Le farfalle di Sierra Leone/12

Zio e nipote raggiungono “i pezzenti scozzesi” e sparano. Ma dalla casa si apre una porta...

Sandro Fusina

Non aveva piovuto, non  c'era vento, non erano  passate altre carrozze,  sulla strada era rimasta  una rotaia abbastanza  distinta che ora svoltava  in un viottolo a destra.  Un viottolo che  scompariva e ricompariva in una campagna  ondulata. Quanto vantaggio potevano avere?  Non molto. Non sapevano di essere inseguiti.  Quando avevano assaltato la carrozza  erano a piedi.

    Non aveva piovuto, non c'era vento, non erano passate altre carrozze, sulla strada era rimasta una rotaia abbastanza distinta che ora svoltava in un viottolo a destra. Un viottolo che scompariva e ricompariva in una campagna ondulata. Quanto vantaggio potevano avere? Non molto. Non sapevano di essere inseguiti. Quando avevano assaltato la carrozza erano a piedi. Non dovevano essersi mossi da molto lontano. A meno che non fossero vagabondi. Se erano vagabondi era meglio. Non avevano un rifugio dove andare a nascondersi. Alvise e Lorenzo invece di seguire la stradina ad ogni ansa tagliavano nei campi, nei prati, saltavano recinzioni, passavano sotto i rami bassi degli alberi, incitavano i cavalli con la voce e il frustino. Lorenzo era molto compiaciuto di mostrare ad Alvise la tecnica che aveva imparato a Vienna. Cavalcava ritto sulla sella senza mai assecondare i movimenti del cavallo.

    Alvise non aveva mai seguito una scuola, ma con il suo morello era una cosa sola. Era domenica, la campagna era deserta, non c'era nessuno che minacciasse con i forconi i due cavalieri che sembravano intenti a una corsa giocosa, come se davanti a loro corresse un cervo. Davanti a loro non correva nulla. La carrozza era già ferma da tempo dietro a una casa di contadini a un piano, con il tetto di paglia. Chi fosse arrivato dalla strada, nelle due direzioni, non l'avrebbe vista, perché, dove la casa non la copriva, qualcuno aveva provveduto a mascherarla con paglia e fascine. Il capolavoro per il quale il fabbro aveva temprato il ferro, per il quale il bronzista aveva modellato la cera e fuso il metallo, lo stipettaio aveva congegnato gli incastri, il conciatore aveva scelto le pelli, il doratore aveva impresso i fregi, il tappezziere aveva studiato le imbottiture, il sellaio aveva creato corregge eleganti e robuste, il capolavoro per il quale Alvise Dolfin aveva speso volentieri una fortuna, aspettava inconsapevole di essere smontata, fatta a pezzi, perché ogni materiale fosse destinato a altri scopi più banali. Il ferro a strumenti per i campi e ad armi rudimentali. Il legno a tutti gli scopi che una famiglia di contadini poveri può utilizzare il legno, a manici, a scatole e contenitori, a piccoli arredi rustici, al fuoco per l'inverno. La pelle a farsetti pretenziosi per la festa, a scarpe senza forma, a borse cucite con un grosso filo di canapa. Il bronzo a un fonditore di paese. Se avessero seguito la strada, Alvise e Lorenzo sarebbero passati oltre e la carrozza avrebbe affrontato a pochi mesi di vita il destino che la aspettava dopo una lunga vita di servizio, in mano di padroni diversi, sempre più concilianti nelle esigenze estetiche e funzionali.

