un compromesso dalle basi instabili. Che vacillò negli anni '60 e '70, e crollò quando alla fine degli anni '80 cessarono le condizioni di “protezione esterna” di politica e economia nazionali. Messo fuori gioco il più conseguente riformista, Bettino Craxi, pagati esorbitanti prezzi al potere autoreferenziale delle toghe, subite tutte le influenze estere possibili senza il filtro di un forte potere democratico nazionale, l'Italia si è trovata negli anni '90 priva di una “storia”.

    Come faceva a reggere l'ideologia della Repubblica perfetta
    nata da una Resistenza perfetta, inquadrata da una costituzione perfetta con la demonizzazione di parte essenziale del ceto politico nato da quella Repubblica, da quella Resistenza, da quella Costituzione? La sinistra dc e gli eredi del Pci, vendendo al diavolo la loro autonomia politica, dispersero l'anima della Repubblica. Quel che è seguito, è la vicenda di un potere senza anima contro la realtà di un popolo con una politica debole, scarsamente filtrata da cultura, progetto, visione ma insieme saldamente radicata nella società.
    Romano Prodi continua a pensare che la vittoria berlusconiana sia frutto delle tv. E ricorda come in ogni caso lui abbia prevalso ben due volte. Ma il fatto da spiegare non è come abbia fatto a vincere Prodi: nel '96 al suo fianco aveva il Corriere, la Stampa, la Repubblica, il Sole, Cgil-Cisl-Uil, più o meno tutte le banche nazionali, Confartigianato, Confcommercio, la conferenza dei Rettori, la Confindustria, l'80 per cento dei giornalisti Rai, Anm, Csm, Corte costituzionale e avanti elencando. Questo schieramento, con solo minime incrinature, si riprodusse nel 2006. Insomma la vera questione da spiegare è come sia stata possibile la sconfitta della nomenclatura italiana, che ha forse un parallelo solo con quella sovietica (quella spagnola fu molto più articolata: si pensi solo al ruolo del re e dell'Obra). E' l'incapacità di leggere questa storia che rende impossibile una grande politica a sinistra.

    E a destra? Per capire “la destra” va considerato il carattere postmoderno delle politiche europee, per cui molto della “spada” e della “moneta” non è più nella piena disponibilità della Repubblica, e come – lo dimostra la vicenda Cechia-Slovacchia rispetto a quella Serbia-Bosnia – nell'Unione le secessioni negli stati membri non costituiscono più un trauma tragico. Questo contesto ha reso possibile un movimentismo quasi postpolitico in cui l'azione compensa l'elaborazione, in cui l'identificazione del cittadino con il leader (che però dovrebbe sublimare i vizi popolari non riprodurli) surroga visioni di lungo periodo. In realtà le cose sono più complesse e una crescita culturale del centrodestra sta determinandosi anche in tempi veloci. Ma la tendenza di fondo è ancora questa. E potrebbe durare a lungo se non si riesce a ricostruire una storia comune della nazione, fuori dalle ideologie di copertura delle nomenclature. Potrebbe durare a lungo perché alla fine la “verità” del berlusconismo con tutti i suoi pasticci è centomila volte più vera dell'insegnamento morale di una certa Torino (e della sua magistratura), della “trasparenza” imprenditoriale e finanziaria di Carlo De Benedetti, della vera lotta al leghismo (che la sinistra assieme a Galan combatte e con cui si allea contro Formigoni), dei veri rapporti con la chiesa (ora maestra di vita contro Berlusconi ora centrale delle peggiori nefandezze oscurantiste), della dura guerra al conflitto di interessi ma in difesa della Rai lottizzata, del sostegno al “buon governo” dei Bassolino, dei Vendola, dei Loiero.