    Se Alvise e Lorenzo fossero arrivati per la strada, gli occupanti della casa li avrebbero sentiti in tempo e li avrebbero aspettati e spiati. Ma Alvise e Lorenzo avevano tagliato per i campi. Avevano calpestato il grano. Avevano terrorizzato un gregge di pecore abuliche. Avevano disturbato qualche quaglia e un fagiano. Erano arrivati su una collinetta. Si erano fermati a controllare quale direzione prendesse la strada. Avevano scorto la carrozza sul retro della casupola. A poche centinaia di metri di distanza. Nessuno li aveva visti. Nessun cane aveva abbaiato. Ogni tanto un belato soverchiava il ronzio degli insetti. Alvise si mise l'indice in bocca e lo puntò verso il cielo. Un'aria leggera soffiava dalla casa verso di loro. Passava oltre, per andare più lontano, per portare i loro rumori a due cavalieri che li avevano seguiti a distanza fino da Londra e che ora, sorpresi dalla piega degli avvenimenti, cercavano di tallonarli senza farsi scorgere. Alvise e Lorenzo erano contro vento. Se fossero stati cauti dalla casa nessun essere umano avrebbe potuto sentirli, nessun cane avrebbe potuto fiutarli. Smontarono, legarono i cavalli in una macchia di salici. Doveva esserci acqua lì vicino, pensò Lorenzo, quando vide alzarsi e zigzagare nel cielo uno stormo di beccac- cini. Pensò che il suo fucile speciale era in quel tugurio. Imitò lo zio Alvise. Slacciò la fibbia degli speroni, prese le pistole dalla sella, corse curvo in discesa, seguendo la protezione delle recinzioni. Dalla casa arrivò un nitrito furibondo, il pianto di un bambino, l'urlo di una donna, un vociare concitato e indistinto. Alvise si gettò a terra. Lorenzo lo seguì.

    Restarono immobili dietro una siepe. Comparve una donna con un bambino in braccio, singhiozzava, andò alla carrozza, depose il bambino per terra, aprì la portiera, sollevò il bambino, lo sistemò sul sedile. Dall'angolo spuntò un uomo alto. Aveva una bottiglia in mano. “Cazzo, il mio vino”, pensò Alvise. L'uomo incespicò, si appoggiò al muro, portò la bottiglia alla bocca, poi la gettò con un gesto ampio, come se volesse lanciarla lontana, la bottiglia gli cadde a pochi metri dai piedi, si infranse con un rumore che Alvise e Lorenzo sentirono benissimo, che fece voltare la donna. Aveva il volto stravolto dal pianto. L'uomo le si avvicinò, cercò di abbracciarla. La donna lo colpì con una gomitata. Urlò qualcosa. Lorenzo non distinse una sola parola. Guardò Alvise con aria interrogativa. “Scozzesi”, disse Alvise sottovoce. Rimasero immobili. L'uomo si era inginocchiato accanto alla donna. Dai sussulti della schiena sembrava che piangesse, che singhiozzasse. Alvise fece segno a Lorenzo di strisciare verso destra, lui strisciò dritto versa la carrozza. Lorenzo si fermò un attimo a riposare. Si appoggiò sul fianco destro. Per sciogliere un muscolo che gli doleva fece un movimento ampio con il braccio sinistro. In mano aveva la pistola, udì uno scatto, sentì una torsione al polso, il cane era alzato, l'indice si contrasse sul grilletto. La detonazione lo assordò. Lorenzo rotolò verso sinistra, puntò la seconda pistola.

    La prima era intrappolata tra i denti di una tagliola per le volpi. Lo sparo aveva fatto voltare l'uomo e la donna inginocchiati accanto alla carrozza. Alvise si era alzato e correva urlando verso di loro puntando le pistole. I due non fecero in tempo ad alzarsi. Alvise gli era già addosso, con una pistola puntata alla bocca della donna che non aveva avuto il tempo o l'energia per voltarsi e l'altra alla nuca dell'uomo che balbettava a testa bassa. Lorenzo si alzò e corse a ripararsi dietro la carrozza. Quando vide un altro uomo spuntare sbraitando dall'angolo della casa prese la mira e sparò. La palla si perdette sopra la testa del bersaglio. L'uomo sparò a sua volta. I vetri di un fanale andarono in frantumi. Alvise soffocò l'impulso di sparare nella nuca dell'uomo inginocchiato davanti a lui. Abbassò il cane e lo colpì col calcio. Costrinse la donna ad alzarsi e se la mise davanti. Disse con un tono e un ritmo che Lorenzo non gli aveva mai sentito: - Pezzenti, siamo venuti a riprenderci quello che ci avete rubato. E' meglio per voi se ubbidite senza storie”. L'altro uomo si era rintanato nella casa. Dopo qualche attimo la porta sul retro cominciò ad aprirsi. (12. continua